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L'inno di un profeta riluttante
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L'inno di un profeta riluttante

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About this ebook

Quando predice la morte di un amico, con un’incredibile precisione e una dovizia di particolari sbalorditiva, la vita del diciassettenne Luke Hunter si fa complicata. L’intera Stokum, la cittadina del Michigan in cui vive, è a conoscenza della sua premonizione e vorrebbe saperne di più, ma Luke si chiude in sé stesso, tiene a distanza i curiosi e non rivela a nessuno, neanche ai genitori e al suo amico Fang, che le profezie di morte continuano a ripetersi. E mentre tutti cercano di trarre profitto dal suo “dono”, lui è costretto a fare i conti con l’assurdo e continuo incubo in cui la scoperta di questo scomodo talento lo ha gettato. Terrorizzato, Luke avanza a fatica attraverso un suo personale campo minato, disseminato di riflessioni esistenziali mai considerate prima e reso ancora più intricato da cristiani fondamentalisti desiderosi di “aiutarlo” e dai sentimenti che capisce di nutrire per la ragazza dei suoi sogni, nonché ex fidanzata dell’amico morto…

Un esilarante romanzo dark sulla vita e sulla morte, sul senso di isolamento e sul bisogno di appartenenza tipici dell’adolescenza.
 
LanguageItaliano
Release dateJan 16, 2019
ISBN9788833750361
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    L'inno di un profeta riluttante - Joanne Proulx

    ISBN: 9788833750361

    Edizione ebook: gennaio 2019

    Titolo originale: Anthem of a Reluctant Prophet

    © 2007 by Joanne Vasiga Proulx

    © 2019 by Sergio Fanucci Communications Srl

    via Giovanni Antonelli, 44 – 00197 Roma

    tel. 06.39366384 – email: info@leggereditore.it

    Il marchio Leggereditore è di proprietà

    della Sergio Fanucci Communications S.r.l.

    Indirizzo internet: www.leggereditore.it

    Proprietà letteraria e artistica riservata

    Tutti i diritti riservati

    Progetto grafico: One Digital Factory Srl

    Questa copia è concessa in uso esclusivo a

    [customer_name] ordine numero: [order_number]

    Per Martin, il mio sapore preferito in ogni cosa.

    E in ricordo di mia sorella, Laurie Elizabeth Vasiga, il mio cuore è triste per te.

    Uno, uno, uno, uno... vai su e giù lungo la tua nota come un cucciolo su e giù per una duna, finché non senti i morsi infetti o gli occhi che suppurano o il collo bruciato dal sole, finché non sei più vuoto, neppure per un dannato momento, né un po’ perso o hai un respiro spaventato. Finché sei così immerso negli uno da non essere più uno di niente. Sei una moltiplicazione risonante.

    Sei una folla.

    Tim Winton, Dirt Music

    1

    La prima volta che successe stavo sparando balle, o almeno era quello che credevo di fare. Non avevo idea di essere sul punto di ribaltare il mio mondo sul suo asse quando ho aperto bocca, quella notte nel seminterrato dei Delaney. Era il 7 ottobre 2002, e come per la maggior parte delle giornate a Stokum, quel rancido puntolino di città dove ero nato e cresciuto, il 7 di ottobre era trascorso in maniera del tutto indegna di essere ricordata. Sì, rammento che era il tipico genere di giornata di Stokum, ed è stato solo quella sera che le cose si sono fatte strane.

    Dopo cena ero andato da Todd Delaney per passare il tempo con la solita gente, fumando e ascoltando quell’insensata schifezza techno che piace a Todd. Non intendo dire molto sul conto dei Delaney, tranne che la madre di Todd non era mai a casa, per cui quando siamo arrivati ad avere diciassette anni il suo seminterrato praticamente puzzava (e quando dico che sua madre non era mai a casa intendo proprio mai. L’ultima volta che l’avevo vista stava andando a una festa per lo scoccare del millennio con una bottiglia magnum di vino infilata sotto il braccio magro). Un’altra cosa... per evitarmi di dare di matto sforzandomi di chiamarlo Todd, lui per noi è Fang, ‘zanna’, fin dalla prima elementare quando i suoi incisivi da adulto sono spuntati prematuramente, in formato extralarge, lasciando i denti anteriori da latte raggomitolati come minimarshmallow in mezzo a due zanne degne di He-Man. Questo gli dava un aspetto che ha causato a Fang parecchi problemi nei suoi anni formativi. Ancora adesso ha un sorriso piuttosto impressionante, quindi il soprannome gli è rimasto.

    In ogni caso, la notte del 7 eravamo nel seminterrato di Fang e l’aria era pesante, ma noi eravamo tutti rilassati e come sempre ridevamo per un nonnulla. Sedevo sul divano scassato che la madre di Fang aveva salvato da una qualche discarica, violentato dalla pulsante musica techno, tormentandomi su quanto fosse difficile essere amico di qualcuno che aveva gusti tanto schifosi in fatto di musica, il che dovrebbe darvi una qualche idea di quali fossero le cose a cui pensavo a quei tempi. Un altro impedimento allo sballarsi piacevolmente era Dwight Slater, lo spilungone parcheggiato accanto a me sul divano.

    Mi rendevo conto che i cuscini erano molli e tendevano a rotolare verso il centro infossato, ma pensavo comunque che il mio amico Dwight avrebbe potuto sforzarsi un po’ di più di rimanere sul suo lato del divano. Invece, continuava ad accasciarmisi addosso, urtandomi con la spalla o con il ginocchio, e invece di spostarsi si limitava a rifilarmi un largo sorriso, fingendo di non sapere che mi stava scocciando e che il solo motivo per cui era ammesso nel seminterrato era il fatto che era sempre lui a portare l’erba (detestavo Dwight dal giorno in cui aveva cercato di strangolarmi, in terza elementare. La signora McNulty, la nostra insegnante, era uscita dall’aula per fumare o per qualche altro motivo, e... bam! Mi ero ritrovato con le mani di Slater intorno al collo. Non ricordo se lo avevo infastidito prima che l’insegnante lasciasse la stanza, ma ricordo che Dwight sembrava un vero psicopatico, che la sua stretta era forte come quella di Superman e la mia faccia stava diventando davvero molto calda, tanto che ho pensato che sarei morto – voglio dire, per la prima volta nella mia vita ho davvero creduto di essere sul punto di morire. Rammento anche che, mentre Slater strizzava fuori dal mio corpo fino all’ultimo respiro, ho pensato con preoccupazione che in me ci fosse qualcosa che non andava, perché ero molto più sorpreso che spaventato, il che ero certo non fosse una reazione normale. In realtà, non è poi successo niente di grave. Dwight non mi ha ucciso. Quello che ha fatto è stato abbassare molto in fretta le mani quando la signora McNulty è rientrata, e, mentre il sangue riprendeva a scorrermi pulsando nella testa e io annaspavo per respirare, lui si è comportato come se avessimo appena finito di giocare e tutto fosse stato solo un grande scherzo. Ah, ah, pacca sulla schiena. Molto divertente. Stronzo).

    Quindi Dwight, sì, era decisamente parte della letale miscela di cattive speranze, cattiva compagnia e musica ancora peggiore che mi faceva andare nel seminterrato dei Delaney. Di norma tenevo un profilo molto basso e lasciavo che la conversazione mi scorresse intorno, buttando lì a volte uno o due commenti sarcastici in modo che gli altri non pensassero che ero troppo lento di comprendonio per stare al passo con loro. Quella notte però stavo prendendo per i fondelli Cathy la Chiacchierona e ho cominciato a raccontare a tutti questa cupa storia di come uno di noi l’indomani avrebbe tirato le cuoia nell’andare a scuola, stirato da un furgone e morto ancor prima di sapere cosa lo aveva colpito. Quanto più parlavo tanto maggiori diventavano i dettagli, e la mia voce si faceva molto autoritaria, tanto che ben presto tutti sono rimasti seduti in silenzio e mi hanno lasciato parlare a ruota libera.

    Un furgone rosso, targhe di un altro Stato, numero di targa blu 369. Ci sarebbe stato uno skateboard in pezzi nel centro della strada e un ragazzo morto sul marciapiede, con la testa spaccata, gli occhi dilatati che fissavano l’azzurro del cielo da una pozza di sangue rosso.

    Per fare scena, lasciai che il mio sguardo si posasse su ognuno dei presenti nella stanza, ma il nome mi era già chiaro nella mente, quindi lasciai il migliore per ultimo. Fissai prima Fang, che era in piedi sulla porta del bagno con un braccio appoggiato alla sbarra per i sollevamenti che avevamo montato là alcuni anni prima per tenere in forma i suoi muscoli. Anche fatto, Fang sembrava nervoso e quasi in preda al panico, come se fosse stato appena inchiodato dalla luce del riflettore fantasma da cui era fuggito per tutta la vita. Immerso in quella luce, esposto in un momento di resa dei conti offuscato dalla droga, noi tutti lo valutammo per il possibile ruolo dell’uomo morto.

    Fang sembrava una versione più giovane e malandata di Steven Tyler – la voce principale degli Aerosmith – ma senza il suo pavoneggiarsi. Decisamente senza il pavoneggiarsi. Fang era tutto labbra, denti e capelli lunghi, tutto muscoli, tendini e ossa. Lo fissai, lì accasciato sulla soglia, rischiarato da dietro dalla luce del bagno, e non recepii il suo aspetto da rockstar retrò, non sentii la sua musica. Non lo recepii più.

    Fang scosse la testa, allontanandosi i capelli dagli occhi, e per appena un secondo riuscimmo a stabilire un contatto. Potevo vederlo spingere indietro gli altri, tenerli a distanza in modo che ci fosse appena abbastanza spazio perché potessimo creare quel contatto. «Fottiti, Luke» disse. Gli rivolsi un sorriso consapevole e un piccolo cenno di approvazione prima di passare al bersaglio successivo.

    Indugiai su Chad Turner, Phil Stroper e un paio di altri ragazzi, prolungando quel momento di tensione quanto più era possibile. Saltai direttamente Dwight perché a) non avevo voglia di fare la fatica di girarmi sul divano per guardarlo e b) non volevo comunque fissare il suo muso perché ogni volta che lo facevo mi ritrovavo a scrutare la sua faccia e a cercare di capire perché le persone nuove della città finivano sempre per farci la stessa domanda idiota: «Ehi, voi due siete fratelli?» Gesù Cristo. Io e Dwight? Forse un cugino di secondo grado ritardato, ma un fratello? Gesù. Stan, che non somigliava affatto né a me né a Dwight e che era seduto nell’angolo di fronte al computer perché si era accaparrato l’unica poltrona decente del seminterrato, giocherellava con la maniglia sul lato del bracciolo, sollevando e abbassando il poggiapiedi e dando l’impressione di ascoltare a stento.

    «Stan» dissi, e alzai il tono di voce per cui lui naturalmente fu costretto a sollevare lo sguardo. «Domani mattina. Alle 8:37. Il furgone rosso con la targa di un altro Stato. Vi scontrerete testa a testa. E tu perderai. Morirai.» Lo guardai dritto negli occhi, assolutamente serio in volto, e posso anche aver puntato un dito nella sua direzione, ma, siccome Stan era Stan, rifiutò di lasciarsi coinvolgere dalle mie stupidaggini.

    Dapprima disse qualcosa come: «Oooh, mi stai davvero terrorizzando, Luke.» Poi diede un’ultima spinta alla leva e le molle della poltrona scattarono sull’attenti. Con i piedi sollevati e le mani intrecciate dietro la testa, lui assunse una posa del tutto rilassata. Davvero indifferente. Davvero da Stan. «Vuoi che ti dica perché so che la tua storia è un totale ammasso di stronzate, Luke

    Mi limitai a scrollare le spalle, incrociammo gli sguardi e avemmo una sorta di duello di sorrisetti mentre lui lasciava che la domanda rimanesse sospesa nell’aria. Dopo aver dato a tutti la possibilità di rifletterci sopra, infine espose la sua teoria. «La tua storia è un mucchio di stronzate perché nessuno viene da fuori dello Stato in quel buco del culo del mondo che è Stokum. Soprattutto in ottobre.»

    Ci facemmo tutti una bella risata, e tutti ebbero da criticare la mia storia inventata, quel fottuto di Slater mi assestò perfino un pugno sul braccio con più forza del necessario e qualcuno sano di mente spense la musica per accendere la televisione, per cui guardammo video su mtv2 per qualche tempo prima di andarcene.

    Quella notte, nel tornare a casa, riflettei sul perché avessi scelto Stan per il mio scenario dell’uomo-contro-il-furgone, e pensai di averlo fatto perché sapevo che avrebbe trovato una buona battuta con cui controbattere, o forse perché non era una figura abituale nel solito gruppo di disadattati che si ritrovava da Fang. Credo che a tutti noi piacesse vederlo contorcersi un poco, di tanto in tanto, in modo che non si abituasse troppo a pensare di essere il ras del quartiere o qualcosa del genere, che poteva passare da noi ogni volta che aveva voglia di sballarsi, o di frequentare la plebe o quale che fosse il motivo che lo induceva a venire.

    Voglio prendermi un minuto per parlare di Stan, perché dopo tutto quello che è successo ritengo che gli sia dovuto, soprattutto dal momento che i media locali hanno trasformato la cosa in un comunicato di due minuti sul dramma della settimana della comunità, trasmesso fra pubblicità di auto di cattivo gusto alla fine del notiziario delle sei. Quel reporter navigato, con i capelli perfetti e i denti bianchi, si è praticamente dimenticato del tutto di Stan e ha fatto del suo meglio per trasformarmi in qualcosa che non sono. Questo non è stato per niente bello da parte sua, ma per lui io ero il colpo di scena, la sorpresa, la cosa che faceva notizia. Io però vi dico che quello davvero sorprendente era Stan.

    Era uno di quei rari ragazzi che poteva mescolarsi a qualsiasi gruppo, un vero camaleonte adolescente che in teoria tutti avrebbero dovuto detestare, mentre in realtà credo che la sola persona che non fosse una sua grande estimatrice fosse Fang, il che è strano se si considera che non era particolarmente schizzinoso in fatto di amici. Voglio dire, io ero il suo migliore amico da almeno dieci anni, il che è un buon indice di quanto fossero bassi i suoi standard, ma ogni volta che c’era Stan in giro Fang si faceva più silenzioso del solito, si teneva in disparte con le braccia incrociate sul petto e si mostrava imbronciato e tutt’altro che colpito da lui. D’altro canto, sapevamo entrambi che Fang si sarebbe mangiato il pisello piuttosto che arrivare a un confronto, quindi se aveva qualche problema con Stan lo teneva per sé, e a me andava bene così.

    Nel considerare i frequentatori del seminterrato, devo dire che in massima parte Stan era mio amico. Ci eravamo conosciuti a scuola, prima che lui cominciasse a venire dai Delaney o a passare l’intervallo del pranzo con noi tossici, accalcandosi nel parcheggio posteriore della scuola, facendo circolare uno spinello e facendo strani trucchetti con lo skateboard per farci ridere. Devo ammettere che era dannatamente divertente, il che è probabilmente il motivo per cui piaceva a tanti di noi, anche se era molto di più di un altro buffone fatto di erba.

    Ricordo quella volta, dopo pranzo, quando Stan e io siamo rientrati in classe e il signor Thorp, l’insegnante di matematica dalla testa enorme, ci ha rifilato un compito in classe a sorpresa. Ero seduto là a cercare di dare un senso al pasticcio che fluttuava sulla pagina davanti a me – sapete, cercavo di non ridere per quanto fosse privo di immaginazione il fatto che un sei fosse soltanto un nove rovesciato, o qualcosa di altrettanto brillante – e nel lanciare un’occhiata a Stan l’ho visto chino sul foglio, concentrato e intenso. Voglio dire, praticamente volava attraverso gli esercizi. Deve aver rifatto la punta alla matita quindici volte, durante quel compito. Dopo, ne ha parlato con gli altri cervelloni, nel corridoio, con un largo sorriso sulla faccia. Ha finito per prendere 95... appena un’ottantina di punti più di me.

    Dopo la scuola, di solito Stan faceva un po’ di pallacanestro con gli atleti, tutto gasato, senza camicia e con i jeans che gli scivolavano tanto da lasciar vedere i boxer che sbucavano in alto, come piace alle ragazze. Era un grande giocatore, ma tutti sapevano che per lui era solo un modo per passare il tempo mentre aspettava che il gruppo teatrale finisse le prove della roba che stava preparando, così da poter accompagnare a casa Faith Taylor... quella Faith Taylor. Faith è una delle persone splendide dello Jefferson, e sebbene sia nel gruppo teatrale è davvero fantastica, anche se a quel tempo non me ne rendevo conto, perché non le ero mai stato abbastanza vicino da riuscire a cogliere sia pure solo un accenno di come lei fosse davvero.

    Stan però usciva con Faith fin dal primo anno, e da quanto avevo sentito lei gliel’aveva senza dubbio data. Accidenti! Come la maggior parte dei ragazzi della Jefferson avrei dato il testicolo destro per poter fare qualcosa, qualsiasi cosa, con lei, e il fottuto Stan se la faceva su base regolare, e lei probabilmente adorava ogni momento. Voglio dire, uscivano insieme da un anno e mezzo, quindi fate un po’ voi. In ogni caso, Stan non era soltanto abbastanza uomo da stare con Faith, era anche intelligente, divertente e atletico, una persona eccellente sotto ogni aspetto, e se non siete del tutto stupidi immagino abbiate intuito che è morto alle 8:37 del mattino, l’8 ottobre 2002, mentre andava a scuola. È stato investito da un furgone rosso che stava entrando nel parcheggio del 7-Eleven accanto a cui lui stava passando. È morto per lesioni alla testa e il decesso è stato accertato sul posto. (In seguito, a scuola ho sentito un ragazzo il cui padre è un poliziotto dire ai suoi amici che la gente sul furgone veniva da Windsor, nel Canada. Avevano attraversato il Michigan, diretti a New York, avevano lasciato l’autostrada per fare benzina, si erano persi nel tornare indietro e si erano diretti al 7-Eleven per chiedere indicazioni. Credo che Stan avrebbe apprezzato quell’informazione perché dimostrava che aveva avuto ragione. Nessuno veniva mai in quel buco del culo del mondo che è Stokum, soprattutto in ottobre.)

    Ora, questa non è una cosa su cui mi piace ritornare, ma è importante e devo esporla almeno una volta in modo che la gente possa forse capire un po’ meglio cosa stava succedendo... cosa succedeva davvero, intendo, invece di dare retta alle fesserie sfornate dalla tv. La mattina in cui Stan è morto è cominciata praticamente come qualsiasi altra giornata. Mi sono alzato alle sette e mezza, intontito per l’erba fumata la sera precedente, mi sono fatto una doccia e dopo aver mangiato un po’ di cereali mi sono avviato verso la scuola quando sono stato assalito da una sensazione davvero strana. Ho proseguito per un po’, ma non sono riuscito a liberarmi da quella sensazione, quindi mi sono fermato e ho preso in mano lo skateboard. A quel punto il rumore delle ruote sul selciato dissestato mi era risalito oltre i piedi e su per le gambe, fino a insediarmisi nello stomaco, al punto che sono addirittura andato ad appoggiarmi a un albero, anche se non è stato di aiuto. Il sole continuava a farsi sempre più luminoso e tutto si è fatto silenzioso, tranne il tremito nei miei visceri, poiché tutto quello che sentivo veniva da dentro... vibrazioni, spostamenti e vortici che crescevano in qualcosa di grande e splendido, qualcosa fatto di onde di luce sonica. Era come sentire le note del basso che ti vibrano dentro quando la tua canzone preferita viene messa al massimo del volume e la musica è proprio dentro di te, solo che era una cosa molto più limpida e pura, ed è durata soltanto un secondo.

    A quell’epoca non portavo un orologio, ma non aveva importanza. Ero certo che fossero le 8:37. Ero certo che Stan fosse morto. E sapevo che genere di persona buona e affidabile fosse stata, un ragazzo incredibile, e quale grande perdita fosse la sua morte. Inoltre, sapevo che la vita che avevo vissuto fino a quel momento era morta con il mio amico.

    2

    Non so quanto tempo passò prima che Fang passasse di lì e mi trovasse aggrappato all’albero, con la fronte premuta con forza contro la corteccia. Mi chiese se mi stavo facendo quella fottuta pianta o che altro, e quando non risposi girò intorno al tronco per cercare di darmi un’occhiata, continuando a chiedermi cosa ci fosse che non andava finché fui costretto a raddrizzarmi e a comportarmi come se andasse tutto bene. Non so come riuscii a saltare sul mio skateboard, come il mio piede incontrò l’asfalto più e più volte, come mi spinsi fino a quella scena di morte insieme a Fang, fingendo di non avere idea di cosa fosse successo.

    Il 7-Eleven è praticamente di fronte alla nostra scuola e quando ci arrivammo si era già raccolta una folla notevole. Fang vi si insinuò fino ad arrivare in prima fila e mi trascinò con sé. Il corpo era già stato coperto, ma la pozza di sangue intorno a quel che rimaneva di Stan continuava ad allargarsi, chiazzando il telo bianco, scorrendo giù dal marciapiede, scivolando oltre il cordolo, spingendo il suo rosso fin sulla strada. Ma una cosa da niente come l’essere morto non poteva impedire a Stan di accertarsi che tutti quelli che si erano trovati nel seminterrato la notte precedente e stavano ora fissando il suo corpo ricordassero la mia storiella profetica. E i ragazzi che si erano trovati a casa di Fang erano tutti lì intorno. Guardavano la pozza di sangue e poi fissavano me, a bocca aperta, tesi. Poi distolsero a fatica gli occhi sgranati dalla mia faccia per fissare lo skateboard che giaceva spezzato in due nel mezzo della strada. E il furgone rosso, con la sua indimenticabile targa del Canada? Praticamente mi inchiodarono alla sua griglia infranta con le loro accuse silenziose e stupefatte.

    Le dita di Fang mi affondarono nel braccio e mi trascinò verso di sé, contro il calore del suo respiro e del suo corpo, e nonostante la folla, nonostante il fatto che eravamo a cinque centimetri di distanza, cominciò a urlare, a scuotermi e a urlare ancora. «Lo sapevi. Tu lo sapevi, fottuta miseria.» Gli dissi di tacere, di chiudere quella fottuta bocca, e mi scrollai di dosso la sua mano, ma a quel punto non si trattava soltanto di Fang. Chad Turner e Dwight Slater e alcuni altri avevano superato lo shock e stavano farfugliando riguardo a quello che avevo detto, con il risultato che ben presto tutti cominciarono a spostare lo sguardo dal corpo di Stan a me e viceversa, come spettatori di una partita a tennis al rallentatore. Alla fine, lo sguardo della folla inorridita si appuntò su di me. In silenzio. In attesa. E mi guardavano come se fossi appena saltato dall’altro lato della rete e avessi percosso a morte il favorito con la mia racchetta. In quel silenzio perfino i tizi dell’ambulanza si soffermarono a guardare quel dannato ragazzo in prima fila che tutti stavano fissando. Se la gente si aspettava una spiegazione, io di certo non ne avevo una. E se erano delle scuse che volevano, sapevo che non c’era niente che chiunque potesse dire che avrebbe raddrizzato le cose. Stan era morto. Dovevo tagliare la corda. Mi mossi per farmi largo ma non ce ne fu bisogno perché tutti fecero con precisione un passo indietro, come una fila di ballerini che indietreggiasse, e io mi incamminai nel passaggio che mi avevano aperto, saltai sullo skateboard e mi allontanai, sentendo sulla schiena il peso di un migliaio di paia di occhi.

    Svoltai l’angolo ed ero a metà dell’isolato quando vidi Faith. La Faith di Stan. Pedalava sulla sua bicicletta sul lato opposto della strada con il mento appena sollevato verso il sole, i capelli agitati dal vento creato dal suo movimento. Qualcosa di splendido che fendeva la follia. Qualcuno innocente del disastro che giaceva più avanti sul marciapiede. Sollevò una mano in un cenno di saluto, sorrise, ma io abbassai la testa e mi spinsi con energia ancora maggiore verso casa, lo skateboard che mi sobbalzava sotto il piede. Tuttavia, l’immagine della ragazza sulla bicicletta mi seguì, un’ossessionante cosa di bellezza che sapevo si sarebbe infranta oltre la curva successiva, come un bicchiere che mi scivolasse di mano.

    Una volta nella mia piccola casa ordinata su Clive Avenue mi barricai dentro. Sprangai le porte, chiusi le tende e costruii una fortezza moderna prima di crollare nella mia stanza. Non vi annoierò con tutto quello che mi passò per la mente mentre me ne stavo lì disteso, ma vi voglio dire che dopo un paio d’ore mi alzai e andai in bagno dove accarezzai un paio di lamette di rasoio e controllai la nostra scorta di pillole (mia madre è decisamente contraria alle medicine, per cui non avevo molta speranza. Nell’armadietto trovai tre confezioni di paracetamolo extraforte, una scatola di Imodium, un po’ di analgesico e una vecchia confezione di penicillina, a cui sono leggermente allergico. Presi il paracetamolo ma lasciai lì il resto, perché non avevo nessuna voglia di sviluppare una reazione cutanea e di non andare di corpo per una settimana, e anche se soffrivo non era a causa di crampi addominali).

    Stavo tornando dal bagno quando sentii un rumore all’esterno. Tirai leggermente indietro la tenda della finestra del corridoio e merda, il furgone della wdfd e il suo team stavano montando le attrezzature davanti a casa nostra. Il tizio dell’Occhio Scrutatore, quello con i lunghi capelli biondi arruffati che amava fingere di essere un surfista (sì, giusto, a Stokum) venne a picchiare alla porta. Attese per un po’, guardando dritto davanti a sé mentre l’operatore con la telecamera si teneva alle sue spalle, pronto, nel caso che qualcuno fosse stato tanto stupido da aprire. Dopo aver ripreso per un po’ la nostra porta d’ingresso... marrone, di legno, con tre finestre rettangolari in alto, davvero niente di speciale... andarono a registrare il loro discorsetto sul marciapiede. Uno dei vicini probabilmente pensò che avessi infine commesso l’orribile reato di cui avevano sempre saputo che ero capace e dovette chiamare mia madre alla Michigan Savings & Loan dove lavora come cassiera, perché la sua auto si fermò nel vialetto circa dieci minuti più tardi.

    A quel punto io ero tornato nella mia stanza ma continuavo a sbirciare all’esterno, perciò la vidi arrivare. Mi diede la nausea il modo in cui il reporter e il suo operatore le si accalcarono intorno per cui mia madre, che è minuta, dovette faticare per scendere dall’auto. Il surfista mancato le spinse il microfono davanti alla faccia, che era così sconcertata e spaventata da farmi capire che lei non aveva idea di cosa le stesse dicendo. Riuscì ad arrivare sul gradino d’ingresso, ma era evidente che le mani le tremavano violentemente perché le ci volle parecchio ad aprire. Una volta dentro, però, entrò immediatamente in azione e si aggirò di corsa per il pianterreno, urlando il mio nome, prima di salire le scale due gradini per volta. La porta della mia stanza si spalancò e mia madre entrò barcollando, con il fiato corto. Impiegò alcuni secondi a trovarmi, accoccolato accanto alla finestra nella penombra pomeridiana accentuata dalle tende. Poi l’energia l’abbandonò e si portò una mano tremante alla gola mentre sbarellava all’indietro e si accasciava contro lo stipite della porta, priva di tutta l’energia che di solito la sostiene. E le parole successive furono pronunciate con voce strozzata.

    «La radio ha detto che un ragazzo era stato ucciso, su uno skateboard, e poi ho ricevuto una telefonata, e... e...» Si coprì la faccia, il petto prese ad ansimarle e mi resi conto che aveva guidato per tutto il tragitto verso casa pensando che fossi morto. Dio, vedere mia madre nascondersi la faccia fra le mani, scivolare giù lungo lo stipite fino a essere al mio livello... ecco, diciamo che fui molto felice di non aver attuato l’idea dell’overdose di analgesici o qualche altro piano altrettanto idiota.

    Quando finalmente sollevò la testa fu per chiedere, piano: «Chi?»

    Non riuscii neppure a guardarla. «Stan» risposi, rivolto alla moquette azzurra sotto i miei piedi.

    «Oh, Luke.» Il mio nome vibrò nella stanza sulla spinta di un sommesso respiro. «Oh, no. Non Stan.» Mi azzardai a sollevare lo sguardo. Anche dall’altro lato della stanza, a quattro metri e mezzo di distanza, potevo vedere che aveva già gli occhi velati di lacrime. Quando a me, non avrei pianto per giorni, e anche quando infine lo feci non ebbe molto a che vedere con Stan.

    Mia madre non mi chiese subito della troupe televisiva accampata fuori. Anche se non stavo piangendo, poteva vedere quanto ero scosso, quindi mi portò di sotto e preparò per entrambi una tazza di cioccolata, anche se io avevo decisamente bisogno di qualcosa di un po’ più forte e probabilmente questo valeva anche per lei. Solo dopo si sedette al tavolo di cucina e, con cautela, mi chiese del furgone all’esterno. Mi ci vollero un paio di tentativi prima di riuscire a parlare, ma finalmente vomitai la mia storia. Le raccontai quello che era successo nel seminterrato di Fang, la notte precedente, anche se sorvolai sul dettaglio che l’erba mi aveva mandato il cervello in corto circuito e mi aveva incanalato su una lunghezza d’onda da fenomeno da baraccone sensitivo, il che al momento era la mia unica teoria. Davo la colpa alla droga, che è sempre un facile bersaglio.

    Mia madre non disse molto, si limitò a giocherellare con il suo bicchiere mentre parlavo, e quando ebbi finito emise una sorta di lungo sospiro sibilante per poi alzarsi e telefonare a mio padre. Nel dirigersi nell’atrio, dove il telefono si trova su un tavolinetto, vicino alla porta, fece scorrere le dita lungo il muro. Io rimasi in cucina. In genere mi piace quella stanza, con il frigorifero Westinghouse degli anni Cinquanta dai bordi arrotondati e la maniglia laterale argentata in un angolo, il tavolo di formica dai bordi in metallo che si abbina alle sedie di similpelle rossa nell’altro. L’estate scorsa la mamma e io abbiamo rinnovato le vecchie credenze con uno strato di vernice bianca lucida e abbiamo posato sul pavimento un linoleum a quadri bianchi e neri, quindi adesso la cucina ha davvero una sorta di atmosfera da latte-e-biscotti, e di solito è un posto splendido dove passare il tempo. Quel giorno però adagiai la testa sul tavolo, avvolsi le dita intorno ai suoi bordi freddi e mi tenni aggrappato a essi finché non sentii uno stridere di ruote sul selciato e lo sbattere della portiera di un’auto.

    Dopo che mio padre ebbe superato lo sbarramento dei media all’esterno, lui e mia madre confabularono sottovoce nell’atrio per un po’, poi lui mi chiamò nel suo studio sul retro della casa e chiuse la porta. Fondamentalmente, si trattò dello stesso colloquio che avevo avuto con mia madre, ma richiese molto più tempo, perché mio padre tiene molto ai dettagli essendo il capo della catena di rifornimento dell’impianto della Kalbro, dove lavora come chiunque altro a Stokum, a parte quelli che sono impiegati alla cme, la Central Michigan Electric, la grande centrale elettrica alimentata a carbone che si trova a sud della città (alla Kalbro mio padre si occupa di fare in modo che le cose siano organizzate in modo che la Ford e la gm ricevano sempre e in tempo i tessuti per le auto dei loro sogni. Avete presente quella copertura tutta protuberanze, di un azzurro uniforme, su cui sedete nel guidare? O la similpelle color tabacco? Il vellutino bordeaux? Quella è roba di Stokum, gente).

    Mio padre mi assillò per tutto il tempo in cui raccontavo la mia storia, come se avesse dovuto presentare di persona il mio caso ai pezzi grossi di Detroit o qualcosa del genere, e io dovetti dirgli esattamente quello che era successo da Fang, non potei sorvolare su niente, inclusa l’erba di scadente qualità (ammisi di aver ‘provato’ a fumare erba, ma diedi l’impressione che fosse una delle prime volte in modo da non indurlo a pensare che fossi un drogato fatto e finito e che rimanesse deluso o cose del genere). Anche con lui, però, evitai di menzionare quello strano brivido musicale che mi aveva percorso sotto l’albero, quella mattina. Se pure lo avessi voluto, non sarei riuscito a trovare le parole per spiegare quella stranezza.

    Quella sera mangiammo avanzi di stufato di tonno davanti alla tv (di norma proibita durante la cena, perché quello è un momento ‘sacro’), sintonizzata sul notiziario delle sei della wdfd. Speravo proprio che Stan e io non fossimo diventati una grossa notizia e non eravamo il titolo di apertura, che era relativo a qualcosa di positivo. Evidentemente sui terroristi era ormai stato detto tutto e l’argomento era in declino. John Ashcroft, il nostro membro dei servizi di sicurezza nazionali, un tizio dalla fronte massiccia e dalla faccia estremamente seria di chi è concentrato su tutto ciò che riguarda i terroristi, arrivò a offrire all’America un sorriso fermo anche se guardingo nell’annunciare che il livello di minaccia alla nazione, che era stato elevato all’arancione intorno alla data del triste primo anniversario dell’attacco al World Trade Center, era stato abbassato. Adesso potevamo condurre una guardinga vita nel giallo invece di quella piena di tensione al livello arancione che avevamo avuto finora. Purtroppo, questo particolare americano non trovava la notizia confortante nella misura probabilmente sperata

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