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Una Storia a Volte Strana
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Una Storia a Volte Strana

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Se un diciannovenne avesse seguito il suo istinto e avesse preso un’altra direzione a Vienna, tutta la sua vita sarebbe cambiata …

Un ragazzo di diciannove anni si ritrova in un paese straniero dall’altra parte del globo, da solo, senza sapere nulla della sua terra adottiva. Una successione di incontri casuali porterà a eventi inaspettati nella sua vita. Nel giro di qualche settimana, il ragazzo trova un lavoro, una nuova casa, un’università dove finire gli studi, e addirittura una fidanzata.

Il ritmo di vita, poi, si fa più intenso man mano che si susseguono gli incontri, fino a quando, un giorno, il ragazzo si ritrova a passare da una città rurale del Connecticut a Milano, in Italia, con la necessità di doversi adattare, ancora una volta, a un altro paese, a un’altra realtà. Viene proiettato nel mezzo della vita di altre persone, diventandone parte.

Una volta, un saggio disse: “Ciascuno di noi ha un destino sul quale non ha controllo. Fin da quando nasciamo, siamo destinati a percorrere una strada che è già stata scritta; certo, possiamo fare scelte che facilitano il percorso o pongono degli ostacoli, ritardando gli eventi, ma non riusciremo mai a deviare dal corso che dobbiamo seguire; alla fine, saremmo sempre riportati indietro, per continuare il nostro cammino”.

LanguageItaliano
Release dateJan 16, 2019
ISBN9781547564590
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    Una Storia a Volte Strana - Uri Norwich

    1. Un’Offerta di Lavoro.......................................................................

    2. La Mia Casa sul LAGHETTO..........................................................

    3. Nana prendi il fucile........................................................................

    4. La Sig.ra Golubov...........................................................................

    5. Una Strana Fermata a Roma............................................................

    6. Milano..........................................................................................

    7. Il Contatto Russo...........................................................................

    8. Una lezione di italiano.....................................................................

    9. Il Cerchio si Chiude.........................................................................

    1. Un’Offerta di Lavoro

    Il capo mi chiamò nel suo ufficio. Dopo che fui entrato, si alzò, cominciò a girare intorno alla sua scrivania, e infine si sedette sul bordo con un piede appoggiato sul pavimento.

    Che cosa ne penseresti se ti offrissi un lavoro in Italia?

    Mi fissava dritto negli occhi, come se mi avesse appena riconosciuto un consistente bonus per un lavoro che non avevo mai fatto. Distratto dal suo piede sollevato da terra, che continuava a far dondolare come un pendolo, non riuscivo a concentrarmi sulle sue parole. Il mio sguardo era letteralmente incollato alle sue scarpe, tanto che arrivai a pensare: Ma queste scarpe ... ma davvero non potrebbe permettersi un paio di scarpe migliori? Tanto per dirla grossa, dal punto di vista lavorativo probabilmente guadagna tre volte quello che guadagno io ... e quegli orribili calzini? La mia attenzione si spostò verso dei calzini alti fino al ginocchio, con motivo a rombi di colore nero, marrone e beige.  Credimi, amico, nessun italiano indosserebbe mai niente del genere, neanche morto. - pensai.

    Allora?

    Stava aspettando una risposta.

    La sua voce distolse la mia attenzione dai "calzini a rombi". Si, certo, vuole sapere se io accetterei un lavoro in Italia ... I miei pensieri cominciarono a scorrazzare per la mente alla stessa velocità di un film che passa sullo schermo con la funzione avanzamento rapido, ma in direzione opposta, risalendo indietro di cinque anni.

    *****

    Mi tremavano le mani quando consegnai quella grossa busta color marroncino a un funzionario dell’Ufficio Immigrazione al Terminal 1 dell’aeroporto internazionale JFK. Ne svuotò il contenuto sul bancone, guardò attentamente all’interno assicurandosi che non ci fosse rimasto nulla, e prese rapidamente in mano un foglio. Era il secondo documento della mia vita in ordine di importanza. Il primo documento, il più importante di tutti, era quello che mi era stato rilasciato quattro anni prima; si trattava di una lettera di ammissione al Corso di Ingegneria Elettronica presso il Politecnico. Nell’Unione Sovietica, tutti i maschi che frequentavano l’università erano esenti dal servizio di leva e questo, di per sé, era il maggior stimolo per i ragazzi a frequentare gli studi universitari, e indubbiamente, faceva al caso mio.

    Il funzionario esaminò il mio visto d’ingresso, analizzando attentamente ogni sigillo e ogni firma ivi apposti. Alla fine si alzò e si allontanò dal bancone, sempre con il mio visto in mano. Mi si raggelò il sangue, fino a quando l’impiegato non ricomparve con in mano un grosso registro nero. Notai che, tra le pagine, spuntava un pezzetto di carta. Non riuscivo neppure a respirare.

    Complimenti, giovanotto! disse. Ancora non avevo ripreso a respirare.

    Benvenuto negli Stati Uniti d’America!

    Rimasi paralizzato, come se qualcuno mi avesse rovesciato addosso un secchio d’acqua gelata; il funzionario dovette rendersi conto di come mi sentivo, e infatti continuò a interloquire con me con tono allegro.

    "Qui ci sono tutte le sue carte, le ho rimesse nella busta. Tra un giorno o due, si rechi al Social Security Office, là i colleghi provvederanno a regolarizzare la sua posizione, dopodiché potrà cercarsi un lavoro. C’è qualcuno che l’aspetta?" Mi guardò sorridendo. Feci cenno di sì.

    Bene, allora, le dó nuovamente il benvenuto nel paese più grande del mondo! Buona fortuna! Ne avrà bisogno.

    Dopo alcuni mesi, mi ritrovai nel West Hartford, Connecticut, dove ero arrivato grazie a una serie di circostanze fortunate. Dopo aver trascorso quattro settimane a New York, mi resi conto che lo stile di vita di quella città non faceva per me; anche se in Unione Sovietica ero cresciuto in una grande città di oltre un milione di abitanti, la natura era sempre stata a portata di mano. Certo, niente al mondo era paragonabile a New York: in pratica, si può dire che se solo avessi voluto, lì avrei trovato qualsiasi cosa. Alla fine, però, la frenesia delle grandi metropoli mi faceva impazzire. Così, cominciai a cercare un posto dove trasferirmi, ma non avevo idea di dove sarei potuto andare. Non era facile.

    L’America è indubbiamente un paese molto grande. Tuttavia, anche se si estende per duemilacinquecento miglia coast to coast, non è così grande come lo era, una volta, l’Unione Sovietica, con i suoi dieci fusi orari e le sue seimiladuecento miglia di distanza tra est e ovest. Avevo inviato il curriculum a ogni principale azienda fornitrice di utenze pubbliche negli Stati Uniti, offrendo le mie competenze in materia d’ingegneria, ma tutto quello che riuscii a ottenere era una sfilza di lettere di risposta che, pur in tono cortese, rifiutavano di assumermi: La ringraziamo per la Sua candidatura, ma al momento ..., ecc.  A un certo punto mi resi conto che, forse, la laurea in ingegneria che avevo conseguito in Unione Sovietica non era sufficiente per un paese come gli Stati Uniti e io, purtroppo, non potevo contare sull’aiuto né tantomeno sui consigli di nessuno. Tuttavia, arrivò anche per me un giorno fortunato.

    Avevo passato il Labor Day sull’unica spiaggia raggiungibile in metropolitana, la Brighton Beach. Una volta lì, vedere miei ex connazionali che si erano trasferiti a New York era uno stimolo in più per andarmene da quella città. All’epoca, la maggior parte di coloro che avevano scelto di stabilirsi a New York arrivavano dalle ex Repubbliche Sovietiche dell’Ucraina e della Moldavia, mentre in genere, chi veniva dalla Russia, soprattutto se aveva vissuto in grandi città, non aveva niente in comune con questa gente. Per gli americani, comunque, il massiccio flusso migratorio dall’Unione Sovietica rappresentava una novità. L’immigrazione di persone di razza bianca, che avevano fondato il paese secoli prima, era stata praticamente dimenticata. Era infatti la prima volta, fin dai tempi della prima Guerra Mondiale, che arrivavano numerosi gruppi di bianchi dall’Europa. La maggior parte di essi erano ebrei, e le comunità ebraiche di tutto il paese aprivano le porte agli immigrati che provenivano dall’Unione Sovietica. Questo era una buona cosa, e anche il governo faceva la sua parte, aiutando migliaia di profughi, gente senza più radici, a trovare una sistemazione e rifarsi una vita.

    In quel Labor Day mi ero aggregato a un piccolo gruppo di persone sulla spiaggia, che erano in America già da un po’ di tempo. Quando mi chiesero che cosa avevo in programma per la festa di Rosh Hashana, il capodanno ebraico, che cadeva di lì a poco, mi strinsi nelle spalle. Che cosa potevo dire? Non conoscevo nessuno in tutto il paese. In qualche modo, mi invitarono ad assistere alle celebrazioni per il capodanno ebraico che si sarebbero tenute presso il Centro Ebraico di West Hartford.

    Essendo cresciuto nell’Unione Sovietica, l’unica religione che conoscevo era l’ateismo. Si insegnava che l’ateismo era l’unica verità assoluta. Questo concetto veniva inculcato in ogni persona, dai tempi del pannolino fino a quelli della cassa da morto – un’espressione tradotta letteralmente dal russo che, senza troppo sforzo, possiamo intendere come dalla nascita alla morte. Nelle scuole superiori e nelle università era previsto un corso di ateismo obbligatorio, dove professori appositamente assegnati dichiaravano che la scienza aveva provato l’assoluta inesistenza di Dio, punto e basta! La cosa bizzarra era che quei professori non erano mai giovani, portavano abiti consunti, alcuni di loro avevano la barba grigia, a cui rimanevano attaccati i resti dell’ultimo pasto, e sputavano mentre parlavano. All’epoca, l’ultima prova della non esistenza di Dio era l’astronauta russo Yuri Gagarin, il primo uomo ad aver fluttuato nello spazio e attorno alla Terra. Molti avevano seguito le sue orme, dopo di lui, senza aver mai visto alcun dio là fuori.

    Poi, naturalmente, c’era Darwin. Charles Darwin deve essere stato mandato da qualche dio comunista, o dal demonio, per mettere alla prova i terrestri. I sovietici avevano accolto le sue assurde teorie, considerandole come la prova scientifica assoluta del fatto che Dio fosse stato inventato dall’immaginario malato dei capitalisti per obbligare le persone a lavorare per niente. Ogni volta che i miei genitori mi portavano allo zoo, cercavo di passare la maggior parte del tempo vicino alla gabbia dei gorilla, ignorando gli altri animali e facendo innervosire la mia famiglia. Speravo sempre di cogliere quell’attimo miracoloso in cui la scimmia si trasforma in essere umano, poiché i nostri insegnanti insistevano nel dire che era esattamente quello che era successo. Non è, però, che non considerassi minimamente gli altri animali. Anche i serpenti mi tenevano incollato alle loro grandi gabbie di vetro sapientemente illuminate in stanze completamente buie. Continuavo a guardarli con la paura di perdermi il momento fatidico in cui avessero iniziato a svilupparsi con la crescita delle zampe per trasformarsi in alligatori, o dinosauri. Suppongo che i serpenti fossero il gradino successivo nella scala darwiniana della cosiddetta evoluzione.

    La propaganda dell’ateismo nell’Unione Sovietica faceva sì che fosse proibito praticare qualsiasi religione, e chi non rispettava il divieto era perseguitato. Fin dai primi giorni dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, la religione era stata dichiarata L’oppio dei popoli. La pratica di ogni religione era stata bandita e resa clandestina; le chiese venivano distrutte, bruciate o trasformate in magazzini per le patate, mentre i templi e le moschee venivano demoliti. Su ordine di Stalin, la Cattedrale di Cristo Salvatore, edificata nel 1812 per celebrare la sconfitta di Napoleone, era stata rasa al suolo, per lasciare in seguito il posto alla piscina pubblica all’aperto. Il credo religioso rimaneva confinato alla sfera familiare, e non era mai argomento di discussione in pubblico per il timore delle persecuzioni.

    La mia famiglia non aveva mai praticato alcuna religione; i miei genitori si erano sempre impegnati davvero molto per nascondere la nostra etnia, cercando di fondersi nella società sovietica, tant’è che nella nostra casa non c’era nulla di ebraico. Tuttavia, io ho sempre saputo delle nostre origini fin da bambino. Tanto per cominciare, sui Passaporti Interni dei miei genitori, era chiaramente indicata la voce Ebreo al famigerato paragrafo 5.

    La mia famiglia mantenne il segreto per molti anni, e in seguito scoprii che anche molte altre famiglie ebraiche non avevano mai rivelato nulla delle loro origini, sempre per paura delle persecuzioni. Ricordo che già da bambino sentivo i miei nonni parlare sottovoce con mia madre riguardo a una misteriosa donna che viveva in una terra lontana, chiamata Israele. Diversamente, nessuno ne parlava mai, nonostante i miei saltuari tentativi di sapere qualcosa in più su di lei. Ogni volta che provavo a chiedere di quella donna, mi veniva immediatamente fatto capire che nulla era dato sapere. Fino a quando, un giorno ... non mi resi conto che stava per succedere qualcosa. Ogni notte, mio nonno Pinkus rimaneva incollato alla radio, cercando di cogliere frammenti di trasmissione di una qualche stazione occidentale in mezzo a un traffico radiofonico particolarmente intasato. La radio era collocata su di un tavolino vicino alla finestra, nel soggiorno del nostro appartamento che, di notte, fungeva anche da mia camera da letto. Me ne stavo nel mio divano-letto ribaltabile, facendo finta di dormire, e vedevo che il nonno vegliava fino a tardi, rifiutandosi di andare a letto, fino a quando non riusciva a intercettare almeno un minimo d’informazioni. Naturalmente, il mattino dopo, la macchina mediatica russa avrebbe annunciato che gli amici arabi stavano procedendo con la guerra di liberazione dall’oppressore israeliano. Il nonno passò le notti attaccato alla radio per una settimana. Il 10 giugno 1967, in quella che è oggi nota come Guerra dei Sei Giorni, Israele sconfisse milioni di arabi incoscienti che non desideravano altro che il suo annientamento.

    La mattina di quel giorno, vidi il viso di mia nonna Dora illuminarsi e scintillare come non mai; quel giorno, finalmente, mia nonna mi rivelò il gran segreto: aveva una sorella minore di nome Sonia. Cinquant’anni prima, quando la famiglia di mia nonna viveva nella città portuale di Odessa, sul Mar Nero, erano dovuti scappare e nascondersi nelle campagne, perché rimanere in città era troppo pericoloso. Gli eserciti occidentali combattevano contro l’Armata Rossa con l’obiettivo di riconquistare Odessa sottraendola al controllo dei Bolscevichi rivoluzionari. C’era quella proverbiale chance dell’ultima nave per la Turchia, che partiva dalla Russia dilaniata dalla guerra civile. Sonia era giovane e nubile; si vedeva (il termine uscire non era ancora

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