Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

YOLO
YOLO
YOLO
Ebook273 pages3 hours

YOLO

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

«Sono stanca di essere sempre la sfigata della situazione! Quella che si fa male, quella che prende le inculate, quella che se c’è una fila viene superata, quella a cui danno il resto sbagliato e a cui fregano il parcheggio sotto il naso. Quella che, anche quando non c’è, è colpa sua se le cose vanno male. Sono da sempre la tipa che le prende, e forte anche! Sono, sono… ecco! Sono come gatto Silvestro, o Willy il Coyote, o come quello stupido di Paperino! Io nella vita per una volta, una volta soltanto, vorrei essere quel cazzo di Titti!»
Yolo, you only live once; si vive una sola volta. Tra sbronze, incidenti stradali, arresti, serate ambigue e loschi maneggi con soggetti poco raccomandabili, Vicky movimenterà la sua vita fino al punto di capirne (o quanto meno ipotizzarne…) il vero valore.

Clarissa Tornese farebbe di tutto per non lavorare, ecco perché ha fatto della scrittura la sua professione. Nel 2016 ha pubblicato il suo primo libro Diario di una squilibrata. Yolo è il suo secondo romanzo. Quando non è impegnata a scrivere storie assurde tenta di screditare i libri degli altri sul suo blog lettodanoi.it
LanguageItaliano
Release dateJan 24, 2019
ISBN9788829597123
YOLO

Related to YOLO

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for YOLO

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    YOLO - Clarissa Tornese

    Farina

    1.

    Quella sera tornai a casa completamente ubriaca. Era un periodo in cui riuscivo a trovare pace solo nell’alcol. Un periodo che durava da qualche anno a dirla tutta, ma negli ultimi tempi stavo dando il peggio. Diciamo che avevo tolto la parola limitare dal mio vocabolario.

    Un devastante mix di birra e super alcolici aveva reso incontrollabile sia la mia vescica che il mio, ormai inesistente, equilibrio psico-fisico. Non ricordo come fossi riuscita a tornare a casa, forse la forza dell’abitudine e della sopravvivenza avevano indirizzato le mie traballanti gambe fino a un taxi, o una metro. Non ne ho idea.

    Mi trovavo davanti la porta di casa e stavo faticando enormemente per aprirla, le chiavi sembravano non volerne sapere di entrare nella serratura. O forse ero io a non essere in grado di infilarle nel posto giusto? Il dramma era che dovevo correre in bagno con una certa urgenza, ma più forzavo la mano, meno le chiavi entravano. Poi improvvisamente ebbi un lampo di genio e lessi il cognome elegantemente inciso su una placca di ottone sopra il campanello: non era il mio. A quel punto trotterellai a gambe conserte dall’altra parte del pianerottolo, verso quella che era veramente casa mia. Sudavo freddo, sentivo già le gocce di urina che iniziavano a inumidirmi le cosce e il bagno sembrava essere un miraggio sempre più lontano e inarrivabile.

    Mi rimisi impazientemente a lottare con le chiavi e con la serratura, ma la mia traboccante vescica non mi aiutava a mantenere la mano ferma. A un certo punto però, come per miracolo, la chiave entrò nella toppa e la porta si aprì. Non feci comunque in tempo godermi la felicità di quella piccola conquista, perché innanzi a me trovai, seduto sul divano con uno sguardo furibondo, Luca. Fu a quel punto, capendo che in bagno non sarei mai arrivata in tempo, che mi pisciai addosso.

    Luca era il mio fidanzato, con il quale convivevo da circa sette anni. Le cose non andavano bene da un po’, ma non sapevo il perché, non riuscivo a vedere nitidamente il motivo; come accennato prima stavo passando un periodo a dir poco particolare. Non riuscivo più a condurre normalmente la mia vita di tutti i giorni, era come se ad ogni respiro, ad ogni azione o pensiero, provassi un intenso fastidio che rendeva le mie giornate insopportabili; un ammasso di ore tormentate dal niente. E come cercavo di sopprimere questo niente che mi rendeva confusa, irritabile e irritante? Con l’alcol ovviamente, la soluzione adottata da ogni codardo che si rispetti.

    In ogni caso il problema in quel momento era un altro, ovvero cercare un modo per giustificare l’ennesima ubriacatura di quel periodo. La carta del ho incontrato una vecchia amica e sembrava brutto non offrirle da bere me l’ero già giocata poco tempo prima. Mi si è fermato l’orologio e non mi sono accorta del tempo che passava. No, poco credibile. Devono avermi messo qualche cosa nella birra, ne ho bevuta solo una! Sì, già meglio.

    Ma dovevo parlare io o conveniva aspettare che parlasse prima lui? Forse era meglio giustificarsi subito:

    «Devono avermi messo qualche cosa nella birra sai? Ne ho bevuta solo una e…»

    «Mi spieghi cosa cazzo c’è che non va?»

    Lo sapevo, sarebbe stato meglio optare per un più plausibile è un periodo che reggo poco l’alcol, ho le difese immunitarie basse. La solita stupida.

    «Io sono arrivato al limite Vicky, non so più chi sei, eviti di parlarmi, appena puoi esci, ti ubriachi e torni in condizioni pietose. Guardati…»

    Mi guardai; pipì a parte non ero vestita poi così male. Per carità, avevo mille magliette che avrebbero potuto abbinarsi meglio con la mia gonna, ma non credo fosse quello il problema.

    «Ti prego, parlami!»

    Da una parte avrei voluto gridare un onesto e diretto: voglio solo dormire! Per fortuna però non lo feci, diedi retta all’altra parte, quella che optò per un borbottio incomprensibile e penoso pieno di parole come confusa, depressa, turbata, avvilita, nervosa…. Cose così.

    Non sapevo cosa dire, perché il problema, in tutta onestà, non lo capivo nemmeno io. Sapevo solo che quando bevevo stavo meglio; uscivo, mi sbronzavo e non pensavo, punto. Ma Luca incalzava.

    «Basta scuse Vicky, basta! Voglio sapere cos’è che vuoi!»

    «Ecco io…»

    Io mi sentivo veramente male, volevo chiudere gli occhi e non pensare fino al giorno dopo; ecco cosa volevo.

    «Cosa vuoi?!»

    «Io…»

    Sentivo tutto l’alcol che mi ero bevuta salirmi dall’esofago alla gola, e non si fermava. Continuava a salire e più mi innervosivo più le ghiandole salivari ci davano dentro.

    «Vuoi che me ne vada? Dillo!»

    «Io… io…»

    Stava per succedere l’irreparabile, e anche se una piccola parte di me sapeva che un giorno avrei rimpianto quel momento, non riuscii a contenermi. Avevo la sensazione che non me ne importasse più niente di nessuno, e invece di domare quel distruttivo tsunami di emozioni folli che inondava la mia testa, mi abbandonai.

    «Tu cosa? Cosa vuoi?!? Parla, cazzo!»

    «Io… voglio vomitare.»

    Borbottai penosamente con la bocca piena di acido, prima di rigurgitare litri di schifo sulle scarpe di camoscio del mio uomo. Anzi, dopo quella mossa, del mio ex uomo.

    Con la stessa prevedibilità con cui si può esser colti da dissenteria dopo una dissennata scorpacciata di fichi, Luca uscì di casa quella stessa sera, nauseato e costernato da quanto che era accaduto. Quella notte avevo dato il massimo, e dopo settimane di non accadrà più, va tutto bene, è stato solo un incidente Luca si era ufficialmente, e definitivamente, rotto le palle.

    Non so dove andò. Probabilmente mi accennò qualche cosa prima di chiudersi la porta alle spalle, forse era un insulto ora che ci penso. Non ricordo. La mia memoria quando alzo troppo il gomito fa cilecca, e comunque in quel momento la gravità della situazione nemmeno mi colpì, volevo solo dormire; cosa che feci appena Luca uscì di casa.

    Il giorno dopo mi risvegliai verso mezzogiorno con un gran mal di testa, rannicchiata sul pavimento in una posizione alquanto scomoda. Mi facevano un gran male tutti i muscoli, appena accennavo un piccolo movimento con le gambe venivo assalita da feroci crampi che mi costringevano ad accartocciarmi su me stessa. Facevo davvero pena. E puzzavo, puzzavo come una distilleria in cui sono andati a fuoco dei cavoli marci, per rendere l’idea. Persino il mio gatto non osava avvicinarmisi. Mi guardava da lontano con un’espressione schifata e riprovevole.

    Quella mattinata, contrariamente a ciò che era avvenuto la sera prima, la ricordo perfettamente. Dopo essermi fatta una lunghissima doccia per togliermi di dosso quell’odore acre di carogna in putrefazione, accesi il cellulare. Era tutto appiccicoso, impiastricciato di birra e altri rimasugli di roba non identificabile, ma tra le chiazze vidi che avevo una caterva di chiamate perse provenienti dall’ufficio.

    Strano… pensai.

    Di solito non mi cercavano mai, anzi, meno mi sentivano, più felici erano. Prima di richiamare infatti pensai brevemente a ipotetici disastri che avevo potuto combinare, ma non mi venne in mente nulla. Quindi spinsi il tasto richiama con una tranquillità decisamente fuori luogo. Rispose la segretaria:

    «Pronto?»

    «Pronto Giorgia ciao, sono Maria Vittoria.»

    Già, mi chiamo Maria Vittoria, il nome più borghese e ampolloso che possa esistere sulla faccia della terra. Lo detesto, ma purtroppo i miei genitori sono quello che sono; conservatori, bigotti e con la puzza sotto il naso. Si vede che dalla pancia di mia madre non ho tirato abbastanza calci nel momento in cui lo scelsero. Maria Vittoria, un nome composto irritante quanto un’ortica nelle mutande! Ci si mette tre ore già solo per presentarsi, per non parlare del cognome: Monterubbianese. Tempo che si finisce di pronunciarlo la gente già si è rotta le palle di aspettare.

    "Ciao, sono Maria Vittoria Monterubb…."

    Sì sì, va bene, scusa ma ho fretta, me lo dirai un’altra volta, ciao!

    Proprio così. Per carità, ad altri è andata peggio, conosco una Vittoria Sveva, una Diana Luna, un Giovan Tancredi e una Giovannangela. Mi manca giusto Maria Mainagioia e poi le ho sentite tutte. Comunque, questo per dire che ormai non mi lamento più, tanto le persone che mi conosco bene mi chiamano Vicky (cerco di farmi chiamare così da chiunque, a dire il vero). Ora, a parte il mio nome, il problema era un altro. La segretaria in questione, con una voce che non preannunciava nient’altro che guai, mi disse:

    «Ti passo tuo padre.»

    All'epoca lavoravo nello studio legale di famiglia, insieme ai miei cugini, mio padre e suo fratello, nonché mio zio. Io ero l’ultima ruota del carro, per colpa della sottoscritta, non di altri. Avevo tutte quelle caratteristiche che solitamente portano un dipendente verso la strada del licenziamento in un batter d’occhio: ero indolente, lenta, distratta, approssimativa e inaffidabile. Ah, e ritardataria. Ma ciò non era un mistero, anzi tutti lo sapevano, quindi non mi davano mai cose importanti da fare, per cui sbagliare era piuttosto difficile. Ma non impossibile.

    «Maria Vittoria?»

    Mio padre mi chiamava così solo quando era molto, molto, incazzato.

    «Sì! Ciao papà, scusa se non sono ancora arrivata, ma oggi sto poco ben…»

    «Ieri hai depositato le memorie integrative per la causa De Rossi?»

    Silenzio. Merda, le memorie.

    «Rispondimi! Le hai depositate o no?»

    «Hem, sai che non ricordo? Nel senso, probabilmente l’ho fatto ma non mi ricordo proprio bene se…»

    «Ieri era l’ultimo giorno utile, hai idea del casino che hai fatto?»

    «Ma guarda che c’è un’alta probabilità che io le abbia depositate. Credo…»

    Mi attaccò il telefono in faccia. Aveva ragione, ero stata un’inetta e lo avevo deluso, di nuovo. Come avevo potuto dimenticarmene? Eh, lo so io: perché faccio le cose sempre all’ultimo, ecco come. La parola d’ordine è sempre stata rimandare, e io rimando, rimando, rimando, finché poi arriva il momento in cui è troppo tardi. Poi mi impiccio, mi stresso, mi confondo e infine mi dimentico. Non riesco mai a fermare i pensieri, ad organizzarmi in modo normale e sano. Mi odio quando succede, e vorrei menarmi, punirmi, ma poi questa sensazione passa e ricomincio a fare tutto come ho sempre fatto; ovvero, male.

    Istintivamente mi venne voglia di cercare Luca per essere confortata, solo che Luca non c’era più. L’avevo fatto scappare con la mia disgustosa condotta degli ultimi tempi. Perché eravamo finiti così? Com’era possibile che dopo sette anni passati insieme non riuscivamo più ad essere felici? O meglio, io non riuscivo più ad essere felice.

    Mentre mi mordevo le unghie come fossero state dei golosi pezzi di cioccolata, iniziai a pensare a quale fosse stata l’ultima volta che mi ero sentita davvero felice con il mio fidanzato. Chiusi gli occhi e visualizzai immediatamente il mare, una spiaggia, il sole caldo e una birra gelata tra le mani. Già, d’estate mi sentivo sempre in pace col mondo. Passavamo quasi tutte le estati in Grecia, l’atmosfera che si respirava in quelle isole ci aveva conquistati e non eravamo più riusciti a tradirle, anno dopo anno. Facevamo vacanze semplici, in cui riuscivamo a staccare completamente dalla routine quotidiana. Ci affittavamo una casetta, possibilmente sulla spiaggia, gonfiavamo il frigo di birra e vino e vivevamo in costume dalla mattina alla sera. Ogni tanto qualche doccia per toglierci l'acqua salata di dosso. Una meraviglia.

    Mentre stavo lì, buttata come un corpo morto a sul divano, mi calò sul viso una lacrima. Erano stati davvero bei momenti quelli. Il risveglio con lo sciabordio delle onde del mare che si frangevano sulla sabbia bianca, le cicale, quell'odore di mirto misto a salsedine e merda di capra. E le gargantuesche mangiate di insalata greca e sarde fritte annaffiate da litri di birra greca e retsina. Tornavo a Roma con tre kg di più e con un viso talmente privo di rughe e pensieri che nessun botulino al mondo avrebbe mai potuto eguagliarne l’effetto. Ero felice lì, mi sentivo libera.

    Potrei proporgli di partire per ritrovarci! pensai.

    Era metà maggio, avrei potuto comprare due biglietti aerei per un’isola a caso e glieli avrei potuti offrire come proposta di pace. Per un brevissimo istante mi sentii un genio. Rivivere quella libertà, spostarsi per le campagne greche con un motorino scassato, i capelli al vento, fare l’amore sulla spiaggia avvolti dalla fresca ombra delle tamerici. Dopo tutti quegli anni passati assieme, era mio dovere cercare di salvare la relazione, forse ci eravamo persi per colpa del frenetico tran tran quotidiano che nascondeva una profonda crisi, quindi una pausa non poteva che farci bene. Avrei potuto chiedere un periodo sabbatico in ufficio (dopo quell’ultima cappellata non avrebbero sentito molto la mia mancanza) e una volta tornata dalla vacanza avrei cercato di darmi delle regole più ferree per quanto riguardava il lavoro. Decisi che era un buon piano per salvare capre e cavoli.

    Mentre cercavo il portatile per prenotare i biglietti che nella mia testa avrebbero risolto tutti i miei problemi, il telefono squillò nuovamente. Era mio padre.

    «Vieni subito qui. Dobbiamo parlare.»

    «Ok…»

    Il cuore iniziò a battermi a mille. Se c’era una cosa che m'innervosiva era proprio dover discutere faccia a faccia con mio padre, con cui non avevo più avuto un dialogo positivo dall’età di 4 anni, quando lo convinsi con valide argomentazioni a comprarmi Barbie Principessa invece di Barbie Bikini Dream. Era un tipo molto concreto e di poche parole, una sorta di padre padrone a cui bisogna dare ascolto e basta. Mi voleva bene, questo sì, ma non mi ascoltava, era gelido, e io ero il suo esatto opposto. Non eravamo mai stati capaci di creare un rapporto normale fatto di confidenze, affetto, intesa, magari qualche litigata sì, ma niente di serio; blandi rancori che si dissolvono con un semplice abbraccio. Tutto questo non ci apparteneva.

    Il volermi vedere di persona non preannunciava niente di buono. Aprii una birra per distendere i nervi prima di doverlo affrontare. Forse ce ne sarebbero volute almeno due. Per non parlare del fatto che forse avrei anche dovuto parlare con mio zio. Di birre allora ce ne volevano tre.

    Mio zio era il capo famiglia, il fratello più grande di mio padre, nonché titolare dello studio dove lavoravamo tutti. Una specie di Mussolini con i capelli. Rispondeva a monosillabi e di solito l'unica parola che gli usciva dalla bocca era No. Alle riunioni sedeva a capotavola, faceva parlare gli altri, compieva qualche infinitesimale cenno col capo e poi, se il giudizio era positivo, si alzava e se ne andava. Se era negativo, apriva la bocca, diceva No, e se ne andava. In ufficio cercavo sempre di evitarlo, sembravo un sorcio; passavo da una stanza all'altra radente al muro e con movimenti repentini, nella speranza di non incrociarlo mai. Non mi stimava molto, anzi a dirla tutta mi disprezzava, ma era reciproco. Faceva continui paragoni con i suoi figli, ovvero i miei cugini. Entrambi sposati, laureati in Legge a pieni voti, seri e affidabili. Il più grande stava studiando per dare il concorso da notaio, ci teneva tanto a dire questa cosa:

    «Diventerà notaio, mio figlio, notaio gne gne gne

    Io avevo arrancato negli anni a suon di 18 per ottenere una laurea in Scienze Politiche, rispetto a loro sicuramente facevo meno scena. Non avevo fatto la facoltà dei miei sogni, questo pure va detto. Forse un altro indirizzo avrebbe scaturito in me più trasporto, ma non sapevo a cosa iscrivermi all’epoca quindi scelsi ciò che mi avevano caldeggiato i miei genitori. In ogni caso, mio zio non poteva silurarmi perché ero la figlia di suo fratello, e questo fatto lo mandava in bestia.

    Mentre pensavo a tutto questo mi aprii una seconda birra, e poi un’altra e un’altra ancora. Dopodiché mi addormentai.

    Mi svegliai, completamente sconvolta e sudata, un'ora dopo con il cellulare che squillava. Era nuovamente mio padre. Non risposi, uscii di corsa da casa e, guidando male come una suora ubriaca, in quindici minuti arrivai sotto l’ufficio. Ero nervosissima. Mi sudavano le mani e avevo il batticuore.

    Entrai pregando che almeno mio zio fosse già andato via, invece purtroppo c'era, ma fortunatamente la porta della sua stanza era chiusa. Strisciai come un ninja codardo contro la parete e raggiunsi lo studio di mio padre.Non mi piaceva entrare lì dentro, era un posto cupo e angosciante. La prima cosa che si vedeva era un'opprimente scrivania in vetro e metallo scuro che rimaneva rialzata dal livello del resto della stanza, stava su una specie di palco, per intenderci. Dietro questo monumento svettava un’enorme poltrona nera dal design moderno e futuristico. Il tutto era talmente imponente da sembrare la cabina di pilotaggio di una navicella spaziale guidata dal capo di una temibile razza aliena, cerebralmente più avanzata di me. Sembrava di essere in un episodio di Star Wars e io mi sentivo… C1P8.

    Bussai.

    «Papà sono io, posso?»

    «Stavo per andarmene.»

    «Già… scusami. È che ho avuto un imprevisto.»

    «Come sempre.»

    Ero innanzi a lui da meno di un minuto e già sentivo una gran voglia di andar via.

    «Maria Vittoria, siediti.»

    Mi aveva nuovamente chiamata per nome, la faccenda si faceva preoccupante. Con fare tremolante, presi posto innanzi la scrivania, commettendo l'enorme sbaglio di poggiarvi distrattamente una mano sopra. La tolsi di scatto, ma ciò non impedì al sudore della mia mano di impataccarla. Cacchio!

    «Scusa, ho sporcato qui…»

    Balbettai, cercando di rimediare passandoci sopra la manica della mia maglietta, che lasciò sul tavolo una miriade di peluzzi colorati. Mio padre ignorò l’imbarazzante spettacolo che gli stavo offrendo e iniziò a parlare. Stava andando tutto male.

    «Forse questo discorso avrei dovuto fartelo prima, ma certe volte si pensa che i figli, crescendo, a certe conclusioni ci arrivino da soli. Nel tuo caso non è andata così, quindi ascoltami.»

    Mi aveva appena dato della cretina, in maniera molto delicata, ma pur sempre della cretina. Deglutii rumorosamente.

    «Il lavoro non è un hobbie, non è qualche cosa che puoi mettere in pausa quando hai il mal di testa, quando hai di meglio da fare o quando semplicemente non ne hai voglia. Bisogna mettere la propria vita da parte nel momento in cui lo si esegue. Il lavoro implica responsabilità e doveri, e il dovere più grande in qualsiasi lavoro è essere affidabili!»

    Mentre parlava mi mordevo selvaggiamente il labbro inferiore alla ricerca della carne viva. Volevo farmi male, fare uscire il sangue e concentrarmi sul suo sapore dolciastro invece che sulle parole amare di mio padre.

    «E sai cosa va a pari passo con l’affidabilità?»

    Non risposi, il panico aveva preso la meglio. Sbarrai gli occhi come se mi avesse chiesto la radice quadrata di 93.457.

    «La credibilità, cosa che tua figlia ha perso da tempo.»

    Una voce tanto sgradevole quanto nota colpì il mio timpano, e non era quella di mio padre. Mi voltai lentamente verso la porta e vidi il mio incubo più grande prendere forma; mio zio era lì e mi fissava, livido in volto.

    «Ci… ci… ciao zio! Non sapevo fossi ancora in ufficio altrimenti sarei passata a salutarti.»

    Falsa come un mazzo di rose blu. Credo se ne accorse perché continuò a parlare, rivolgendosi a mio padre, senza darmi minimamente attenzione.

    «Caro fratello, quello che è avvenuto ieri è solamente il risultato di ciò che ti avevo prospettato anni fa.»

    «Per ieri mi disp…» cercai di intromettermi, inutilmente.

    «Fammi risolvere questa cosa con mia figlia, del resto ne parleremo io e te più tardi.»

    «Non è legno per la croce, non c'è nulla da risolvere. Se a 30 anni è ancora così, come pensi di cambiarla?»

    Venivo insultata come se non fossi presente, eppure c'ero. C'ero e sentivo. Tentai nuovamente di dire la mia.

    «Posso parlare per favor…»

    «Forse dandole più responsabilità all'interno della società potrebbe evolversi.»

    «Dopo il casino che ha combinato ieri? Le memorie integrative che tua figlia ha perso ci davano la certezza di vincere

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1