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Il caso vuole
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Il caso vuole

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Narrativa - romanzo breve (110 pagine) - Quando una giornata di svago diventa un incubo, quando i ricordi ti perseguitano o le passioni ti travolgono, quando le paure ritornano c’è una sola cosa che puoi fare: vivere


Non c’è niente di meglio di una giornata di mare, goduta tra amici surfando onde altissime e veloci. L’occasione giusta per sfoggiare l’auto nuova, per far ingelosire qualcuno o per festeggiare una promozione col proprio compagno, godersi una passeggiata sul lungomare.

Ma non sempre tutto è come sembra.

Se lo è, potrebbe cambiare in un attimo.

Per Fabio, fiero del nuovo bolide ma da sempre frustrato in un ruolo di comprimario, e per Lorenzo, surfista scanzonato.

Per Pietro, preso a schiaffi dal destino nonostante una continua e rabbiosa lotta o per Elena, bellissima e sicura di sé.

Ma qui il vero protagonista è il Fato, e il suo ruolo è quello di orchestrare tempi, eventi, incrociare traiettorie in coincidenze.

Talvolta per colpire, aggredire. In altre occasioni per salvare, ricongiungere.


Riccardo Zambon è solito definirsi un “ingegnere per sbaglio”: opera tra i computer ma è da sempre affascinato dalle infinite sfaccettature dell’animo umano.

Come i veri supereroi, di giorno si occupa di ricerca e sviluppo per università e società di software, ma di notte ama alternarsi tra la stesura di storie, letture di romanzi noir, saggi, qualche buon film.

Abita in un piccolo borgo vicino a Firenze, immerso nelle colline del Chianti, dove lavora, scrive, vive.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateFeb 5, 2019
ISBN9788825408034
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    Il caso vuole - Riccardo Zambon

    vive.

    Prologo

    Il dolore era una lama incandescente piantata nel ginocchio, un'esplosione che dilagava dal legamento fino a ghermire la coscia, lo stomaco, la gola.

    Voleva urlare, per scaricare almeno in parte il male che aveva dentro, ma il tempo era per altro.

    Alzarsi, impossibile.

    Fuggire, non più.

    Doveva proteggersi, sperare in qualche improvviso mutamento della sorte a ora così avversa. Il ginocchio pulsava, pompando dolore nelle tempie e accelerando ancora di più i battiti già esasperati dalla paura e dalla foga.

    Non voleva essere lì, non doveva essere lì.

    Una situazione assurda, lontana anni luce dalla pace di pochi minuti prima. Sola sofferenza, spasmi, terrore.

    Si avvicinava, ormai era lì, inevitabile e feroce.

    Gli attimi, anche se dilatati dall’adrenalina, sarebbero comunque trascorsi. L’impatto era imminente, l’esito praticamente certo.

    Orrendo, definitivo.

    1

    Chi credeva che si sarebbe rivelata una giornata così potente

    Le previsioni del tempo su internet avevano promesso una decina di nodi di vento o poco più, invece il libeccio si concedeva senza parsimonia e il mare già gonfio da ore e ore di raffiche cominciava davvero a far paura laggiù, sotto la vecchia centrale abbandonata.

    Nello spiazzo erboso dietro alla spiaggia una decina di auto, parcheggiate con l’urgenza di chi deve sfruttare ogni secondo di un’emozione. Sulla riva, sferzata dalle raffiche e dalle onde, si contavano soltanto due ragazze a far conchiglie e qualche inguaribile romantico appollaiato sul pontile a godersi l'ennesimo spettacolo offerto da madre natura.

    Per il resto, tutti gli altri si potevano facilmente intravedere in acqua tra uno scroscio e l'altro di spuma, armati di tavole e vele variopinte che apparivano e scomparivano rapide tra i flutti.

    Ogni tanto qualcuno cadeva e sembrava completamente in balìa delle onde, ma poi si rialzava repentinamente frustando la vela e sfuggendo alla schiuma; altri giocavano con quei giganti d'acqua come se non avessero mai fatto altro nella vita. Sullo sfondo, le due immense torri della centrale termoelettrica in disuso da anni mantenevano un'ultima verticalità tra gli alberi flessi e lo spumeggio del mare contribuendo al surreale scenario mentre il vento ululava, incuneandosi nelle grandi finestre e sbattendo le porte rimaste a dividere uffici ormai abbandonati.

    Mentre la strada scorreva veloce sotto il cofano bombato e le vecchie mura della città medievale facevano capolino tra un tornante e l'altro, Fabio stringeva soddisfatto il volante della sua nuovissima BMW cabriolet. Il suo sguardo vagava appagato tra il cruscotto, con quel design che tanto lo intrigava, e il modernissimo touch screen di ultima generazione che si integrava perfettamente con la console centrale. Sbirciava solo ogni tanto e distrattamente oltre il parabrezza, quel tanto che bastava per restare in carreggiata e non ritrovarsi a testare immediatamente il funzionamento dei vari airbag in dotazione.

    Per l'occasione aveva anche aperto la capote e, nonostante l'estate fosse finita da un pezzo e ormai anche novembre fosse agli sgoccioli, se ne andava in giro con i capelli al vento come se si trovasse su qualche sontuoso boulevard di Beverly Hills. D'altra parte era un sabato più caldo della norma, il libeccio concedeva ancora qualche sventolata calda e bisognava godersi quelle ultime ore di sole, prima che i nuvoloni che già incombevano verso nord arrivassero con il loro carico di pioggia.

    Era stato veramente un colpo di fortuna che l'auto fosse pronta al concessionario proprio quella mattina, perfetta per la gita del week-end. La telefonata dell'addetto alle vendite che aveva scaraventato Fabio giù dal letto di buon ora in quel sabato mattina lo aveva elettrizzato da subito e, dopo un cappuccino al volo, la febbrile raccolta di tutti i documenti necessari e le consuete pratiche, si trovava già felice a bordo del suo nuovo giocattolo da quarantamila euro.

    Naturalmente non aveva ancora detto niente a Paola. D'altronde la mogliettina era lontana, si era alzata prestissimo per andare a un meeting a Piombino con Carlo e si sarebbero rivisti solo nel tardo pomeriggio direttamente laggiù. Le avrebbe fatto una bella sorpresa portandola a prendere un aperitivo sul lungomare seduta su quel comodissimo sedile in pelle.

    Avrebbe anche fatto invidia a Carlo, e mentre formulava questo pensiero si rese inaspettatamente conto che un po' gli faceva piacere, che avrebbe forse goduto in un angolo recondito del proprio ego se il suo amico avesse mostrato finalmente un minimo di ammirazione, se non di invidia.

    Si, certo… per Fabio, Carlo era veramente un amico: oltre a essere da più di quattro anni il fidanzato di sua cugina Elena era anche colui che gli aveva letteralmente spinto fra le braccia Paola, trasformandolo da un ragazzo introverso che silenziosamente si stava cucendo addosso i panni dello sfigato in una persona felice.

    Solo che ogni volta che lui faceva qualcosa c'era Carlo che l'aveva già fatta e doveva raccontarla. Mentre lui lavorava come assicuratore Carlo era già a capo del marketing di una grande azienda e aveva alle sue dipendenze Paola e un'altra decina di impiegati. Carlo aveva gli occhi azzurri e i capelli biondi. Carlo con tre ore di Tae-Kwon-Do alla settimana si manteneva in forma come un atleta olimpionico, mentre lui doveva massacrarsi di palestra per non cedere centimetri a una pancetta ereditaria che nessuna dieta sembrava arginare.

    Anche la casa al mare dove si accingevano a passare il weekend era di Carlo, e tra l'altro arredata con ottimo gusto.

    Solo l'auto a Carlo non dava grandi soddisfazioni: per la promozione si sarebbe preso volentieri una spider, ma Elena si era impuntata per fargli comprare un SUV, con la scusa che si sarebbe sentita più sicura nel traffico che diventava sempre più selvaggio, che guardare gli altri dall’alto era più figo, che le quattro ruote motrici la intrigavano… Quindi per il buon Carlo niente aria aperta, ma solo qualche problema di parcheggio in più.

    Eppure più di una volta Fabio aveva sorpreso la cuginetta a parlar bene delle auto scoperte. Anzi, l'ordine alla casa bavarese lui l'aveva inoltrato proprio dopo una cena a quattro in cui Elena aveva sparlato tutto il tempo un tizio con un fuoristrada che per poco non la investiva: i tipi con i fuoristrada si sentono i padroni… vuoi mettere una bella corsa coi capelli al vento come sulle auto di una volta… vai a capire le donne!

    Il bicchiere, appena opacizzato dalle mille labbra che negli anni lo avevano sfiorato, se ne stava ormai vuoto su un vecchio tavolino appiccicaticcio.

    Lo stemma serigrafato sul vetro era di una famosa marca di birra, ma il bicchiere veniva utilizzato senza tanti complimenti per servire agli avventori del locale un po' di tutto, tanto in quel posto di clienti particolarmente esigenti non se ne vedevano da un bel pezzo.

    Ogni tanto una mano callosa e ruvida lo prendeva, giocherellava svogliatamente con le sue geometrie e poi lo ribatteva sulla superficie del legno con un tonfo sonoro.

    – Portamene un'altra Marina, vai.

    Pietro se ne stava in disparte, un gomito appoggiato sul tavolo e uno sul ginocchio sinistro. Era la quarta birra che si stava per fare nel giro di un'oretta, tutte rigorosamente doppio malto.

    Aspettava quasi immobile, respirando piano. L'espressione del viso vuota talvolta si concedeva a smorfie di sdegno subito riassorbite. Ogni tanto, come per un tic nervoso, la mano sinistra riappariva da sotto il tavolo e andava ad infilarsi tra i capelli, vicino alla nuca, e li accarezzava forte fino quasi a strapparli. Se ne stava lì qualche minuto, a mettere alla prova quelle ciocche brizzolate, e se ne ritornava a ciondolare tra le gambe del tavolino.

    Ogni tanto Pietro alzava gli occhi verso quei tristissimi quadretti contenenti svariate fotografie del defunto padre della proprietaria che, ritratto già piuttosto attempato, esibiva come un trofeo la pesca del giorno.

    Li aveva visti talmente tante volte che avrebbe saputo associare ogni tipo di pesce pescato all'espressione sulla faccia del vecchio.

    Pensare che avevano fatto le medie assieme, Pietro e Marina. E lui più o meno se l'era sempre ricordata simile a quella figura che si muoveva lenta dietro il bancone: grassa, troppo grassa, leggermente gobba e tanto, tanto brutta.

    Poi, con il passare inesorabile del tempo, le si erano disegnate sulla pelle svariate rughe e negli anni l'espressione si intristiva sempre di più. Però la Mari era una bravissima persona, Pietro lo sapeva: quando era in forma lui stava volentieri al bar una mezz'oretta in più a parlare con lei, ricordare i vecchi tempi, talvolta chiedendole preziosi consigli.

    Quel giorno però non era proprio il caso, lui se ne voleva stare solo. Fuori dal mondo, ma con una birra a fargli compagnia cercando di dare un minimo di sapore a quella che si stava profilando come una pessima giornata.

    A quell'ora nel locale, uno squallidissimo bar nella periferia di Piombino, c'erano poche persone. Soltanto alcuni clienti fissi, gente che cercava il modo di arrivare a sera nell'ennesimo apatico sabato della loro esistenza o qualche anziano che giocava a carte, infervorandosi in una briscola come se si trattasse di organizzare un attacco nella seconda guerra mondiale.

    La birra arrivò, puntuale come l'occhiata interrogativa e leggermente preoccupata di Marina. Pietro non aveva nessuna intenzione di raccontarle quella dannata mattinata, e molto probabilmente il suo sguardo fu piuttosto eloquente in proposito visto che la barista dopo pochi istanti se ne andò in silenzio a pulire il bancone.

    Meglio così.

    L'ennesimo sorso riportò in bocca a Pietro il sapore amarognolo del luppolo. Lui se lo gustò un secondo, poi con il dorso della mano si asciugò i peli della barba e dei baffi che, incolti da quasi due settimane, trattenevano alcune gocce di birra.

    Che idiota.

    Ripeteva dentro di sé queste due parole, come una specie di mantra che invece di rasserenarlo alimentava un'ira crescente, nascosta dentro quella

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