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La Scelta
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La Scelta

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About this ebook

“Una vita in mare e per il mare”. A quarant’anni Massimo, il protagonista de La Scelta, decide di cambiare rotta: lascia la sua tranquilla vita cittadina per sfidare il mare. Luogo che da secoli e millenni ha instaurato con gli uomini un legame ancestrale e profondo. Non solo calma e tranquillità. Il mare è anche una sfida, una frontiera da oltrepassare, fisica e metaforica. Ed è quello che succede in questo romanzo in cui l’Oceano Atlantico rappresenta la sfida più grande. In mezzo, nel viaggio, si dipana la vita, fatta di amori, sfide, difficoltà e soddisfazioni personali. Delusioni. Come quella verso la propria terra natia, travagliata da opportunità sprecate. In questa traversata avventurosa a bordo del Thor e narrata in prima persona, Massimo scopre che le tempeste peggiori, quelle che più lo spaventano, non sono quelle naturali ma quelle dell’animo umano e del rapporto con gli altri; infatti, dopo tre anni sabbatici e navigazione spensierata, con il ritorno alla civiltà, si scontrerà con una delle peggiori tempeste della sua vita. Un romanzo dal finale avvincente che terrà il lettore incollato fino all’ultima pagina.
LanguageItaliano
Release dateFeb 2, 2019
ISBN9788855080415
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    La Scelta - Massimo Gardelli

    © 2018 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it – info@europaedizioni.it

    ISBN 978–88–9384–xxx–1

    I edizione settembre 2018

    Questo romanzo lo dedico a tutti coloro hanno sempre sognato,

    ma non hanno realizzato quello che veramente volevano.

    Lo dedico anche a quelli che hanno avuto il coraggio

    di lasciare il conosciuto per l’ignoto,

    augurando a tutti di riuscirci almeno una volta.

    Prefazione

    Una vita in mare e per il mare. È quella di Massimo, professione skipper. Abbandonata definitivamente un’ordinaria e tranquilla esistenza cittadina, per andarsi a cercare guai tra le onde e il vento, l’ultima sfida al compimento dei 40 anni diventa la traversata oceanica a bordo del Thor, un ketch di 15 metri, costruito con le proprie mani e l’aiuto di familiari e amici. L’Atlantico è l’esame di maturità che ogni navigatore sa prima o poi di dover affrontare. E più di un dubbio affligge anche un timoniere esperto: Sarò all’altezza della situazione?, Avrò la fiducia dell’equipaggio?, Resisteremo per intere settimane in mezzo all’oceano?. Gli esordi per Massimo non sono incoraggianti: a poche ore dalla partenza della traversata di 2700 miglia da Gran Canaria a Santa Lucia dei Caraibi, lo tradiscono gli amici che danno forfait lasciandolo solo. E lo tradisce la barca: una rottura seria sull’albero di maestra. Ostinazione e passione, però, la spuntano ancora una volta: Massimo mette insieme in fretta e furia un equipaggio raccattando i marinai in quella stravagante umanità che si trova sulle banchine delle regate oceaniche e riesce pure ad aggiustare la crocetta sull’albero con l’aiuto di un tuttofare. Il Thor può così mollare gli ormeggi e partire per la sua lunga avventura atlantica. Miglia dopo miglia si riempiono le pagine di un appassionante diario di bordo che appunta e descrive scrupolosamente momenti di vita, boline serrate, burrasche rabbiose, oziose giornate di calma piatta. Fino a quando l’incontro con una nave fantasma rimette in discussione la rotta, la sopravvivenza stessa dell’equipaggio del Thor. L’oceano di Massimo rischia di diventare il peggiore degli incubi ma l’epilogo sarà una sorpresa. Capitano coraggioso e un po’ incosciente, abituato sempre a cavarsela da sé, guascone al punto giusto, Massimo scopre piuttosto che non sono gli imprevisti e le tempeste meteorologiche a metterlo in difficoltà ma quelle dei sentimenti che arrivano improvvise e inaspettate. Il microcosmo di una barca a vela, sul quale due uomini e una donna dividono un pezzo delle loro esistenze diventa terreno fertile per far nascere amicizie e amori che fanno vacillare l’orgogliosa autosufficienza dello skipper. Basterà un addio e l’approdo nelle festose acque caraibiche a far ritrovare la rotta?

    La risposta, come recita una vecchia canzone, corre nel vento.

    Alessandro Goldoni

    Un’avventura in Atlantico

    Spesso ho pensato a un modo originale per cominciare a scrivere e a che cosa scrivere. Naturalmente la prima cosa che viene in mente è una storia autobiografica, nella quale fare una miscellanea di fatti accaduti realmente a noi stessi e di situazioni immaginarie per poter colmare quelle che consideriamo le lacune della nostra vita, quello che avremmo voluto che ci fosse accaduto; magari situazioni immaginarie in cui annullare le frustrazioni e affermare il nostro Ego. Guardandomi indietro però credo che tutto questo non sia necessario, non sia etico, ma chi decide cosa sia etico oppure no? Ognuno di noi ha una storia da raccontare, vera o mai accaduta, magari uguale o simile a tante altre, ma comunque una storia, con passioni, ferite, momenti felici, soddisfazioni. Mi rendo conto anche che si può cadere nella tentazione di autocommiserarsi o di scrivere cose che non si ha avuto il coraggio di dire o, peggio, di fare. Bah! I cinquant’anni sono l’età dell’introspezione, si ha la necessità di fare i conti con il passato, di fare un bilancio possibilmente positivo e pensare di nuovo che cosa fare da grande, come se si avesse compiuto vent’anni. Ma è capitato anche a quelli di voi che hanno raggiunto questa meta temporale o sono io e pochi altri a pensarla così? Spesso si ha la presunzione di essere unici e di avere vissuto momenti unici; in più, se per tutta una vita ti senti ripetere che sei strano, atipico, o fuori dagli schemi, alla fine quasi ci credi. Invece questa volta la voglia di scrivere nasce da una batosta che non avrei pensato di ricevere neanche nel peggiore degli incubi e che, anche in questo momento, pare non voglia mai finire, una catena di eventi negativi, piccoli e grandi, che ti cadono addosso senza che tu abbia la possibilità di controllarli o evitarli e ogni giorno ti chiedi: Perché a me, che cosa ho fatto di male, che... Alt! Non cadiamo nel vittimismo. Purtroppo non vogliamo mai arrenderci all’evidenza che i fatti che ci accadono avvengano conseguentemente alle nostre azioni, anche se spesso i risultati non sono quelli attesi o sono addirittura contrari, sia in positivo che in negativo, alla nostra volontà di fare del bene. Da qui, probabilmente, il credo, comune ai più, di una entità superiore che guida gli eventi per un disegno che noi poveri mortali non possiamo comprendere; a mio parere, ciò crea il terreno fertile per la malvagità e per l’egoismo, tanto le nostre azioni non valgono niente e Dio comunque sistema tutto. Questo, però, non vuole essere un trattato di sociologia e psicologia, ma un romanzo dove ognuno può riconoscersi o evadere fantasticando o sognando possibili realtà. Basta introspezioni, ora vediamo cosa riesco a scrivere.

    PARTE PRIMA

    CAPITOLO I

    Gran Canaria, novembre 1995

    Dopo essermi beccato anche uno sciopero della compagnia aerea, arrivo con una mezza giornata di ritardo all’aeroporto di Gran Canaria, in preda a una serie di preoccupazioni e aspettative per la mia prima traversata atlantica. Oltretutto la mia barca è un ketch di quindici metri costruito da un kit il cui scafo fu comprato undici anni prima e poi progettato, costruito e montato assieme al mio migliore amico, a mio padre (sempre coinvolto nelle avventure di quello scriteriato che è il sottoscritto) e all’allora suocero con l’aiuto di un cantiere per il mobilio. Questa fu la squadra base, ma il Thor, la nostra barca, attirò spesso amici volontari nei lavori più disparati. Mi ricordo che quando tornavo a casa dal lavoro e mi cambiavo per andare a lavorare in cantiere (che nella prima fase era un telone di nylon posto sopra un telaio di legno, appoggiato a mo’ di capanna sopra il ponte della barca, o meglio, dello scafo vuoto a sua volta collocato ai margini di un campo arato) pensavo al futuro di questa barca, al sogno di una traversata che mi avrebbe portato ai Carabi dove avevo navigato varie volte, ma mai con la mia barca. Ora ero lì, alle Canarie e stavo per cominciare quello che per tanto tempo era stato un desiderio, un sogno che finalmente stavo vivendo e mi sarei tolto la curiosità di come sarebbe andata a finire. Come sarebbe stata la traversata? Sarebbe stata una delusione? Mi sarei annoiato, con tutti quei giorni di acqua e basta? E io? Come mi sarei comportato? Sarei stato all’altezza della situazione? L’equipaggio, che ora mi aspettava in barca, mi avrebbe apprezzato? Sarei stato uno skipper con la S maiuscola? Oltre a tutti questi dubbi, c’era anche un’altra notizia che mi faceva stare in ansia. Il mio amico/collega, che mi aveva sostituito nella tappa Viareggio-G. Canaria e mi aveva telefonato appena arrivato all’isola, riferendomi, tra l’altro, che un membro dell’equipaggio aveva intenzione di sbarcare perché riteneva poco sicura la mia barca! Figuriamoci, dopo tutti i mesi di lavoro e i soldi che avevo speso per prepararla mi sembrava assurdo solo pensarlo. Oltretutto la persona che aveva istigato l’equipaggio al sospetto ammutinamento era l’unica che aveva visitato la barca durante i preparativi e mi aveva fatto pure i complimenti! Bah, misteri della vita! Finalmente arrivo al muelo di portigo n° 1 e salgo a bordo della mia beneamata barca con l’entusiasmo frenato da questa strana notizia che non riesco a spiegare, da una sensazione e da un’apprensione che mi prende allo stomaco. Me la trovo deserta. Solo un foglio manoscritto dal mio amico e collega skipper, che è dovuto tornare a casa il giorno prima, con le consegne delle riparazioni e/o sostituzioni da fare. Normale routine, specialmente dopo i giorni di forte burrasca che si erano presi nel Canale delle Baleari. E gli altri? Dovevano esserci almeno altre cinque persone. Dove erano spariti? La mia ansia comincia ad aumentare. Finalmente incontro uno dell’equipaggio, Andrea. «Ciao come va? Ma dove vi siete cacciati?». Lui mi guarda quasi imbarazzato e mi dice: «Siamo sbarcati tutti in attesa di definire lo stato della barca; sai, Giuglio afferma che la barca non è sicura e dopo la burrasca delle Baleari si sono rotte troppe cose e non ci sentiamo sicuri neanche noi». «Ma state scherzando? Quella burrasca è stata la più intensa e la più lunga degli ultimi 10 anni nel Mediterraneo, sono affondate tre imbarcazioni nella regata di trasferimento dell’Alizée e voi mi dite che si sono rotte troppe cose? Ho speso 15 milioni di lire, tutti i miei risparmi, per riarmare e revisionare la mia imbarcazione e voi mi dite che non è sicura?». «Sai, Giuglio si è già imbarcato su uno Swan e non ne vuole sapere di ritornare a bordo». «E gli altri? Daniele, Francesca e Sergio?». «Daniele e Francesca hanno già preso un biglietto aereo per ritornare, dopo essersi consultati con i genitori e Sergio fa comunella con Giuglio». «E tu che fai?». «Se mi garantisci che partiamo per la regata atlantica e che la barca è in ordine vengo, altrimenti ho già trovato anch’io un altro imbarco».

    La mia espressione doveva essergli sembrata un po’ ottusa e comunque la mia sensazione era di un intorpidimento del cervello, la percezione di un progressivo rallentamento delle cose. Stavo andando in tilt! Tutto mi sarei aspettato ma non questo! Certo, non l’immaginavo così il mio quarantesimo compleanno! La mia avventura sognata e agognata rischiava di naufragare prima ancora di cominciare veramente. Saluto distrattamente Andrea, dandogli un vago appuntamento in serata alla festa dell’organizzazione della regata di traversata atlantica. Mentre sistemo le mie cose in maniera frettolosa nella mia cabina, un turbinio di pensieri, idee e vaneggiamenti m’impediscono di reagire razionalmente alla situazione. Mi siedo sulla cuccetta e cerco di fermare il cervello. Chiudo gli occhi e respiro profondamente varie volte. Meglio! Ora cominciamo a organizzarci! Prendo la mia borsa con i documenti e vado alla reception dell’organizzazione per prendere i documenti della regata e per prendere conoscenza dell’organizzazione e dei servizi. Dopo le presentazioni e le congratulazioni di prammatica, le gentilissime fanciulle della reception mi consegnano una cartella con una miriade di fogli e depliant degli sponsor. Tra gli altri spicca quello di un rivenditore e riparatore di rigging (attrezzatura e sartiame per l’albero) della Camper e Nicholson, un nome e una sicurezza nella nautica mondiale. Tra i vari servizi convenzionati con la regata c’era un check dell’albero e del sartiame. Spinto anche da un impulso di rivalsa nei confronti del mio ex equipaggio, che non aveva capito e neanche apprezzato lo stato della mia barca, chiamo al telefono il referente di questa società, un certo Nick, con cui prendo un appuntamento per un controllo gratuito dell’alberatura due giorni dopo. Dopo essere ritornato in barca, comincio a controllarla, seguendo la lista che mi aveva lasciato il mio amico. Dopo un paio d’ore mi accorgo che sono ormai le 18, sospendo le attività tecniche e mi concedo una bella doccia calda e rilassante. Mi vesto e vado subito in cerca della fonte dei miei guai. Incontro Giuglio che parla con Andrea sul pontile di ormeggio dello Swan e appena mi vedono sospendono il colloquio con espressioni diverse. Cercando di non farmi influenzare dai miei sentimenti, saluto tutti e due e arrivo subito al sodo.

    «Senti Giuglio, non so cosa è successo esattamente durante la traversata del Mediterraneo, sicuramente ho capito che ci sono stati degli inconvenienti dovuti in parte alla non piena conoscenza della barca da parte del mio collega e comunque la barca non è perfetta; sicuramente anche alcune modifiche fatte all’ultimo momento possono aver creato qualche altro inconveniente. Non ho visto comunque nulla che pregiudichi la sicurezza e la navigabilità e il fatto che siate qui e lo stato attuale della barca dimostra che state esagerando. Sappi che sono disposto a venirti incontro: dopo la traversata in cui avrò dimostrato che le tue erano supposizioni dettate forse anche dall’inesperienza, sono disposto a riprenderti a bordo con la tua famiglia, come da accordi presi, per la crociera ai Carabi. Non ci baceremo in bocca, ma confido che essendo tutte e due persone civili...!!! Che ne dici?».

    Giuglio mi guarda con una espressione di divertimento misto a odio.

    «Ora ti spiego cosa succede: uno, in quella cazzo di barca non ci metterò mai più piede e tanto meno ci porterò la mia famiglia. Due, mi ridai indietro i soldi della crociera e della traversata e la finiamo lì. Tre, se non mi fai avere i soldi indietro sono disposto a spenderne il doppio in avvocati e ti faccio nero».

    «Giuglio, scusa, mi spieghi come farai a dimostrare che la barca è quella schifezza che dici se io arrivo a Saint Lucia senza problemi? Mi sembra che il tuo atteggiamento non si basi su fatti, ma sul volere avere ragione a tutti i costi! Comunque non c’è problema, ti do ancora un giorno per pensarci, dopo di che sappi che i tuoi soldi piuttosto li uso in avvocati anch’io. Ciao». Torno in barca in preda a mille sentimenti e a un turbinio di pensieri e con lo stomaco attanagliato dalla rabbia. E adesso come faccio? Torno indietro da solo contro vento e controcorrente? No, no, meglio fare la traversata, d’altronde l’hanno fatta anche in gommone e a remi, da soli...!!! Ma roba da matti, per uno stupido rincoglionito guarda che casino! Il mattino dopo si presenta Nick con un bansigo pronto per una immediata ispezione degli alberi. Dopo una ventina di minuti di su e giù per l’albero mi fa segno di farlo scendere. Quando riatterra sul ponte mi accoglie con delle bad news, affermando che l’albero maestro è rotto alla cerniera di dritta della crocetta bassa. Ok, dico, ripariamola. «No, mi dispiace, ma non c’è niente da fare». «Come sarebbe a dire, se la cerniera ha una piccola crepa nel cordone della saldatura, basta ricreare lo spessore». «No, no, non è possibile; devi cambiare l’albero. Se vuoi, in una decina di giorni te ne faccio arrivare uno dall’Inghilterra». «Stai scherzando!». Il mattino dopo vado al distributore presso il Marina dove i proprietario è uno di quei classici punti di riferimento che si trovano a latere dei porti turistici. Gli chiedo se conosce qualcuno che sia in grado di aiutarmi a risolvere il mio problema. Il gestore, un omone di poche parole, mi dice che conosce uno che fa al caso mio e di tornare l’indomani mattina. Pieno di dubbi, dopo una notte pressoché insonne, il mattino dopo m’incammino verso il distributore e quando sono nei pressi un ragazzo con il braccio ingessato esce da una R4 rossa: «Tu eres l’italiano che tiene uno problema con il barco?». Io annuisco stupito sia dalla sua presenza, che non davo per scontato, sia del fatto che devo aver stampato in faccia le mie preoccupazioni. Si presenta come Rochas, una sorta di tuttofare, nonché guidatore di guagua, ovvero di autobus. Il personaggio che si presenta con un avambraccio fasciato mi rassicura di aver abbastanza tempo a disposizione, visto che è a casa in infortunio. Dopo poche chiacchiere e un caffè, monto nella sua R4 rossa e andiamo a fare una visita alla mia barca.

    Dopo un giro in bansigo lungo l’albero riatterra e con una scrollata di capo mi dice: «Bueno, por migo se puede riparar. Tu tiene un cutter?». Glielo do e con un pezzo di cartone comincia a sagomare una dima della sezione dell’albero, poi saliamo sulla sua macchina e cominciamo il giro del reperimento materiali, attrezzi e quant’altro. Ci fermiamo alle porte di un officina dove il mio nuovo aiutante sembra di casa. Il proprietario ci accoglie con allegria e poi si mette subito a parlare con Rochas a una velocità impressionante, come solo gli spagnoli sanno fare, annuendo sul pezzo di cartone che quest’ultimo gli mostra. Ci spostiamo verso una pressa di ultima generazione, con impostazioni digitali che avrei pensato di trovare a La Rochelle e non certamente in quel mondo misto d’improvvisazione, trasandato e innovativo che è la capitale delle Canarie. Un tecnico prende in mano la dima di cartone e comincia a impostare il computer della pressa. Mentre rimango lì a guardarmi attorno, i due vanno a reperire il materiale adatto e a tagliarlo. Nel giro di un’ora e mezza, mi ritrovo in mano quattro pezzi di lamiera di acciaio inox di cinque millimetri di spessore piegati esattamente secondo la curvatura dell’albero di maestra del Thor. La sera, dopo una frugale cena solitaria a bordo, salgo sulla R4 rossa di Rochas che mi è venuto a prendere per andare a lavorare a casa sua a Firgas, o meglio, nel suo garage attrezzato a mini officina. L’arrivo a Firgas; sulla montagna dell’isola, fu in una atmosfera spettrale. Il villaggio era avvolto da lenzuoli trasparenti e impalpabili di sabbia sospesa nell’aria che rifletteva sul paesaggio una luce irreale. La sabbia del Sahara arrivava fin lì spazzata dal suo letto di dune durante una tempesta nel deserto distante centinaia di miglia. Subito mi sovvennero reminiscenze geologiche che ricordavano come spesso è possibile prendere un granchio nelle datazioni e analisi stratigrafiche. In quel momento avevo un esempio della difficoltà che avrebbe avuto un futuro geologo nel giustificare uno strato di sabbia desertico in mezzo all’Atlantico senza spiegarlo con il fenomeno che stavo osservando; la sfida alla comprensione della natura e del nostro habitat sarà sempre ardua e con gli sconvolgimenti atmosferici creati anche dall’inquinamento, lo sarebbe stato ancor di più Ci consultammo per iniziare a organizzare il lavoro e dopo dieci minuti cominciammo a forare le piastre per predisporle al fissaggio sull’albero e poi le saldammo a elle due a due, creando due cerniere di supporto. Ogni paio d’ore ci veniva servito un caffè dalla graziosa moglie del mio ospite, seguito in principio dal figlioletto curioso. Terminammo con la lucidatura dei manufatti che ora fanno da ferma carte sulla mia scrivania e poco prima dell’alba brindammo con soddisfazione e ci demmo appuntamento più tardi in mattinata, che ormai già da alcune ore era incominciata.

    Nonostante la nottata mi alzo di buon’ora per andare alla reception del Marina per chiedere il permesso di affiggere in bacheca un cartello con scritto: I need crew, muelo n° 1 S/Y Thor. Poco dopo mi raggiunge Rochas e cominciamo l’operazione di montaggio delle staffe di sicurezza per la crocetta dell’albero. Mentre lavoriamo cominciano a raggrupparsi alcune persone di nazionalità e sesso diversi: gli aspiranti componenti del nuovo equipaggio del Thor a cui do appuntamento nel primo pomeriggio, alla fine dei lavori. Dopo avere rivettato con la pistola ad aria compressa le staffe di supporto, Rochas infila i nuovi bulloni, leggermente più lunghi, attraverso i quattro fori della nuova cerniera. Dopo averli fissati con dadi autobloccanti, il mio salvatore guarda soddisfatto il lavoro finito. Ambedue certi della soluzione adottata, ci salutiamo con calore dopo il saldo dell’onesta parcella e un bicchiere di vino tinto. Alla faccia dell’albero rotto, ancora oggi, dopo venti anni da quegli eventi, il Thor so che naviga ancora col suo albero originale! Nel primo pomeriggio, ancora frastornato dalla catena di eventi che sembravano non finire mai, incomincio la carriera di selezionatore del personale. Di tutti i colori! Chi voleva essere pagato, chi telefonava al fratello in Olanda per darmi referenze, visto che con lo sguardo vacuo e la ferramenta di piercing che pendeva dalle varie appendici della testa non partiva certo con molte chance all’esame e altri ancora. Il solito italiano di turno, voleva non solo essere pagato ma anche rimborsato del volo di ritorno; fu la richiesta più esosa e approfittatrice e mi fece mal pensare delle mie origini razziali. Fortunatamente incontro Paco, quello che poi diventerà un secondo perfetto e soprattutto, un amico. Dopo avermi chiesto ospitalità per la notte ed essersi riservato di decidere l’adesione dopo un’approfondita visita alla barca il mattino successivo, ci prepariamo la cena e cominciamo a conoscerci. Tutti e due avevamo la consapevolezza che comunque ci sarebbe servito almeno un altro membro per completare un equipaggio di minima. Dopo il bicchiere della staffa ci diamo la buonanotte e rimandiamo all’indomani le preoccupazioni... almeno lui, io no di certo. L’avventura della mia vita continua in salita, ma almeno continua! È già un passo avanti!

    Dopo una notte decisamente migliore, incontro il mio ospite in cucina che sta preparando una buona colazione per due; mi sembra un buon inizio. Mentre parliamo del più e del meno, cercando di evitare ambedue l’argomento barca, in modo da evitare condizionamenti sulla verifica che Paco si accinge a fare, sentiamo bussare sulla passerella e una voce che dice: «Is there anybody on board?». Ci guardiamo tutti e due con un sopracciglio alzato e saliamo in pozzetto ad accogliere il nuovo arrivato... o meglio, la nuova arrivata. Ci troviamo davanti due occhi grigio azzurri che ci squadrano con un misto di diffidenza e aspettativa, incorniciati da capelli biondo cenere che toccano appena le spalle raccolti in una coda di cavallo. Una semplice maglietta leggera giallina aderiva ai sui fianchi stretti e al piccolo seno; gli short sfilacciati di jeans e le ciabatte di cuoio a infradito completavano la mise dell’abbronzata fanciulla. Poco dopo la sua bocca si ammorbidisce in un sorriso bianchissimo con «Good morning, my name is Celine, are you looking for crew?». Dopo i primi trenta secondi di stupore riesco a emettere un «Yes» tra i sogghigni mal celati di Paco e un «Bueno, ahora somos pronto». La invito a bordo e a scendere in dinette, mentre Paco automaticamente va in cucina a preparare qualcosa da bere. Dopo il primo momento di leggero imbarazzo esordisco con la prima domanda di riscaldamento. «Where are you coming from?». «Sweden». Un fischio sommesso sibila dalla cucina come benestare alla prima risposta. «Ehm! Nice!» rispondo con un’occhiataccia in cucina. Dopodiché, sorpresa delle sorprese, lei, come nelle migliori storie che si rispettino, esordisce con: «Io parlare poco italiano, mio fratello lavorato a Milano per quattro anni». Dalla cucina un «Ah, ha!» sottolinea un altro punto a favore. Io alzo gli occhi al cielo accorgendomi che la situazione mi sta sfuggendo di mano. Finalmente arriva Paco a togliermi d’imbarazzo con caffè e acqua fresca e il colloquio riprende in tono meno formale con battute e banalità inframmezzate da notizie che mi fanno sapere di una certa familiarità con il mondo nautico della nostra nuova ospite. Con la scusa che devo andare a prendere le ultime notizie meteo e informazioni per la partenza della flotta in traversata la lascio alle cure di Paco al quale delego con un «dille tutto» l’onere d’informarla delle vicissitudini del Thor e con un «see you later» me ne vado a zonzo a cercare di riordinare le idee e riprendere quella calma che mi sembra di aver perduto da secoli. Nonostante le tecniche di respirazione e rilassamento che cercavo di mettere in atto, lo sguardo di Celine mi appariva come un flash e immediatamente si dissolveva nell’altro sguardo della mia ultima compagna con cui avevo rotto un rapporto durato diversi anni, tra alti e bassi, ma comunque importante. Era esattamente da questo, oltre che da un Paese che sentivo sempre meno mio che suscitava in me insofferenza e che stimavo sempre di meno, da cui volevo fuggire e prendermi una pausa; e ora appariva una ragazza. In quel momento feci il voto che se fosse entrata a far parte dell’equipaggio l’avrei considerata solo come tale e nient’altro... almeno per la traversata. Dopo un paio d’ore tornai a bordo e immediatamente fui avvolto da aromi esotici che poi mi descrissero come tortillas e cheese cake che allietarono l’ultima cena prima di partire per la traversata. Durante il caffè volli formalizzare la loro adesione guardandoli negli occhi e chiedendo la loro decisone finale che sembrava ormai scontata. Due paia d’occhi, che ricordavano il mare nei periodi autunnali, mi risposero con un ok e un cenno affermativo con la testa e un sorriso canzonatorio conclusero l’accordo. Tre bicchieri di rhum apparirono come d’incanto a suggellare il patto. Dopo poco mi ritirai in cabina dando appuntamento in quadrato l’indomani alle otto per andare a comprare le ultime cose prima della partenza che sarebbe avvenuta alle 12 in punto nella baia di Gran Canaria.

    La notte non fu delle migliori, lo stress accumulato non accennava a diminuire e anche se erano già trent’anni che navigavo, la prima traversata atlantica è come la prima volta in amore: emozioni confuse, adrenalina a mille, simulazioni di come sarà e alla fine l’interrogativo ce la farò?. Cercavo di ripetermi informazioni generali quali novembre è il miglior mese per la traversata, oppure, ho l’EPIRB e l’organizzazione della regata che ci seguirà e altre ovvietà che dovevano rassicurarmi. Ma la vera sicurezza era che io volevo questa avventura e, anche se stavano cercando di rovinarmela, nessuno me l’avrebbe tolta; il fatto di avere due estranei a bordo poi poteva essere più un bene che un male. Finalmente il grande giorno! Il mattino si ripresenta con un multietnico: «Holà buenos dias, good morning e buongiorno... bello!». Paco si conferma il solito efficiente con caffè e pane tostato pronto e Celine che prepara la tavola della dinette. Bella coppia! Questo pensiero mi sorprende e mi fa sorridere di me stesso: il solito Massimo che cede il passo, anche quando vale la pena di combattere, chiaramente parlando di donne! Bene, e ora pensiamo ai preparativi! «Ragazzi, stiviamo bene tutto perché mi sa che per un po’ di giorni si rollerà come dei barattoli con ‘sta corrente nel canale delle Canarie». Un «what?» mi ricorda che devo parlare la lingua comune. Scusandomi con un sorry la metto al corrente della situazione che incontreremo e impartisco gli ordini conseguenti. «Aye, aye, Sir!» mi risponde con un sorriso canzonatorio. Simpatica penso.

    Ore 10, molliamo gli ormeggi. Man mano che usciamo dal marina sentiamo aumentare l’intensità del vento, un brivido di adrenalina ci pervade e subito scompare, guardando lo spettacolo di un paio di centinaia di vele che incrociano nella baia, all’interno della linea di partenza. Ci scambiamo un sorriso d’intesa e realizziamo che siamo all’inizio di una grande avventura, che siamo un élite di privilegiati che ricorderanno un’esperienza che in pochi hanno vissuto ma che pochi comprendono e possono apprezzare. Sorrido del mio snobismo che molti hanno frainteso nelle mie frequentazioni e torno al presente e grido a Paco di prendere fuori la trinchetta dal gavone e dico a Celine di prendere il timone, mentre aiuto Paco ad armare la vela. Noto con piacere che il mio micro-equipaggio risponde pronto agli ordini. Prendiamo anche una mano di terzaroli per ridurre la randa, in modo da non essere troppo invelati fino alla boa di disimpegno che raggiungeremo in bolina. La tromba che avvisa che l’intelligenza (la bandiera segnale di preparazione alla partenza) viene issata sull’albero della barca giuria ci sorprende mentre finiamo i preparativi. La smania classica della partenza di una regata ci pervade e subito dopo mi ritorna quella fredda calma incosciente che mi ha accompagnato in tutti gli anni passati a regalare. Un altro sentimento riemerge, una sorta di crudele divertimento nel rivaleggiare con gli altri equipaggi; due secoli prima la scena, forse, sarebbe stata completata dalle vampate di fuoco delle bordate dei cannoni di murata a ogni incrocio tra velieri. Mi rimetto al timone mentre suona il segnale dei dieci minuti alla partenza e le vecchie sensazioni di anni di regate riemergono dalla memoria e la mia mente rimette in moto gli automatismi di tattica, distanze, tempi e velocità. Sirena dei cinque minuti. Ai ragazzi dico quale sarà la strategia: non cercheremo di stare vicino alla boa al vento, troppe barche e troppo pericolo di collisione, cercheremo di stare sopravvento e partiremo da dietro la flotta, in velocità, cercando di sfruttare l’abbrivio, mentre le altre barche si ruberanno il vento a vicenda stallando e rischiando incroci pericolosi. Un cenno di assenso mi dà la conferma di ricevuto. Guardo il mio cronometro e vedo che mancano ormai solo tre minuti al segnale di partenza. Puggio e mi allontano dalla linea di partenza verso terra. I ragazzi mi seguono subito allascando le vele e intanto butto uno sguardo alla marea di gente assiepata sul molo a guardare lo spettacolo, di cui anche noi siamo protagonisti. Gli sguardi dell’equipaggio mi comunicano che anche loro pensano le stesse cose. Guardo il cronometro: un minuto e mezzo alla partenza! «Pronti a strambare, randa al centro!». «Strambo!». Lo schiocco delle vele che cambiano di mura e ricominciamo a risalire il campo di regata. «Cazzare le vele, bolina!». Il Thor s’inclina e comincia a fendere le onde a 7 nodi; ci avviciniamo velocemente all’assembramento di barche che cercano di prendere il sopravvento alla partenza... «50 secondi! Troppo veloci!». «Celine, lasca randa!». «Ok!». Rallentiamo a 5 nodi. Puggio un po’ sottovento alla flotta di barche, dalle quali cominciano a emergere urla in tutte le lingue per chiedere precedenze o evitare collisioni. 20 secondi e circa 100 metri alla linea immaginaria che segna la partenza della nostra traversata. «Vele a segno! Siamo partiti!». Thor comincia a riprendere velocità; 6 nodi, 6 e mezzo, 7. Una massa indistinta di prue, alberi, vele si avvicina velocemente, troppo velocemente! «Paco, va in prua, dammi posizione gli ostacoli sottovento!». Cerco un pertugio tra le barche a ridosso della partenza. È incredibile! Ci attendono oltre 2.700 miglia e la gente rischia di ammazzarsi o di affondare la barca per pochi metri di vantaggio, a quanto pare non sono il solo ad avere istinti pirateschi e euforie incoscienti! Mentre penso a questo, realizzo che sto filando a oltre sette nodi con 13 tonnellate dritto verso un groviglio di barche. «Maximo, mira un barco a ore 2 a 30 metri!». «Cristo! Ma abbiamo precedenza noi, abbiamo mura a dritta!». In quel preciso momento suona la sirena di partenza, tempo 0. Siamo a venti metri e... ma chi se ne frega! Quei coglioni ci affondano! «Celine, lasca genoa, puggio!» Contemporaneamente do un colpo secco alla ruota a sinistra e lasco la randa, che nella mia barca è a portata di mano del timoniere ed è dotata di un paranco di scotta a tre pulegge che permette di regolare la vela agilmente. Immediatamente la barca si raddrizza e contemporaneamente mi appare quasi affiancata l’imbarcazione dei coglioni. Faccio segno a Paco di tornare in pozzetto. «Facciamoli cagare sotto! Pronti a una virata secca!! Uno, due, tre, Viro!». Nonostante l’esiguo equipaggio e la strana invelatura che avevamo scelto per la partenza, randa e trinchetta, le 13 tonnellate del Thor cambiarono direzione con inaspettata velocità, puntando la prua nel mezzo della murata dell’altra imbarcazione. Vedemmo prima lo stupore e poi il terrore degli improvvisati regattanti che si videro una prua rostrata di ancora sul musone a pochi metri da loro. Un piccolo colpo alla puggia e sfilammo a tutta velocità a poco più di un metro dalla loro poppa, lasciandoli senza fiato. Un ghigno di soddisfazione apparve simultaneamente sui nostri visi che poi sfociò in una risata liberatoria, scrollandoci un po’ la tensione. Passammo così la linea di partenza senza danni circa in ventesima posizione e neanche tanto sottovento. A questo punto dovevamo bordeggiare in bolina per arrivare alla boa di disimpegno, per circa un miglio. Avevamo bisogno di più potenza di prua e quindi ordinai ai ragazzi di

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