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Partirò per il viaggio ai fiordi norvegesi?
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Partirò per il viaggio ai fiordi norvegesi?
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Partirò per il viaggio ai fiordi norvegesi?

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Un ricordo di sé e del proprio coraggio nell’affrontare la sfida più terribile. Anna Pelizzari ha scritto questo libro negli ultimi mesi della sua malattia, un cancro che nonostante tutti gli interventi medici e le chemio l’ha vista alla fine soccombere. Ma questo scritto in forma di diario, giorno per giorno, dedicato alla propria famiglia e agli amici più stretti, non racconta solo l’esperienza sempre più debilitante e tortuosa della malattia, tra ospedali, visite, e ansia per i risultati, ma anche la forza di andare avanti, di godere delle cose semplici e belle nel periodo peggiore della propria esistenza. Un desiderio, quello della pubblicazione di questo libro, che Anna Pelizzari è riuscita infine a realizzare…

Anna Pelizzari è nata a Brescia. Si è sposata molto giovane, a ventidue anni, e dal marito ha avuto una figlia. Dopo il divorzio, è tornata a coltivare il desiderio di sempre: l’insegnamento. Superato il concorso, ha iniziato a insegnare nella scuola primaria. Il suo percorso professionale si è interrotto nel marzo del 2017, quando le è stato diagnosticato un cancro. Ha sempre amato scrivere ed ha cominciato a raccogliere le sue riflessioni per riempire le giornate e non pensare a ciò che le stava accadendo.
LanguageItaliano
Release dateFeb 5, 2019
ISBN9788855080095
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    Partirò per il viaggio ai fiordi norvegesi? - Anna Pelizzari

    l’angolo?

    I

    L’infanzia

    Ho ricordi di un’infanzia felice, mi sono sentita amata, coccolata e viziata da mio padre. All’interno del nido famigliare mi sentivo una regina, molto accreditata per la precocità dello sviluppo cognitivo, ma anche per l’aspetto fisico. Avevo percezione di essere il centro del nucleo: la più bella, la più intelligente, quella con il carattere solare, la generosa; ma anche quella più turbolenta e più irrequieta. Ricordo che spesso mi annoiavo, una della frasi che ripetevo era: ed ora che cosa faccio. Allora dovevo avere amiche attorno, perché l’amicizia di mia sorella, con il suo carattere chiuso e introverso, non mi bastava. Subivo i musi di A., verso cui nutrivo anche forti sensi di colpa, perché lei era il polo oscuro della famiglia.

    Le prime esperienze sociali all’asilo confermarono la mia percezione. Io che memorizzavo più velocemente le filastrocche, io che a sei anni potevo accedere alla prima comunione perché avevo già imparato le formule del credo cattolico; io che fisicamente ero agile e snodata da esibirmi in vivaci acrobazie con mio padre e approcciarmi disinvoltamente alle prime arrampicate su rocce; naturalmente il confronto era con A. che ne usciva sempre svantaggiata.

    II

    L’adolescenza

    Parlare della mia adolescenza è ancora doloroso e molto faticoso, quasi dovessi vergognarmi di fatti successi in quell’oscuro periodo.

    Nel ’68, anno in cui i giovani ebbero tanto peso sul tessuto sociale del mondo intero, frequentavo l’Istituto magistrale. Fuori dal protettivo nido familiare il processo di formazione della mia identità subì un crollo distruttivo. Da ragazzina studiosa e sensibile, desiderosa di rispondere alle alte aspettative che la mia famiglia aveva su di me, subii gravemente l’impatto con le idee di contestazione del sistema, che si andavano affermando. Mi sentii sbagliata e inadeguata ed infine non trovai altra scelta che la fuga dall’ambiente scolastico.

    In quel tempo stavo maturando una percezione di me molto diversa da quella che mi era stata rimandata dalla famiglia. Nel sociale mi vedevo timida e impacciata, ma soprattutto mi percepivo brutta e grassa. Già dall’ultimo anno della scuola media avevo iniziato a limitare alcuni cibi di cui ero ghiotta e, più m’inoltravo in questa pratica, più trovavo piacere nell’impormi altre limitazioni. Fu così che iniziò il mio percorso nei meandri dell’anoressia che mi portò nel ’67/’68 a ridurmi ad una larva.

    Ricordo con una certa vergogna alcune giornate tipo di quel periodo: sveglia alle 6, ginnastica mattutina, spesso facevo pulizie a casa; a colazione solo passato di mele o latte magro montato, prendevo l’autobus delle 7.15 per non imbattermi nella ressa degli studenti, poi, d’inverno, mi rifugiavo nella chiesa di fronte all’Istituto magistrale, in attesa di entrare. Per colmare i morsi della fame, durante le ore di lezione masticavo gomma americana, riempiendomene la bocca. Col tempo ero diventata sempre più scorbutica nei confronti dei compagni di classe, soprattutto dell’amica del cuore. Al rientro a casa, per pranzo scrutavo con assillo la fettina di carne rigorosamente ai ferri o la porzione di verdura e, se mi fissavo che mia madre aveva aggiunto qualche condimento, mi rifiutavo di mangiare. Il pomeriggio, ritiro in camera per studiare fino al rituale del bagno con sale grosso, una specie di sauna domestica, infine cena a base di passato di verdura e alle 20 già mi ritiravo in camera per dormire.

    Rapidamente non ebbi più alcuna voglia di trascorrere le domeniche sugli scii o facendo escursioni in montagna con amici o parenti, così come eravamo abituati in famiglia.

    Le poche energie rimaste erano impegnate nello studio e nel portare avanti la solita routine.

    I risultati scolastici si mantenevano eccellenti, pertanto inizialmente i miei pensarono che l’impegno nello studio fosse la causa principale del deperimento organico ormai evidente.

    Oggi ritengo che l’impedimento a sprofondare nella malattia sia stato determinato dal fatto che in tutto ciò che mi capitava non perdevo mai la capacità di osservarmi con occhio critico.

    Mi vedevo agire, non potevo cambiare i miei atteggiamenti, ma sentivo che dentro di me c’era qualcosa che non funzionava. Da ragazzina solare ed esuberante mi stavo trasformando in una persona insensibile, ripiegata su se stessa, ossessiva nei rituali.

    Avevo sempre manifestato interesse per lo studio della psicologia, ma in particolar modo in quel tempo mi dedicavo a ricercare spiegazioni e terapie per quello che ormai avevo capito fosse un male della mia mente.

    Intanto, consigliati anche dalla cara professoressa di chimica, l’unica che aveva percepito cosa mi stesse accadendo, i miei genitori cominciarono a darsi da fare per approfondire le cause del costante deperimento. Per nostra sfortuna, però, negli anni Sessanta ancora non si parlava di disturbi mentali legati alla sfera alimentare. Allora, la malattia mentale veniva curata principalmente con ricoveri in ospedale psichiatrico, psicofarmaci ed elettrochoc.

    Dopo i primi tentativi di imbottirmi di vitamine e farmaci per far venire l’appetito, il medico di famiglia mi spedì dal neurologo. Iniziò così il calvario tra psichiatri fuori di testa, ricoveri in reparti chiusi, terapie d’urto. Non ho mai parlato con nessuno di questo angosciante periodo e di ciò che mi fu fatto, non ne sono ancora pronta. Ripenso ai tetri reparti chiusi degli ospedali psichiatrici, agli abusi subiti, all’elettrochoc.

    Se non sono diventata pazza in quel periodo lo devo al mio spirito critico e alla fiducia che i miei genitori hanno sempre dimostrato nei

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