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Giganti sulla Terra: Una storia di prateria
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Giganti sulla Terra: Una storia di prateria
Ebook560 pages8 hours

Giganti sulla Terra: Una storia di prateria

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In un capolavoro letterario dimenticato, la vera storia della conquista della Frontiera americana, tratta dalle esperienze personali dell’autore. Un gruppo di famiglie di pionieri attraversa lo sconvolgente e meraviglioso spazio sconfinato della prateria per iniziare una nuova vita, fatta di sogni e libertà. Combatteranno contro ogni possibile immane difficoltà, sotto un cielo talmente grande e limpido, in una pianura talmente vuota, desolata e lontana, da rischiare d’impazzire. Sono uomini e donne forti come pietre ma col destino sempre in bilico sulla catastrofe. Era il tempo in cui esistevano ancora luoghi mai calpestati da esseri umani, dove poter ricominciare. Ed essi lo fecero. Le loro avventure umane e sentimentali per resistere alla durezza di quell’esistenza sono tanto reali quanto epiche, e costituiscono ancora oggi le fondamenta del popolo americano.
LanguageItaliano
Release dateFeb 15, 2019
ISBN9788899403683
Giganti sulla Terra: Una storia di prateria

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    Giganti sulla Terra - Ole Edvart Rolvaag

    37

    Ole Edvart Rølvaag, Giganti sulla Terra

    1a edizione Landscape Books, febbraio 2019

    Collana Aurora n° 37

    © Landscape Books 2019

    Titolo originale: Giants in the Earth

    Traduzione e cura di Andrea B. Nardi

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-68-3

    In copertina: rielaborazione da Harvey Dunn

    Progetto grafico e impaginazione: service editoriale il Quadrotto

    www.ilquadrotto.it

    Ole Edvart Rølvaag

    Giganti sulla Terra

    Una storia di prateria

    a cura di Andrea B. Nardi

    INTRODUZIONE

    Non si aspirava all’Ovest. Si scappava dall’Est. È diverso.

    Di motivi ce ne sono davvero tanti per leggere il capolavoro di Ole Edvart Rølvaag, ma fra tutti mi concentrerei sul seguente: i protagonisti della saga. Qui non siamo in presenza di personaggi romanzeschi, d’avventura, di fantasia, creature mitopoietiche destinate a interpretare una recita solo nell’opera d’arte. Tutt’altro. Qui si racconta di uomini, donne, vecchi, bambini, e anche animali, realmente esistiti, corpi di carne e sangue, e menti senzienti, storie accadute, vissute, urlate, e alla fine dimenticate. Vite e situazioni meravigliose, epiche, straordinarie, al limite – e oltre – del credibile, eppure vere, verissime.

    Quegli uomini, i pionieri americani di metà Ottocento, vissero al superlativo pur immersi nell’infimo che la natura dei luoghi concesse loro: una natura all’ennesima potenza, impossibile e inconcepibile per l’animo umano, totalmente inimmaginabile da noi Europei a meno di recarci negli Stati del West e del Midwest e attraversarli lentamente. Allora in questi posti, benché ormai parzialmente urbanizzati e cablati dalla contemporaneità, sentiremmo quanto essi riescano a mantenere inalterato perfino oggi quel potentissimo timore/tremore da riversare addosso a chi vi si trovasse anche solo di passaggio. Li conosco bene, e ne conosco bene la sensazione: la prateria è ancora selvaggia, e fa ancora tanta paura.

    Non si può comprendere la cultura dell’America rurale di oggi – e quindi dell’intera nazione –, le sue scelte sociali, politiche, legislative, filosofiche, financo architettoniche, se non si parte dal modo in cui i pionieri vissero e tuttora i loro pronipoti vivono la propria guerra contro la natura e parimenti il proprio amore per questi territori sconfinati. Confesso che, in tanti anni di lavoro sulla letteratura mondiale, raramente mi è capitato un romanzo di tale forza emotiva e di tali implicazioni umane, pari solo, mutatis mutandis, a The Grapes of Wrath di Steinbeck, il quale, non per niente, ne continua la drammatizzazione riallacciandosi ai medesimi temi, luoghi e personaggi, cinquant’anni dopo.

    E cinquant’anni aveva Rølvaag quando pubblicò, nel 1927, la trilogia di Giants in the Earth (la prima stesura fu in norvegese, Verdens Grøde), mentre l’America stava giusto sperimentando sulla propria carne quella tragedia degli Okies fotografata da Steinbeck. Rølvaag era nato in un piccolo villaggio di pescatori nell’isola norvegese di Dønna, abituandosi fin da ragazzino alla vita durissima dei marinai delle Lofoten. All’età di vent’anni, nell’estate del 1896, aveva ricevuto da uno zio precedentemente emigrato negli Usa un biglietto per raggiungerlo nel Territorio del South Dakota, dove avrebbe vissuto come colono e contadino fino al 1898. Per buona sorte fu poi indirizzato agli studi dal ministro di culto della comunità di pionieri, e si laureò fino a diventare professore al St. Olaf College di Northfield nel Minnesota.

    Ecco che appare quindi chiaro come nel romanzo sia stata trasfusa esattamente l’esperienza personale e diretta dell’autore e dei suoi parenti, specie della famiglia di sua moglie, pionieri e coloni norvegesi sperduti nell’immensità della prateria nordamericana.

    Ebbe due sequel, Peder Victorious del 1929 e Their Fathers’ God del 1931. A tutt’oggi viene ripubblicato nel mondo anglosassone, mentre in Italia ebbe soltanto una fugace edizione nel 1941, con una pessima traduzione, ormai estinta. Proprio l’amarezza per la perdita di un tale documento letterario, umano e storico mi ha spinto a cercare un editore italiano che ridesse nuova vita al romanzo. Fortunatamente la palingenesi italiana di Giganti sulla Terra è ora arrivata in porto grazie a una casa editrice che da tempo si dedica al recupero di capolavori ormai scomparsi dai cataloghi italiani. Si è scelto di mantenere nel linguaggio di Rølvaag quel che di ancien, quasi di naif, che lo contraddistingue e lo conserva nel milieu epocale cui appartiene, compresa la sua stravagante e divertentissima punteggiatura, senza snaturare la penna commovente di questo grande scrittore.

    Qui si narra, pertanto, ciò che davvero fu il West, l’epopea del Far Wild Old West: né più né meno che la verità, la quale fu infinitamente più complessa e più semplice della sua trasposizione scenica e fantastica. Solo recentemente la cinematografia western (impossibile non citarla commentando questo romanzo che paradossalmente di western non ha niente benché sia davvero il western) è uscita dagli stereotipi favolistici per iniziare a rappresentare quel momento storico sotto aspetti maggiormente veritieri. Penso per esempio a The Homesman di Tommy Lee Jones, dove si affronta infine con crudo realismo e altrettanta compassione narrativa il tema fondamentale dell’impazzimento femminile (ma non solo femminile, in realtà) fra i pionieri, la loro travolgente solitudine nelle Great Plains, dove l’orizzonte completamente monotono e piatto a 360° per centinaia di miglia, senza un solo albero, fa venire le vertigini in orizzontale. Non è un caso che la pellicola sia figlia del romanzo di Glendon Swarthout e non di un plot hollywoodiano. O anche ai lavori di Kevin Costner e Robert Duvall sulla vita di allevatori e mandriani, anche qui precipitato filmico di opere letterarie di pregio, da Lauran Paine fino a Larry McMurtry. Senza dimenticare che perfino il sommo padre del genere classico, il maestro John Ford, dopo vent’anni di sparatorie, e appena un anno dopo il suo stupendo (uno dei suoi tanti stupendi) Stagecoach, sentì il bisogno di mondarsi, in qualche modo, firmando quello che forse divenne il vertice artistico più alto della sua produzione, quel Furore con cui si torna appunto a Steinbeck e all’epopea degli uomini della prateria.

    Il West fu l’ultima speranza avuta dall’umanità nella sua storia, la speranza di poter cambiare vita, abolire le ingiustizie, la miseria, la prevaricazione, creando una società senza monarchi, tiranni e padroni, quindi fondata sul concetto su cui è nata la più antica democrazia del pianeta (che non fu certo l’aristocratica Atene), basandosi sui frutti di una terra ricchissima, su una parola di solidarietà religiosa e umana, sulla meritocrazia protestante, e soprattutto sull’individualismo: come poteva essere altrimenti in quelle eterne solitudini?

    Bisogna, allora, tenere ben presente un elemento di estrema importanza: i pionieri che nell’Ottocento costruirono l’America dal nulla, non correvano a Ovest inseguendo un sogno, ma fuggivano dall’Est scappando da un incubo. È cosa ben diversa. Oggi gli Stati Uniti d’America possono proseguire il proprio cammino di libertà solo facendo i conti e non dimenticando mai proprio ciò che edificarono i pionieri di cui parla questo romanzo.

    Purtroppo quello che non distrussero i tornado, gli indiani, i serpenti, le cavallette, le tempeste di sabbia, le carestie, lo avrebbero fatto le banche all’inizio del Novecento. Quel sogno leggendario durò mezzo secolo. Ne cantiamo le gesta ancora oggi: qualcosa vorrà pur dire.

    Andrea B. Nardi

    I pionieri

    - Peder Hansa, detto Per: marinaio e pescatore norvegese, appena arrivato in America.

    - Beret: sua moglie, in attesa di un bambino.

    - I loro figli: Olamand, detto Ole o Ola, di circa nove anni; Hans Kristian, detto Store-Hans, di un paio d’anni più giovane; Anna Marie, detta And-Ongen, la piccolina.

    - Hans Olsa, grande amico fraterno di Peder Hansa.

    - Sörrina, detta Sörine, sua moglie.

    - Sofie, la loro figlioletta.

    - Syvert Tönseten, virtualmente il patriarca della colonia, conoscitore della prateria.

    - Kjersti, sua moglie.

    - I ragazzi Solum, Sam e Henry, giovani fratelli norvegesi ma già nati in America.

    A quelli del mio popolo

    che parteciparono alla grande conquista,

    a essi e alle loro generazioni

    io dedico questo romanzo.

    In quel tempo c’erano sulla terra i giganti, e ci furono anche in seguito, quando i figli di Dio si unirono alle figlie degli uomini, ed ebbero da loro dei figli. Questi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi.

    Genesi 6:4

    LIBRO PRIMO

    LA PRESA DI POSSESSO

    1.

    Verso il tramonto

    I.

    Cielo terso, luminoso, sopra una pianura così grande che laggiù sul confine con la volta celeste faceva il giro completo dell’orizzonte... Cielo terso e luminoso oggi, domani, e sempre...

    … E sole, e ancora sole. Ogni mattina il cielo s’incendiava, e con l’andare del giorno divampava in una luce d’oro che non la smetteva più di vibrare, fino ad ammorbidirsi soltanto al cadere della sera, e perdersi, allora, in tutte le possibilità dei rossi e dei violetti... Ovunque era colore puro. La raffica di vento che percorreva la prateria gettava attorno spruzzi di giallo, di azzurro, di verde. Ogni tanto un’ondata nera e opaca attraversava la scena... Era... ogni tanto, l’ombra di una nuvola.

    Lungo il tardo pomeriggio una piccola carovana si faceva strada attraverso l’erba alta. La traccia che lasciava dietro a sé era la scia di una barca: ma non si allargava a poppa, si richiudeva, invece, inesorabile.

    «Tish-ah!», faceva l’erba... «Tish-ah, tish-ah!»...

    Quello era il modo in cui l’erba parlava, e non lo avrebbe mai cambiato. Si piegava elastica sotto i piedi che la calpestavano, non si spezzava, ma ogni volta se ne lamentava, poiché una cosa simile non le era mai capitata... «Tish-ah, tish-ah!», esclamava, risollevandosi sorpresa alla vista di quella cosa brutale, dura, che rudemente la schiacciava al suolo per poi proseguire il proprio cammino.

    Alla testa della carovana camminava un uomo tozzo, dalle spalle larghe. L’erba alta attorno a lui e il suo rozzo cappello di paglia a larghe tese lo facevano apparire ancora più tarchiato. A pochi passi lo seguiva un bambino, poteva avere nove anni. I capelli biondi gli creavano contrasto col colore del collo abbronzato, mentre i capelli e il collo dell’uomo si erano ormai cotti in una medesima tinta scura. Padre e figlio. Appariva evidente dai loro lineamenti, non solo, ancora di più dalla loro andatura.

    Dietro di loro avanzava con fatica un paio di buoi, tirando un qualcosa che forse una volta era stato un carro, ma che adesso, dopo l’infinità di traversie subite, avrebbe dovuto essere gettato nel mucchio di rottami dal quale invece l’uomo lo aveva recuperato. Al di sopra del carro sei giovani rami di salice si incurvavano come arcate di una navata di chiesa; sopra questi archi, legate da ogni lato alla cassa del carro, erano spiegate prima di tutto due grandi coperte tessute a mano che avrebbero benissimo potuto ornare le pareti di un qualche maniero d’altri tempi. Sopra le coperte, poi, erano stati gettati due mantelli di pelle di pecora, con la lana di sotto, che servivano la notte per coprirsi. La parte posteriore del carro era stipata fino in cima con oggetti d’ogni genere. Un grande cassone da emigrante, in fondo alla catasta, si prendeva gran parte dello spazio, intorno e sopra si ammucchiavano masserizie, arnesi, utensili, e tutto il vestiario.

    Attaccato veniva a rimorchio dietro il carro un altro trabiccolo fatto a mano e parecchio strambo, costruito con tanta solidità e originalità da meritarsi un posto in un museo. In effetti sembrava tanto robusto da poter resistere a tutte le scosse di una traversata dall’Atlantico al Pacifico... A modo suo era stato anche lui un carro, o almeno c’era stata l’intenzione di farne qualcosa di simile. Le ruote erano pezzi di tavola fissati fra loro alla bell’e meglio; il pianale, ben più largo dell’altro carro, era pure stracarico di provviste e cianfrusaglie coperte con un telone ben imbracato. I due carri cigolavano e gemevano forte ogni santa volta in cui urtavano un cespuglio o affondavano in una buca. «Crak, crak!», faceva uno, «Crak, crak!», rispondeva l’altro; e il suono stridulo rompeva il silenzio secolare.

    A breve distanza dai carri seguiva una mucca pezzata. La carovana si muoveva così lentamente che la bestia aveva tempo di fermarsi a ingurgitare qualche boccata d’erba, pur senza poterne prenderne molte di seguito. Ma di quel poco che riusciva a strappare via aveva estremo bisogno, dovendo camminare tutto il giorno, dimenando e scuotendo la coda, timone vivente della carovana. Presto sarebbe venuta la notte, e allora avrebbe dato il suo contributo, il latte, per il pasto serale di tutta la compagnia.

    Attraverso l’estremità anteriore del primo carro era stata messa una tavolaccia. Lì a destra sedeva una donna, la testa avvolta in un fazzoletto bianco, che guidava i buoi. Contro il suo fianco, la testa bionda di una bambina, distesa sulla tavola, dormiva beata. Di tanto in tanto la madre allungava la mano sul viso della piccola per scacciarne le zanzare, sempre più invadenti al calar del sole. All’estremità sinistra sedeva un ragazzetto di circa sette anni, forte, molto ben sviluppato, brunito dal sole, dagli occhi intelligenti e vispi. Teneva le mani con le dita intrecciate sopra un ginocchio e lo sguardo fisso davanti a sé.

    Era la carovana di Peder Hansa, che con tutta la famiglia e tutti i suoi beni terreni si spostava verso occidente, dalla contea di Filmore nel Minnesota, verso il Territorio del Dakota. Là aveva deciso di prendersi del terreno e di fabbricarsi una casa, là andava a compiere qualcosa di grande, qualcosa che lo avrebbe reso celebre. Non mancavano le occasioni, in quel paese: almeno così gli avevano detto... Peder Hansa andava avanti e indicava la via, il ragazzino Ole, o Olamand, lo seguiva da presso e la esplorava. Beret, la moglie, guidava i buoi e si occupava di Anna Marie – detta And-Ongen, anatroccolo – sempre scoppiante di felicità. Hans Kristian – chiamato Store-Hans, il Grande Hans, per distinguerlo dal suo padrino chiamato pure Hans che naturalmente era tre volte più alto di lui, sedeva sul carro e badava che tutti facessero il proprio dovere... La mucca Rosie tallonava lentamente, dimenando e scuotendo la coda, dietro la carovana che avanzava, avanzava, nella pianura priva di fine.

    «Tish-ah!», faceva l’erba... «Tish-ah, tish-ah!»…

    II.

    La carovana aveva l’aspetto di una cosa miserevolmente fragile e lillipuziana via via che avanzava nella prateria sconfinata, verso la linea dell’orizzonte. Di strada o di sentiero nessuna traccia, e appena l’erba si era raddrizzata nessuno avrebbe potuto dire da dove quella fosse passata né dove fosse diretta. Tutto quel convoglio, Peder Hansa, la moglie, i tre figli, i buoi, i carri e la mucca potevano anche essere caduti dal cielo; e non sarebbe stato strano immaginare che cercassero di ritornarvi… La loro direzione era sempre la stessa: diritti verso occidente, in faccia al tramonto… incontro all’Ovest… Povera, sola, la carovana tirava innanzi scricchiolando a passo di lumaca, addentrandosi sempre più nell’infinità verde e azzurra, sempre più avanti, sempre più avanti… inseguendo la caduta del sole.

    Erano trascorse tre settimane e si era già a buon punto della quarta, da che la famiglia si trascinava nella prateria. Erano passati, partendo, attraverso Blue Earth, lasciandosi dietro Chain Lakes; e un bel giorno avevano raggiunto Jackson sul Des Moines River. Ma questo sembrava avvenuto secoli fa… Da Jackson, dopo una breve sosta, si erano spinti a ponente, sempre più a ponente, fino a Worthington, poi fino al Rock River. Un po’ a ovest di questo Peder Hansa aveva perso completamente la via. Da allora non l’aveva più ritrovata, e in quel momento non aveva la più pallida idea di dove fosse, né come fare a raggiungere il posto dove sarebbe dovuto arrivare. Ma lo Split Rock Creek doveva pur essere da qualche parte sotto il sole; e se trovava quel punto avrebbe potuto ritornare sulla pista e seguirla poi senza gran difficoltà… Strano, quel fosso che ancora non si trovava! Secondo le indicazioni ricevute avrebbero già dovuto raggiungerlo da due o tre giorni; ma non aveva visto niente che potesse assomigliargli… Mio Dio! E se non l’incontrava subito, questo accidente… I carri cigolavano, gemevano. Gli occhi di Peder Hansa vagavano sulla pianura. Il volto barbuto si voltava di continuo da un lato all’altro per studiare ogni pollice di terreno dal nord-est al sud-ovest. Di solito era attento soprattutto a quella parte di prateria che si stendeva tra lui e l’orizzonte, dal lato di occidente; con la testa tesa in avanti, gli occhi fissi e scrutatori, fiutava l’aria come l’animale da preda a caccia di selvaggina. Ogni tanto dava un’occhiata a un vecchio orologio d’argento tenuto nella mano sinistra; ma subito l’occhio tornava a errare, riprendendo l’inutile esplorazione verso il confine tra terra e cielo.

    Si avvicinavano le sei; fino alle tre del pomeriggio era stato sicuro della direzione, orientandosi con l’orologio e col sole… In quei luoghi per orientarsi non c’era altro; e affidarsi alla fortuna…

    Il silenzio regnava da un bel pezzo sulla piccola compagnia. Peder Hansa si voltò di sbieco, e senza rallentare il passo parlò al ragazzo che lo seguiva.

    «Torna indietro e guida un po’ i buoi, Ola1… Va' anche a parlare un po’ con la mamma, che non si senta troppo sola… E tieni gli occhi aperti, mi raccomando!»

    «Ma non sono ancora stanco!», disse il ragazzino, che avrebbe sempre voluto camminare in testa.

    «Vacci, in ogni modo. Forse non sei ancora stanco, ma io comincio a sentirla, la strada. Presto ci sarà da cuocere il porridge2… Vacci, e cerca di tener su la mamma ancora per un po’».

    «Credi che li raggiungeremo stanotte, babbo?», il bambino non si decideva.

    «Macché! Hanno troppo vantaggio su di noi… Tu stai bene attento ora, e se vedi qualcosa di sospetto dammi una voce…», e Peder Hansa guardò ancora l’orologio, si voltò e riprese l’andatura regolare.

    Ola non disse più niente, uscì dal cammino e aspettò fino a che il convoglio non lo raggiunse. Allora Store-Hans saltò giù agile; l’altro salì e prese il suo posto.

    «Avete visto niente?», chiese la madre, ansiosa.

    «No… non ancora», rispose il bambino in tono evasivo.

    «Chissà se li vedremo più!», disse lei, quasi a sé stessa, e fissando per terra. «Mi pare che andiamo a finire ai confini del mondo… e anche più in là!»

    Store-Hans che camminava ancora accanto al carro udì le parole della madre e la guardò. La sua faccia abbronzata brillava tutta d’ottimismo. Era un vero peccato che la mamma avesse tanta paura…!

    «Ma senti, mamma, se noi e loro siamo diretti verso il sole, arriveremo allo stesso punto! Non ti pare?... Il sole è una guida sicura, sai!»

    Erano le precise parole che aveva udito da suo padre la sera prima, e ora le ripeteva. La loro verità sembrava a Store-Hans più chiara del sole stesso; prima perché le aveva dette il babbo, e poi perché gli parevano così ragionevoli. Allungò il passo, raggiunse il padre e mise la mano in quella di lui: si sentiva più sicuro.

    I due camminarono accanto. Ogni tanto il bambino dava una sbirciatina al volto vicino al suo, che era fisso e immobile come la prateria che stavano calpestando. Aveva una gran voglia di parlare, ma non trovando un argomento abbastanza serio e da grandi continuava a tacere. A un certo punto però quel silenzio gli fu insopportabile, e con un tono che tentò di rendere indifferente, proprio come quello del padre, disse «Quando sarò grande e avrò dei cavalli, farò una strada in queste pianure, e… metterò i cartelli indicatori per la gente che verrà. Non ti pare una buona idea?»

    Una risatina uscì sotto la barba fissa sempre sul calar del sole. «Sicuro, Store-Hans, vedrai che ci riuscirai… Forse potrò venirti ad aiutare un’ora o due, ogni tanto».

    Il fanciullo capì dalla voce che suo padre era in vena di chiacchierare. Questo lo rese così felice che cominciò a fischiettare, dimenticandosi nella sua gioia della proibizione di sua madre, e cercò di camminare a gran passi come il babbo. Ma l’erba sotto i piedi faceva solo «swish-sh, swish-sh!».

    E sempre avanti andavano, sempre avanti verso la terra del tramonto, sempre più dentro nella profonda luminosità vespertina.

    La mamma aveva preso la piccola Anna sulle ginocchia, e provava ad appoggiarsi con la schiena più che poteva: le dava un po’ di sollievo ai muscoli stanchi. Le carezze della bambina e il suo chiacchiericcio le facevano dimenticare per un momento i pensieri e le ansie, e quell’indefinibile senso dell’ignoto che li opprimeva da ogni parte… Ole, che le sedeva accanto, guidava come un uomo: chissà come gli riusciva di far andare i buoi più svelti che sua madre; se ne accorse lei stessa. Gli occhi di lui frugavano la prateria, vicino e lontano.

    Lontano, all’orizzonte, la grande pianura adesso iniziava ad alzarsi, a lievitare come se un ascesso si gonfiasse sotto la pelle della Terra. Sebbene quell’elevazione non fosse proprio nella sua direzione, Peder Hansa cambiò un po’ la rotta per dirigersi sulla parte più alta.

    La brezza del pomeriggio s’indebolì, e infine cadde. Il sole, i cui raggi indorati s’erano andati impercettibilmente smorzando fino a prendere una tinta rossastra, brillò adesso di una luce quieta, eppure ancora accesa e chiara, ma poi, in poco tempo, toni di un violetto profondo cominciarono a insinuarsi tra i rossi. Il gran disco si fece enorme, indietreggiò sempre più nel vuoto lontano del cielo d’occidente; quindi, in un attimo, tramontò… In breve l’incantesimo della sera si dilatò avvolgendoli tutti: i buoi agitarono le orecchie, Rosie diede fiato a un lungo muggito che morì lentamente nel gran silenzio. Nel momento preciso in cui l’occhio del sole si spegneva, la vastità della pianura sembrò ingigantirsi da ogni lato; il paesaggio si fece improvvisamente desolato; qualcosa di freddo e sinistro penetrò nel silenzio, lo riempì di terrore… Alle loro spalle, lungo la via che avevano percorso, la prateria era verde scura e senza vita sotto l’ombra incalzante del cielo livido.

    Ole stava immobile accanto a sua madre. Il tramonto lo aveva tanto impressionato che si sentiva la gola arida. Avrebbe voluto tirar fuori le emozioni che lo opprimevano, ma quando ci provava gli mancava la voce.

    «Hai mai visto niente di così bello?»,mormorò alla fine, in un sospiro profondo… Laggiù in basso, a nord-ovest, sopra la collinetta indugiavano certe nuvole soffici orlate d’oro, segno di bel tempo; brillavano di luce calda. Fluttuavano leggere, immateriali…

    La madre si drizzò, tenendo ancora la bambina sulle ginocchia; Peder Hansa e Store-Hans camminavano molto avanti nel crepuscolo. Da due giorni Peder Hansa si teneva sempre parecchio avanti alla carovana; e lei credeva di capirne il motivo.

    «Peder…», lo chiamò, stanca. «Peder, quando ci fermiamo? Presto?»

    «Presto», rispose quello senza rallentare il passo. La donna passò la bimba da un braccio all’altro, e si mise a piangere in silenzio. Ole se ne accorse, ma fece finta di niente, e sebbene dovesse inghiottire i grossi singhiozzi che gli salivano in gola tenne risolutamente gli occhi fissi a terra davanti a sé.

    «Babbo!»,strillò dopo qualche momento: «Vedo un bosco laggiù, a ponente».

    «Davvero? Che scoperta! Io e Store-Hans l’abbiamo già visto da un bel pezzo».

    «Fin dove arriverà?», mormorò Store-Hans interessatissimo.

    «Comincia laggiù a sinistra, poi gira intorno fino all’altro lato», disse il padre «In ogni modo non mi sembra gran che, come bosco».

    «Credi che siano là?»

    «Nemmeno per sogno. Ma siamo sulla buona strada».

    «A ogni modo anche gli altri saranno passati di qui?»

    «Certamente, o almeno poco distante. Ci dovrebbe essere un fosso qui, lo Split Rock Creek. Questo è il nome inglese, o qualcosa di simile».

    «Ci sarà gente là, credi?»

    «Gente? Per amor di Dio! Da queste parti non c’è anima viva».

    Adesso una foschia scura e azzurrognola avvolgeva rapida la carovana: si sentiva la notte vicina col suo brivido fresco.

    Alla fine Peder Hansa fece alt. «Mi pare che non si possa andare più avanti, stasera. Sia noi sia gli animali a momenti si casca». Con queste parole si mise davanti ai buoi, allargò le braccia come in croce, e lanciò un lungo huuù; e per quel giorno il cigolio delle ruote cessò.

    III.

    I preparativi per la notte furono presto fatti. Ognuno era abituato a svolgere il proprio compito. Store-Hans portò la legna che era legata sotto il carro di coda, piccoli tronchi e rami secchi dell’ultimo boschetto incontrato.

    Ole preparò il fuoco. Dall’ultimo carro estrasse due verghe di ferro, ognuna con un’estremità divisa in due. Le piantò in terra, e tornò nel carro a prenderne una terza, che posò attraverso le altre due. Ole aveva anche l’incombenza di controllare che non mancasse mai acqua nel barilotto in qualsiasi luogo si fermassero, e doveva inoltre aiutare sua madre.

    Il padre si occupò delle bestie. Prima tolse il giogo ai buoi e li mise in libertà; poi munse Rosie, e lasciò libera anche lei. Dopo di che, preparò il giaciglio per tutta la famiglia, sotto il carro. Aspettando che il paiolo bollisse, la madre preparò la tavola. Spiegò per terra una tovaglia tessuta a mano, mise un cucchiaio per ognuno, due tazze per il latte, e prese le scodelle per il pudding. Intanto teneva d’occhio And-Ongen che gironzolava a passetti lì accanto, tra l’erba. La piccola cadeva, rideva, rimaneva seduta balbettando da sola, poi si alzava inciampando nel vestitino per ricadere di nuovo in avanti. Le sue risatine e il suo balbettio risuonavano nell’aria della sera… Ogni tanto vi si univa la voce materna, ricordandole di non allontanarsi troppo.

    Store-Hans fu il primo a finire; si mise a girellare là attorno, ma non trovando nulla da fare si allontanò verso ovest. Era impaziente di vedere a che distanza fosse la collina; sarebbe stato bello poter sapere che cosa c’era al di là!… E prese quella direzione. Magari finiva per incontrare gli altri, dovevano pur essere da qualche parte. Che bellezza, se fosse toccato proprio a lui di trovarli! Già gli pareva di piombargli in mezzo come un indiano; e che paura gli avrebbe messo!… Si era allontanato parecchio quando sostò per guardarsi indietro. Un brivido gli percorse la schiena… I carri sembravano due macchioline scure, lontani, sul pavimento di una stanza enorme e quasi buia… Qui bisogna ritornare subito, pensò: mamma avrà certamente preparato la cena; e le gambe automaticamente si affrettarono. Ma i pensieri della mamma e della cena non gli davano quel senso di sicurezza di cui aveva bisogno; allora cercò nella sua mente qualche strofa di un inno religioso per cantarla a voce alta acuta e forte più e più volte, finché non ebbe più fiato per cantare… Non si sentì pienamente rassicurato fino a che i carri non ripresero le loro dimensioni quasi normali.

    La madre gridò a tutti che la cena era pronta. Sulla tovaglia stavano due piatti di zuppa; uno grande per il padre e i due ragazzi, uno più piccolo per lei e And-Ongen. Il latte della sera era diviso in due bricchi davanti a loro. Rosie, poveretta, non ne dava molto in quei giorni. Il padre disse che quella sera non aveva voglia di latte: gli pareva che avesse un sapore piccante e bevve acqua. Ma quando anche Ole cominciò a lamentarsi di quel sapore strano e a chiedere acqua il padre si arrabbiò e gli disse di spicciarsi a bere in fretta quel sorso. Sulla tavola non c’era altro che zuppa e latte.

    A un tratto Ole e Store-Hans si bisticciarono, accusandosi a vicenda di prendere la zuppa troppo all’orlo, dove scottava meno. Il babbo smise di mangiare e ridendo sotto i baffi li stette un po’ a sentire. Poi prese il cucchiaio e fece con questo tre solchi sulla crosta della zuppa, e così fu decisa la questione.

    «Ecco fatto, Store-Hans! Questa è la tua terra: prendila e accontentati. Ole, che è il più grande, ne avrà un po’ di più…: calmatevi e mangiate!»

    Peder Hansa per sé quella sera prese la parte più piccola.

    Finito quell’incidente la cena fu tranquilla. Il silenzio incombeva, e non si sentivano capaci di romperlo… Appena finito di mangiare, il padre leccò con cura il cucchiaio, lo pulì sulla manica della camicia, e lo gettò sulla tovaglia. I ragazzi fecero lo stesso, ma And-Ongen voleva nascondersi il cucchiaio addosso, e tenercelo fino al giorno dopo.

    Poi vi fu silenzio. Fu la debole voce della più piccina che lo ruppe «Vi ringrazio nostro Signore e Creatore… Ora voglio fare la nanna!», disse appena finito, e arrampicandosi in braccio alla mamma le gettò le braccia al collo.

    «Come fa scuro presto qui!», disse la madre.

    Peder Hansa fece spallucce: «Cosa importa? Più presto finisce il giorno, più presto arriva il mattino!»

    Ma laggiù, nella prateria da dove erano arrivati, si stava preparando qualcosa. Dal fondo si levava dilagando una luce soprannaturale, un chiarore giallo pallido e verde trasparente, con graffi strani di rosso e oro. Mentre essi lo contemplavano si dilatò, i colori si fecero più intensi, una luce irreale come di un fuoco fatuo. Tutti sedevano in silenziosa ammirazione. Fu And-Ongen, aggrappata al collo della madre, che per prima ritrovò la voce «Oh! Guardate! Viene anche stasera.»

    Solenne, grandiosa, la luna salì alta sulla pianura. Erano diverse sere che li accompagnava ormai, ma ogni volta era ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Quella sera i loro spiriti ne sentirono in silenzio la magia, proprio come la sera prima in quell’altro punto, laggiù a est, sulla landa. I raggi d’argento si fecero più vivi, il cereo fuoco fatuo di prima cominciò a tremolare e ad allargarsi, e lentamente la luce si addolcì in una nebbia iridescente di verdi, gialli e azzurri.

    And-Ongen esclamò che la luna quella notte era molto più grande; la sera prima aveva detto la stessa cosa. Store-Hans molto serio ripeté la spiegazione solita: la luna doveva crescere, proprio come lei! Questo le sembrò molto logico, e voltandosi da sua mamma le domandò se la luna mangiava anche lei tutte le sere il latte e la zuppa.

    Peder Hansa, che stava seduto sul timone del carro fumando la pipa, si alzò, ne scosse bene il fondo, se la mise in tasca, caricò l’orologio. Fatto ciò, diede ordine di andare a dormire.

    Qualche momento dopo giacevano tutti sotto i coltroni guardando fuori quel chiarore opalescente. Appena la madre pensò che i ragazzi fossero addormentati chiese semplicemente: «Credi che li troveremo mai, gli altri?»

    «Ma sì, ne sono certo… A meno che non siano sprofondati sottoterra.»

    E fu tutta la sua risposta. Sbadigliò due o tre volte profondamente e rumorosamente, come avesse un gran sonno, e si voltò dall’altra parte…

    Allora non disse altro nemmeno lei.

    IV.

    A dire il vero, Peder Hansa non aveva affatto sonno. Parecchio tempo giacque sveglio, con gli occhi spalancati nella notte. Si era fatto fresco, ma ogni tanto, via via che i pensieri gli si affollavano in mente, i pensieri che non riusciva a scacciare, si sentiva tutto bagnato di sudore.

    E c’era di che esserlo: era stato così per tutto il giorno, e pure la notte innanzi. Ora, appena coricato, lo assalivano con ancora più forza gli scrupoli e i presentimenti che avevano ossessionato sua moglie prima di partire per il lungo viaggio: tanto quelli che avevano discusso quanto quelli che avevano taciuto. I peggiori, questi: sembravano più profondi e più tragici a mano a mano che egli cercava a suo modo di toglierglieli dalla mente. E non era stupida, sua moglie: tutt’altro. Aveva più criterio di molte altre.

    … No, la situazione di Peder Hansa non era davvero invidiabile. Non un istante di pace, né giorno né notte, dal momento del disastro, nel secondo pomeriggio dopo aver passato Jackson: il primo carro s’infossò in una buca piena di mota: nel tirarlo fuori lo rovinarono a tal punto da dover ritornare a Jackson per le riparazioni. In tali circostanze gli parve inammissibile trattenere tutto il resto della compagnia per quattro giorni. Non volle assolutamente che rimanessero ad aspettarlo, dal momento che gli altri avevano da fabbricare le case e dissodare i terreni, se volevano seminare qualcosa in quella stagione. Continuassero senza di lui; li avrebbe seguiti a suo tempo, e sarebbe arrivato benone… Così quelli gli dettero tutte le istruzioni sulla pista da seguire, i luoghi da scegliere per accamparsi la sera, e tutto gli sembrò semplicissimo in quel momento. Poi partirono tutti: Tönseten che conosceva la via, Hans Olsa, e i due fratelli Solum. Avevano tutti dei cavalli, e dei robusti carri nuovi. Quelli sì che viaggiavano svelti…

    Se almeno avesse dato ascolto a Hans Olsa, che insisteva per aspettarlo! Ma aveva respinto tutte le loro obiezioni: era proprio tutta colpa sua se Hans Olsa e gli altri avevano proseguito lasciandolo indietro.

    Cominciò presto a capire che orientarsi non era tanto facile. Non aveva forse perduto completamente la direzione l’altro giorno, in mezzo alla nebbia e alla pioggia sferzante? Da quel momento del pomeriggio non aveva più avuto nessuna idea sulla direzione da seguire. Dopo quella esperienza aveva preso l’abitudine di camminare in testa e molto più avanti della carovana, non potendo sopportare le domande insistenti di Beret, alle quali lui stesso non trovava risposta.

    Era sicuro di una cosa sola: non era sulla strada buona, altrimenti avrebbe incontrato le tracce dei loro accampamenti. Stava diventando per lui questione di vita o di morte ritrovare la pista, e ritrovarla in fretta… Una tirata da niente, fino all’Oceano Pacifico! Il carro non poteva reggere fin là!… Sì, se ne rendeva conto benissimo, era questione di vita o di morte. Nel carro non c’erano molte provviste, ed egli si era affidato troppo per ogni cosa a Hans Olsa, il suo vecchio compagno di pesca nelle Isole Lofoten…

    Peder Hansa fece un profondo respiro: non fece in tempo a ricacciarlo indietro… Per Hansa Olsa il viaggio era un affare da niente! Aveva mezzi, lui poteva iniziare le cose in grande fin dal principio; e aveva una moglie che ignorava cosa fosse la paura. Solo Dio poteva sapere dov’erano adesso: a ovest? A est? Avevano con loro Tönseten e sua moglie Kjersti, ambedue abituati all’America. Sapevano persino la lingua, e tutto!

    E poi c’erano i ragazzi Solum, che in America c’erano nati. Per quelli, più a est o più a ovest, poco importava dove dormivano quella sera.

    Lui invece era lì, nuovo arrivato, senza possedere nulla e senza sapere nulla, a cercare la via in mezzo a quell’interminabile prateria selvaggia, a tentoni lui e i suoi cari…! E Beret aveva preso un tale odio per quel viaggio! Sebbene fosse lei sotto molti riguardi la più giudiziosa di loro… Si era messo proprio in un bel pasticcio, non c’era che dire…!

    Perché aveva lasciato la Contea di Fillmore?, si domandava, e non riusciva a ricordare nemmeno una delle tante ragioni che lo avevano spinto a partire. Avrebbe potuto facilmente trovare lavoro là, e restarci almeno fino a che la moglie non avesse partorito, e partire per l’ovest la primavera seguente. Questo lei desiderava, pur non esprimendolo mai chiaramente a parole.

    Il coltrone gli pesava, l’opprimeva: se ne sbarazzò… Quanto ci metteva quella notte Beret ad addormentarsi! Perché non cercava di riposarsi il più possibile? Certamente lo sapeva anche lei che l’indomani sarebbe stata un’altra giornata dura!

    … Purché non andasse di nuovo in pezzi quel carro della malora…!

    V.

    La notte passava. I bambini dormivano, calmi e tranquilli. Anche la madre sembrava avesse finalmente trovato riposo. Peder Hansa pensò si fosse addormentata profondamente, e adagio adagio cominciò a ritrarsi piano da lei. Posò la mano tra di loro sulla coperta per darle l’impressione che stesse muovendosi nel sonno… Lei non si mosse: allora Peder rimase un po’ fermo, poi si spostò ancora. Così facendo la sua mano incontrò quella di Store-Hans… Com’era paffuta e rotonda, quella mano, com’era sana, calda, e forte per un bambino. Peder Hansa rimase un pezzo immobile stringendola con disperazione… I pensieri angosciosi parvero alleggerirsi, dileguarsi, il coraggio gli tornò… Tutto sarebbe finito bene, ne era sicuro!

    A poco a poco scivolò via da sotto la coperta, uscì dal giaciglio come un topolino; s’infilò i calzoni, si mise le scarpe.

    Fuori il chiaro di luna era abbagliante. Vicino, la prateria era immersa in una fiumana di luce opaca e verde. In lontananza si vedevano deboli tonalità azzurre, digradanti dolcemente nella nebbia violetta che nascondeva l’orizzonte.

    Peder Hansa cercò la Stella Polare, la trovò: girò finché non l’ebbe in direzione della spalla destra, poi guardò l’orologio, fece qualche passo, esitò, si voltò indietro, come se volesse tenere a mente la posizione dei carri e della stella. Infine voltò deciso le spalle e si avviò verso ovest.

    Come era bello muoversi ancora! A momenti si metteva quasi a correre. Ecco là i buoi, pascolavano…

    Avevano un gran bisogno di riempirsi lo stomaco, povere bestie!… Rosie si teneva più vicina ai carri: dapprima lo sguardo dell’uomo passò sopra a quella forma bruna, nella luce vaga, ingannevole; ma la mucca la vide bene quell’ombra che scivolava rapida, e mandò un lungo muggito… Peder Hansa imprecò tra sé, si mise a correre per non farsi più vedere, temendo un nuovo muggito… Speriamo non abbia svegliato Beret!

    Si diresse verso il punto dove immaginava fosse il vertice della collina, fermandosi spesso e voltandosi a osservare se si vedessero ancora i carri. Quando finalmente questi furono inghiottiti dalla notte e non poté più scorgerli gli mancò il fiato per un momento; ma strinse i denti e continuò.

    La cresta era più lontana di quanto avesse pensato; avanzò per un’ora intera prima di raggiungere il culmine; almeno a quattro miglia dall’accampamento, stimò… Si pose allora a esaminare attentamente il terreno, non senza aver consultato prima l’orologio, la Stella Polare e la luna, e cercando di fissarsi bene in mente i rilevamenti del campo.

    Dall’alto della cresta la terra presentava un aspetto diverso; la china era più ripida, ricoperta da folti arbusti, tra il cui fogliame la luna brillava stranamente… Peder Hansa non aveva paura, ma tutti i suoi sensi erano ben attenti. Prima fece una ricognizione sul pendio dal lato nord, al di là del boschetto, camminando chino, osservando ogni pollice di terreno. Quando realizzò di non riuscire a trovare nessuna traccia di ciò che cercava, ritornò al punto di partenza e perlustrò un tratto uguale nella direzione opposta… Ma non scoprì niente nemmeno da quella parte.

    Allora cominciò a muoversi lungo il margine del boschetto, dentro e fuori, facendo continui zig-zag in ogni direzione, spingendosi in tutte le piccole radure prive d’erba, smuovendo col piede il terreno prima di proseguire. Sudava abbondantemente. Così passò un quarto d’ora, cercando sempre come un disperato… A un certo punto, proprio alla fine del bosco, trovò uno spiazzo di terra piana con una radura più profonda. Nel mezzo c’era una larga macchia tonda nell’erba. Peder Hansa si gettò in ginocchio, come l’avaro di fronte a un gran tesoro, e si chinò, annusando il terreno. Il sangue gli pulsava, le mani tremavano mentre scavava… No, non si sbagliava! Lì c’era stato un fuoco! E non molti giorni prima: l’odore della cenere era ancora fresco… Gli occhi gli si erano inumiditi e velati, tanto che dovette asciugarli. Ma non piangeva, no: non ancora.

    Iniziò a muoversi carponi sempre più giù verso la china. D’un tratto si fermò e si accovacciò sui calcagni: aveva preso in mano qualcosa che ora esaminava con attenzione…

    «Se questo non è letame fresco di cavallo… ch’io sia dannato!», e la sua voce vibrò di una gioia acuta. Prese la cosa tra le dita, la sbriciolò, l’annusò… No, non era più possibile dubitare!

    Si alzò, camminando dritto e col passo elastico di un uomo che ha incontrato una fortuna inattesa, si mise a cercare per tutta china. Chissà se andando ancora avanti non trovava addirittura il guado quella stessa notte. Tanto tempo di meno da perdere a cercarlo l’indomani mattina… Il sottobosco diventava più folto a mano a mano che proseguiva giù per il pendio; quello era dunque lo Split Rock Creek? Lì si erano accampati, come Tönseten aveva detto che avrebbero fatto.

    Quando raggiunse l’orlo del fosso non gli ci volle molto a trovare il guado dov’erano passati gli altri; si vedevano chiaramente i solchi delle ruote, freschi e profondi come fossero stati proprio di quel giorno. Sostò un po’ sul margine dell’acqua, e si guardò attorno. Sarà stato proprio quello il guado migliore? La riva formava un gomito dall’altro lato, la costa sembrava molto ripida. Alla fine si decise a entrare nell’acqua senza togliersi le scarpe. Non era male; il fondo non scendeva troppo brusco per i buoi: lo avrebbero superato facilmente. Un brutto gradino vicino alla sponda; ma poi la pendenza diventava più dolce da risalire… Uscendo dall’acqua sulla riva opposta rimase come inchiodato al suolo.

    «Ma che diavolo…!», esclamò, chinandosi e sollevando un oggetto ai suoi piedi… Lo soppesò alla luce della luna, lo voltò e rivoltò fra le mani, lo annusò… e infine lo assaggiò…

    «Ma questo, perbacco, è uno dei prosciutti di montone di Hans Olsa!»

    Si raddrizzò, contemplando con gratitudine assoluta lo splendore tremulo e azzurro che lo circondava…: ecco quel che succede a chi ha troppa roba da sorvegliare! Si mise il prosciutto sotto il braccio e fischiando una ballata d’amore del suo paese venutogli inconsciamente alla memoria ripassò il guado.

    Non aveva fretta di ritornare. La cosa non aveva più nessuna importanza. La notte era bella e dolce; quella stanchezza dolorosa era svanita; si sentiva carico di nuova energia. Sua moglie e i suoi figli dormivano laggiù, sani e salvi, avevano ancora viveri per un paio di settimane; e lui adesso aveva ritrovato la pista, e poteva star sicuro del suo cammino fino a Sioux Falls… Quel maledetto carro era l’unica difficoltà. Avrebbe dovuto tenere ancora insieme per qualche giorno. Appena fu tanto vicino da vedere i carri abbastanza bene al chiarore della luna rallentò il passo… e d’un tratto fu attraversato da un brivido.

    C’era qualcuno seduto sul timone del carro! Quella era una forma umana!

    Con ansia crescente si affrettò.

    «Santo cielo, Beret! Che ci fai qui fuori nel cuore della notte?». La sua voce, tremante di paura, era addolcita dalla tenerezza premurosa.

    «Era terribile stare lì da sola, sotto le coperte, dopo che tu sei andato via… Mi mancava il respiro, quasi… E così mi sono alzata».

    Pronunciava le parole con difficoltà, ed egli si accorse che la sua voce era rauca di pianto. Anche lui dovette fare un grande sforzo per trattenere le lacrime.

    «Eri sveglia, Beret?… Non dovresti stare sveglia così, la notte!», disse in tono di rimprovero.

    «Come faccio a dormire? Tu ti agiti continuamente! E non dici nulla!… Me lo potresti dire; lo so benissimo cos’hai!»

    Improvvisamente lei sentì di non poterne più, gli andò addosso, gli gettò le braccia al collo, si rannicchiò tutta contro di lui. La fiumana delle sue lacrime sgorgò; la donna pianse a lungo, amaramente.

    «Ma calmati, via, cara… Devi calmarti, Beret, bambina mia!…». La cinse teneramente con un braccio; ma le parole gli venivano a stento… «Non vedi, qui, che ho sotto il braccio uno dei prosciutti di Hans Olsa?…»

    Peder Hansa, quella notte, fece contenta sua moglie.


    1 In quasi tutti i dialetti norvegesi Ole diventa Ola.

    2 Alimento tipico specialmente della cucina nordica e anglosassone; può variare molto nelle sue caratteristiche, da dolce a salato, ma di base è un guazzabuglio di acqua o latte con aggiunta di cereali vari, speziati a piacere: qui spesso verrà definito come zuppa.

    2.

    Metter su casa

    I.

    Sul fianco di una collina dolcemente digradante sui molti giri del fiumiciattolo che serpeggiava a sud-est nella prateria stava Hans Olsa, impilando zolle d’erba. Fabbricava la casa, una capanna di terra3. I muri arrivavano già all’altezza del petto, e così, compiuta a metà, la costruzione pareva più un baluardo contro un nemico che una comune abitazione. I grandi mucchi di zolle tagliate, ammucchiate agli angoli, sembravano riserve di munizioni per la difesa della fortezza.

    Per un uomo della sua forza e della sua struttura massiccia Hans Olsa si muoveva in modo straordinariamente agile e rapido; ma quel giorno lavorava a scatti. Quando si arrestava si raddrizzava, passandosi velocemente la manica sul volto turbato: e ogni volta la manica si bagnava di più; e lui, standosene diritto, fissava attento la prateria, verso oriente. Quante volte l’aveva scandagliata, quella distesa di terra! Ne conosceva ormai ogni buca e ogni ciuffo d’erba… No, niente in vista, ancora!… Riprendeva il lavoro, come per riguadagnare il tempo perduto, ma subito se ne scordava e si fermava ancora senza volerlo, scrutava vagamente in lontananza con aria inerte e distratta.

    Dietro la casupola era stata piantata una tenda; e un carro le stava vicino. Sullo spiazzo davanti alla tenda c’era una stufa, un paio di sedie, e qualche altro mobile grossolano. Una donna grossa, dall’aspetto sano che irradiava gentilezza e bontà, stava preparando il pasto di mezzogiorno cantando sottovoce, mentre una ragazzetta sui dieci anni, di nome Sofia, la stava aiutando. Ogni tanto la ragazzetta riprendeva il motivo della canzone, e allora cantavano assieme.

    A meno di un quarto di miglio, in direzione sud-est, sul pendio del colle sorgeva una casetta di terra già finita. Da essa si levava il fumo. Quella capanna, costruita fin dall’autunno precedente, apparteneva a Syvert Tönseten4.

    Un po’ più a nord c’erano in costruzione altre due case-capanne di terra, ma in mezzo si frapponeva un poggio per cui Hans Olsa non poteva vederle. Là i due ragazzi Solum avevano piantato i loro paletti e avevano cominciato a costruire. L’abitazione finita di Tönseten e le altre tre ancora da terminare formavano il

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