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La politica del male. Il nemico e le catogorie politiche della violenza
La politica del male. Il nemico e le catogorie politiche della violenza
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La politica del male. Il nemico e le catogorie politiche della violenza

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È questa un’indagine multidisciplinare sulla natura del male politico, sui modi concreti in cui esso si è manifestato e sulle origini delle pratiche che l’hanno reso sempre più crudele.
Attraverso la violenza, la politica assegna determinati valori alla vita e alla morte, decidendo quale funzione assegnare al cor­­po del nemico suppli­ziato, violentato, imprigionato, da uccidere, ucciso e da far svanire. Un’antologia dei dolori del mondo prodotti da una politica che mortifica la vita e finanche la morte.
È dunque, questo, un lavoro che, smontando la tesi della “belva umana”, secondo la quale lo stato di natura degli esseri umani è violento, spiega che la violenza politica è frutto di atti consapevoli e di utilità programmata per il dominio totale sulle persone. Questo per stimolare il lettore e proiettarlo nella difesa ad oltranza dei diritti umani, dinanzi a qualsiasi politica che si fa criminale, per riconoscersi in valori positivi che devono essere comuni a tutta l’Uma­nità.
LanguageItaliano
Release dateFeb 12, 2019
ISBN9788899735814
La politica del male. Il nemico e le catogorie politiche della violenza

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    La politica del male. Il nemico e le catogorie politiche della violenza - Renzo Paternoster

    Renzo Paternoster

    LA POLITICA DEL MALE

    Il nemico e le categorie politiche della violenza

    Argot edizioni

    © Argot edizioni

    © Andrea Giannasi editore

    Lucca febbraio 2019

    ISBN 9788899735814

    PROLOGO

    Annick Cojean, giornalista francese, racconta che un preside di liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, questa lettera ai suoi insegnanti:

    Caro professore,

    sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università. Diffido – quindi – dall’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani.¹

    Ecco, è proprio l’umanità perduta l’argomento di questo lavoro. Uno studio di un’Umanità seviziata, violata, imprigionata e sterminata da parte di una politica oscena che si è fatta criminale.

    Questo saggio che il lettore ha tra le mani non è tuttavia una storia della violenza (su cui esistono per altro ricostruzioni degne di nota) e neppure un trattato di sociologia della violenza (anche in questo caso ci sono approfondimenti illuminanti). Non si tratta nemmeno di formulare sentenze, questo è compito dei giudici. È piuttosto un’ipotesi di lavoro che, spiegando gli eventi crudeli prodotti da una politica dispotica, cercherà d’im­pegnare la curiosità intellettuale del lettore per stimolarne l’in­teresse e promuovere il suo pensiero critico nei confronti di una politica che vuole dominare anche la storia.

    Attraverso un percorso multidisciplinare, questo lavoro di ricerca, dunque, ha voluto cercare i caratteri persistenti di politiche che si sono abbandonate alle perversioni, quindi ha indagato sulla natura del male politico, ma anche sui modi concreti in cui esso si è manifestato e sulle origini delle pratiche che l’hanno reso sempre più crudele.

    Il menù della cattiveria, l’antologia dei dolori del mondo prodotti da una politica che mortifica la vita e finanche la morte, è vasto. Dunque questo lavoro indagherà in questa estensione violenta, facendo capire che tutte le malvagità sono certamente uniche, ma, pur variando le forme di crudeltà, ogni male ha uguale valenza al pari degli altri. Questo sia per dare medesima dignità alle vittime sia per cogliere al meglio i meccanismi di ciascuno.

    Il senso comune predominante abbraccia la tesi della belva umana, secondo la quale lo stato di natura degli esseri umani è violento. In questo lavoro sarà smontata questa tesi, perché il comportamento criminale non è affatto la conseguenza di una particolare predisposizione né di un individuo né di un popolo, perché tutti possiamo diventare carnefici ed essere sedotti da un Bene banale.

    Anche l’assunto che innalza la cultura all’opposto della violenza devastatrice sarà scomposta, perché, come ricorda la lettera del preside americano, molti carnefici avevano istruzione medio–alta.

    La violenza politica, inoltre, non è patrimonio esclusivo di un popolo o di uno Stato. Sicuramente «la democrazia non produce gli stessi effetti del totalitarismo», afferma Tzvetan Todorov, che ha vissuto sulla sua pelle la negazione dei diritti umani fondamentali, «tuttavia i bambini massacrati non fanno differenza tra bombe totalitarie e bombe umanitarie, atomiche o convenzionali»².

    C’è un’accumulazione di convenzioni internazionali a protezione dei diritti umani, anche in caso di guerre, tuttavia la storia insegna che le disposizioni che nascono da questi accordi sono quasi sempre disattese. Dunque le leggi, pur impiantando principi fondamentali, sono inefficaci dinanzi a scelte individuali.

    Pertanto, ogni sterminio, ogni crudeltà politica non sono eventi metafisici, ma il frutto di scelte. Ogni carnefice è un individuo che sceglie, ogni vittima è una persona che è risucchiata fuori dalla storia a causa di queste scelte.

    Non mi dilungherò molto in questa introduzione, per permettere al lettore di entrare subito in contatto con la realtà del male politico, per aiutarlo a riflettere criticamente, al termine della lettura, sul nostro tempo. Solo un’avvertenza prima di continuare: per l’intrecciarsi degli argomenti, molti crimini sono ripresi più volte nei vari capitoli per esaminarli sotto più punti di vista e avere un quadro più completo.

    Mi auguro che questo lavoro di ricerca faccia vergognare il lettore, quella vergogna che i vari carnefici non hanno saputo esprimere, che non hanno voluto esprimere. Io per primo ho provato vergogna nello scoprire e studiare l’indicibile, domi­nando in me l’impulso di fermarmi, poiché il mio spazio morale e mentale è stato continuamente sollecitato, provocando un profondo e doloroso turbamento interiore. Ma ho continuato, nella vergogna che mi assaliva sempre di più ho continuato, sperando di trasmettere questa emozione al lettore, per stimolare un’autovalutazione e proiettarlo nella difesa ad oltranza dei diritti umani dinanzi a qualsiasi politica che si fa criminale e riconoscersi in valori che devono essere comuni a tutta l’Umanità. La vergogna può essere azione.

    Se uno Stato o un gruppo umano vara programmi di sterminio, di espulsioni, di violenze in massa, di politiche razziali, queste non potranno essere prodotte se mancano gli operai che l’attuano. Dare il via a uno sterminio, a una politica razziale, a una violenza di massa è una scelta, una pura scelta non determinata da forze o strutture astratte: sono gli esseri umani a fare politica, non le cose. Ognuno di noi ha la possibilità di influire positivamente sui presupposti oggettivi di una violenza politica attraverso un grande potere: il potere di scegliere. Questo è il minimo che possiamo fare, ma almeno facciamolo.

    Nonostante dopo la scoperta di Auschwitz si è detto che non sarebbe successo più, la sua logica ha continuato a mietere vittime innocenti e la storia si è ripetuta.

    L’orrore dunque è sempre in agguato, non smette di far parte della nostra storia, continua a irrompere prepotentemente. Mi chiedo: ci deve pur essere un confine al male. No, purtroppo non c’è e, come vedremo, la storia lo insegna.

    Capitolo I. La figura del nemico

    1.1. Dallo straniero al nemico

    Fin dai tempi più remoti, secondo il contesto sociale, civile e geografico, l’uomo ha avuto una percezione diversa dello straniero. Spesso egli è percepito in maniera negativa, etichettato come diverso, come qualcuno che non appartiene e, quindi, di cui non ci si può fidare. Lo stesso termine straniero, ha uguale radice dei vocaboli estraneo e strano, indicando ciò che è di fuori, esterno, diverso da me. Lo stra– iniziale della parola, che deriva dalla forma latina extra, ci consegna l’immagine di qualcosa che sta fuori rispetto a ciò che sta dentro. È quindi un discrimine che nasce geograficamente, ma che diventa politico–sociale.

    Nelle lingue indoeuropee il vocabolo che indica lo straniero racchiude in sé tutto il repertorio dei significati semantici dell’alterità, quindi forestiero, estraneo, nemico, in sintesi tutto ciò che è Altro da noi. Siamo dunque di fronte a tre antinomie: intero/esterno, che riporta a un luogo; estraneo/proprio, che rinvia a un possesso; strano/familiare, che rimanda alla comprensione.

    In generale nel mondo classico, l’idea di straniero come qualcosa che non appartiene è radicata, perché chi è estraneo al mio spazio, alla mia vita, è strano. Tuttavia, almeno inizialmente, non si ha un’accezione negativa del termine straniero.

    Nell’antica Grecia lo straniero è il xénos (ξένος), l’ospite di fuori che deve essere accolto rivestito di dignità e rispetto, poiché era convinzione che gli dei, sotto mentite spoglie, visitassero gli esseri umani per testare la loro bontà e ospitalità. L’accoglienza allo straniero, dunque, almeno nella sua prima fase, è accordata senza nessuna condizione, poiché egli era protetto da Zeus³. Qualora fosse stato necessario, ci si difendeva dallo straniero solo dopo averlo accolto e averlo stimato come persona ostile. Con l’evolversi della lingua, xénos arriva a significare straniero e, unito a fobia, questa parola inizialmente dall’ac­cezione positiva, cambia del tutto di senso producendo oggi il termine xenofobia, paura dello straniero.

    Lo stesso vale per gli antichi Romani. Nella Roma arcaica il termine per indicare lo straniero è inizialmente hostis, che pure identificava l’ospite da riverire. Questo è riportato anche in un’interessante testimonianza di Sesto Pompeo Festo (II secolo d.C.), da cui si ricava che il termine hostis indicava colui a cui erano accreditati gli stessi diritti del popolo Romano (quod erant pari iure cum populo Romano)⁴, prerogative garantite dallo Stato Romano.

    Successivamente il termine hostis assume una connotazione oppositiva e si carica di significati, appunto, ostili: quindi lo straniero diventa un nemico⁵, mentre per indicare colui che viene da fuori pacificamente si comincia a usare il termine hospes, da cui viene ospite.

    Sia per i Romani sia per i Greci, tuttavia, l’ospitalità concessa allo straniero pacifico non

    dà origine ad alcun processo assimilativo: lo hostis, lo xénos, è sacro proprio nella sua identità ed individualità altra rispetto a quella dell’ospite. E l’ospite, a sua volta, è sempre anche hostis, è sempre anche nella condizione di divenire a sua volta straniero, viandante bisognoso d’ospitalità. Nello hospes vive anche lo hostis, e nello hostis lo hospes.

    Nel momento in cui il forestiero diventa nemico, lo spazio del confine tra il Noi e l’Altro straniero, da geografico e linguistico diventa politico, culturale e religioso: l’estraneità geografica e linguistica si associa inevitabilmente a quella mentale e lo straniero diventa qualcuno da cui tutelarsi⁷. Tuttavia, anche quando lo straniero, ossia colui che viene da fuori, diventa nemico, gli antichi non ne fanno una questione razzista, ma un problema politico unicamente legato alla sua manifesta ostilità, sebbene rimane sempre aperta la possibilità che egli possa convertirsi in ospite dimostrando la sua amicizia. Per questo lo straniero ostile è un nemico convenzionale, da integrare all’interno dell’Impero una volta conquistato.

    Le cose cambiano dal III secolo, quando le scorrerie per fini di saccheggio e bottino condotte da guerrieri appartenenti alle popolazioni che gravitavano lungo le frontiere settentrionali, minacciano più seriamente Roma: il nemico diventa il barbaro, egli ha lo status hostilis e per questo è soggetto a processi di disumanizzazione⁸.

    Lo straniero è sicuramente chi dimora oltre i confini, ma può essere anche chi abita all’interno del mio spazio, del mio ordine politico–sociale, ma in posizione strana, estranea appunto, perché non conforme alle idee politiche o alle norme sociali vigenti. Il discrimine, abbandonato il confine geografico, resta di natura politico–sociale. Nel corso della storia, ad esempio, l’omosessuale è considerato uno straniero nel senso etimologico del termine, perché estraneo alla cultura dominante, per questo egli è relegato fuori dalla società, quindi esiliato, imprigionato, ucciso. Lo stesso vale per le altre categorie politiche, etniche e sociali, quali gli oppositori politici interni, oppure quelli che professano una religione diversa da quella nazionale e così via.

    Così, se l’hostis è il forestiero nemico, lo straniero interno è l’inimicus, il concittadino rivale, che diventa adversari quando si scontra sul terreno del confronto politico⁹. Egli è ancor più pericoloso dello straniero ostile, perché è uguale a noi, celandosi tra noi: se i nemici esterni sono identificati come loro, come gli altri, quelli interni sono una parte del noi che non vuole essere come noi.

    1.2. Dal nemico assoluto a quello convenzionale

    La Chiesa di Roma trasforma la teoria del nemico. Infatti, l’ingresso sulla scena politica del cristianesimo, religione con vocazione universale (cattolica, appunto)¹⁰, muta radicalmente l’immagine del nemico: il nemico diventa assoluto perché dall’esterno, con una religione diversa, minaccia la Respublica christiana; dall’interno, invece, attraverso l’eresia mina irrimediabilmente le Verità possedute e controllate dal Pontefice e dalla sua Chiesa, mettendo in pericolo l’unità dei cristiani¹¹.

    Nel Medioevo, così, al nemico tradizionale si aggiunge quello di religione, un nemico demoniaco e con tratti zoomorfi. Individuarlo e combatterlo diviene un merito e un santo dovere.

    Ecco la Chiesa invitare i poteri secolari cristiani a difendere l’ortodossia della religione cristiana e dei suoi luoghi più sacri (la Terra Santa). Ecco che compare una forma di vita consacrata con una missione di tipo militare, benedetta per secoli dalla Chiesa di Roma. I Pauperes commilitones Christi templique Salo­monis (meglio conosciuti come cavalieri Templari), l’Or­dine Militare e Ospedaliero di San Lazzaro di Gerusalemme (Laz­zariti), l’Ordine Canonicale del Santo Sepolcro, i Cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di San Giovanni di Gerusalemme (Ospitalieri), l’Ordine dei Fratelli della Casa Ospitaliera di Santa Maria dei Teutonici in Gerusalemme (Teutonici), l’Or­di­ne Ospitaliero d’Altopascio (cavalieri del Tau), l’Ordine mili­tare di San Benedetto d’Avis, l’Ordine Militare di Alcántara, l’Ordine di San Giacomo della Spada, i Frati della militiae Christi (cavalieri Portaspada), l’Ordine di San Giovanni e San Tommaso, il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, i Crocigeri della Stella Rossa (Betlemitani), il Sacro Ordine Societas Jesu Christi, i Frati della cavalleria di Evora, il Sacro Militare Ordine di Santo Stefano e molti altri, sono ordini religioso–militari e confraternite militari che combattono in nome della fede un nemico totale¹².

    Il culto di santi militari, tra cui san Michele Arcangelo, san Giorgio, san Sebastiano, santa Barbara, san Maurizio, san Martino e così via, rafforza il fanatismo devozionale di queste confraternite armate.

    Poiché il nemico religioso è assoluto si conia finanche un concetto per raggirare il quinto dei comandamenti dati da Dio a Mosè, che prescrive non uccidere: malicidio. Il concetto è elaborato dell’abate e teologo francese Bernardo di Chiaravalle (1090–1153)¹³ nel De laude novae militiate ad Milites Templi, giustificando così l’uccisione di una persona con l’estirpazione di un male assoluto, come l’eliminazione fisica dell’incarnazione del male, pur restando il pagano ostile ucciso degno d’amore in quanto uomo. Dunque per Bernardo, «Il Cavaliere di Cristo uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo»¹⁴, dunque, «Chi uccide un malfattore, non è omicida, ma malicida e rappresentante di Cristo contro coloro che compiono il male, e sarà considerato difensore dei cristiani»¹⁵. In questo modo la morte data e ricevuta nel nome di Cristo non comporta peccato, ma procurava vera gloria¹⁶.

    Allo stesso tempo la Chiesa accende i roghi della Santa Inquisizione, per bruciare i nemici interni alla cristianità (eretici, streghe, scienziati non conformi alle dottrine cristiane e così via)¹⁷.

    In un momento di crisi della Chiesa di Roma, individuare un nemico dove riversare le colpe delle disgrazie del mondo diventa improrogabile. Attraverso la scure della Santa Inquisizione la Chiesa ha provveduto a far tacere i nemici, a terrorizzare i dissidenti, a ghettizzare ancor più gli ebrei, a frenare scienziati e liberi pensatori, tutti accusati di improbabili reati. Così di fronte a questa supposta congiura diabolica tutto è permesso all’inquisitore, pur di bloccare i nemici dell’ortodossia: dalla scomunica alle epurazioni, dalle conversioni forzate alla prigionia, dai supplizi alla morte sul rogo.

    Spenti i roghi, streghe e diavoli umani paradossalmente spariscono¹⁸.

    La scoperta di nuovi mondi popolati da popolazioni sinora conosciute, con struttura fisica differente dal fenotipo noto in Europa, determina una nuova alterità: questi popoli sono giudicati non umani, privi di ragione, sentimento e moralità, e per questo o sono sterminati o sottomessi.

    Partendo dal presupposto che quei popoli sono considerati selvaggi e privi di ragione, e quindi stranieri all’umanità, è rispolverata la teoria aristotelica della schiavitù naturale applicandola a quelle genti¹⁹.

    Con la Riforma protestante (XVI secolo) la Respublica christiana è demolita da un nemico diabolico e con tratti zoomorfi: se per il Papa l’eretico Martin Lutero è una bestia immonda²⁰, per molti riformatori protestanti il pontefice incarna la figura apocalittica dell’Anticristo²¹ e la Chiesa, per la dottrina che insegna, è la prostituta di Babilonia profetizzata nell’Apoca­lisse²².

    Per i protestanti il Papato è così corrotto, da essere irriformabile e per questo va combattuto; per il Pontefice i riformatori sono diabolici sovvertitori e quindi nemici assoluti della Chiesa di Cristo: la diatriba si carica di motivi politici e, tra il XVI e il XVII secolo, inevitabilmente scoppiano guerre di religione imbevute di odio teologico, in cui il nemico è assoluto e va soppresso fisicamente²³.

    Con l’affermazione dello Stato nazionale l’immagine del nemico è più determinata. Ora si impone una precisa distinzione tra quelli che si trovano all’interno o all’esterno della comunità degli Stati e tra quelli che si trovano dentro lo Stato. Poiché l’inimicizia è ora fra Stati, il nemico diventa convenzionale e di circostanza e, quindi, non è discriminato come criminale.

    Nel rapporto amico/nemico, dunque, manca ogni assunto di odio assoluto, poiché non esistono nemici ereditari, ma solo antagonisti con cui è sempre possibile riappacificarsi: mentre all’esterno del consesso degli Stati c’è ancora il barbaro incivile, che può sempre essere assoggettato, all’interno di ogni ordine politico, invece, l’antagonista perde la qualifica di nemico e acquisisce quella di criminale²⁴.

    1.3. Dal nemico ideologico a quello illegittimo

    La Rivoluzione francese torna a trasformare il nemico, che ridiventa assoluto, ma con l’aggiunta di due nuove qualifiche: illegittimo e ideologico, perché ostile ai nuovi valori nazionali. Il nemico è dunque screditato, senza alcuna distinzione fra nemico interno e nemico esterno. Egli minaccia sia dall’interno sia dall’esterno il vincolo sociale che la rivoluzione ha creato.

    Nella sua relazione alla Convenzione Nazionale, Sui principi di morale e politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell’amministrazione interna della Repubblica, del 17 piovoso anno II (5 febbraio 1794), il rivoluzionario Maximilien de Robespierre dichiara chiaramente che i nemici, in quanto assoluti e illegittimi, vanno trattati con terrore:

    Bisogna soffocare i nemici interni ed esterni della Repubblica, oppure perire con essa. Ora, in questa situazione, la massima principale della vostra politica dev’essere quella di guidare il popolo con la ragione, e i nemici del popolo con il Terrore.²⁵

    Quando la rivoluzione si trasforma in governo, instaura il cosiddetto Regime del terrore che, dal settembre 1793 al luglio 1794, scatena una violenta repressione contro gli oppositori politici, considerati traditori²⁶. Il 17 novembre 1793 il rivoluzionario Louis Antoine de Saint–Just così giustifica questa campagna di terrore contro i nemici: «Fra il popolo e i suoi nemici non vi può essere nulla in comune se non la spada; dobbiamo governare con il ferro coloro che non si possono governare con la giustizia»²⁷. L’unico mezzo di comunicazione tra l’amico e il nemico interno della rivoluzione diventa dunque la ghigliottina, elevata a strumento pedagogico per le masse²⁸. Il nemico esterno, invece, è combattuto con un classico conflitto tra Stati.

    Lo spirito della rivoluzione in Francia, con la sua radicale ispirazione a liberarsi definitivamente dai suoi nemici, è tutto racchiuso nella Marsigliese²⁹, l’attuale inno nazionale francese, una chiamata alle armi contro il nemico così che il suo sangue possa riempire le strade e le campagne:

    Avanti, figli della Patria, il giorno della gloria è arrivato! Contro di noi della tirannia, la bandiera insanguinante è innalzata. […] Alle armi, cittadini. Formate i vostri battaglioni. Marciamo, marciamo! (Marciate, marciate!), che un sangue impuro abbeveri i nostri solchi!³⁰

    Con l’occupazione della Spagna da parte dell’esercito francese nel 1808, il concetto di nemico si carica di nuovi significati: egli diventa spregevole, privo di onore militare e criminale, per questo illegittimo. Infatti, l’arroganza imperialista di Napoleone incontra in Spagna un nemico inusuale, non un avversario militarmente ordinato e identificabile, ma un intero popolo in armi, che utilizza una strategia militare alternativa, alla quale i reparti regolari francesi non sono preparati: la guerrilla, piccola guerra³¹.

    La guerriglia partigiana spagnola colma di odio verso gli occupanti alimenta la ferocia dei francesi: tutto diventa lecito, da una parte e dall’altra, e la lotta si trasforma in guerra senza quartiere, feroce e spietata. Il guerrigliero–partigiano spagnolo assume la qualifica di combattente illegittimo, quindi nemico assoluto e indegno di essere assoggettato al trattamento riservato tradizionalmente ai prigionieri di guerra, per questo se catturato è giustiziato. L’invasore francese è anch’egli assoluto, perché criminale e subdolo³², e va combattuto senza pietà.

    La Rivoluzione francese inaugura dunque l’idea del nemico assoluto, che contribuisce a consolidare l’identità Noi/Loro. Questa visione del nemico non solo è lasciata in eredità al regime napoleonico, ma prepara la logica posta in essere dalle realtà politiche del Novecento sull’assolutizzazione della figura del nemico.

    1.4. Dal nemico di classe a quello totale

    Con la nascita del marxismo il nemico diventa un avversario ideologico: all’idea di Nazione si affianca quella di classe. Così, al nemico politico si aggiunge un nuovo avversario: il nemico di classe. Si legge nel Manifesto del Partito comunista:

    La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi […] oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente, ora aperta […]. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi che si fronteggiano direttamente: borghesia e proletariato.³³

    I due avversari si inseriscono, dunque, in un quadro di una conflittualità, interna ed esterna, economica, sociale e politica. Questa conflittualità è condotta contro popoli, ideologie, forme di vita e di produzione³⁴.

    Con l’avvento dei conflitti mondiali il nemico diventa totale, proprio come lo sono le due guerre che sconvolgeranno il mondo. Questi conflitti mondiali, poiché impregnati d’odio verso il nemico,

    segneranno un definitivo passaggio dalla crudeltà come fatto istintuale, alla crudeltà come frutto di una pianificazione, trascinando le parti in lotta in un processo cumulativo di reciproca distruzione³⁵.

    La Prima Guerra Mondiale inaugura la caratterizzazione del nemico, sia esterno sia interno, che torna a essere criminalizzato, enfatizzando la sua irriducibile diversità:

    In entrambi i casi, all’interno e all’esterno, si tratta di un nemico illegittimo sempre sull’orlo della disumanizzazione: la sua immagine è quella di un sotto–uomo perverso e minaccioso perché rappresenta la nostra possibile degradazione; è per rendere evidente la sua pericolosità, per impedire che si mimetizzi con la sostanza genuina della politica, che si procede alla iper–rappresentazione del nemico, ossia lo si dipinge con tratti caricaturali, o grotteschi, o comunque con segnali vistosi, che ne denuncino e ne fissino la non piena umanità, che ne mostrino chiaramente la natura ibrida, cangiante, metamorfosata, in bilico fra umanità e bestialità. Quanto più il nemico è diabolico, e cerca di confondere e di confondersi, quanto più pretende di essere parte della civiltà e della verità, tanto più va smascherato e stigmatizzato.³⁶

    La guerra di trincea amplificò questa visione del nemico, ora nascosto il più delle volte nella trincea o dietro le nuove mici­diali mitragliatrici: egli diventa un rivale dai contorni oscuri e inquietanti, da annientare a tutti i costi³⁷.

    La criminalizzazione e la demonizzazione del nemico assume un ruolo importante, sia per motivare i soldati al fronte e accrescere l’odio nei loro confronti sia per mantenere coeso il fronte interno e mobilitare l’intera popolazione al grande sforzo bellico.

    La cultura di guerra imperniata sull’odio per il nemico fa decadere anche la tradizionale distinzione tra militari e civili e questi ultimi, pur non partecipando materialmente allo scontro armato, diventano a pieno titolo un obiettivo delle operazioni belliche.

    Un nemico totale non si deve solo sconfiggere, ma anche umiliare. Così, conclusa la guerra, negli accordi di Versailles del 1919 le Potenze vincitrici si dimostrano impietose verso il nemico tedesco. Oltre il ripristino dei confini territoriali, lo smantellamento dell’impero coloniale e le restrizioni al riarmo, alla Germania è richiesto anche un’enorme cifra per le riparazioni dei danni provocati alle Nazioni aggredite, creando le condizioni di una crisi economica³⁸. Inoltre alla Germania è attribuita per intero la responsabilità del conflitto, chiedendo la consegna del kaiser Guglielmo II di Hohenzollern per processarlo con l’accusa di «offesa suprema alla morale internazionale»³⁹. Tutto questo suscitò, oltre il disonore militare, anche un’umiliazione psicologica in tutto il popolo tedesco.

    Il trattato di Versailles, per il suo carattere umiliante e punitivo servirà da terreno di coltura al nascente nazionalsocialismo tedesco, che a sua volta porterà alla tragedia della Seconda Guerra Mondiale.

    Anche il patto Briand–Kellogg del 1928, trattato di rinuncia alla guerra sottoscritto da molti Stati, ha amplificato la crimina­lizzazione di un nemico che scatena una guerra⁴⁰. Tuttavia, come ha scritto il filosofo tedesco Carl Schmitt, non si abolisce la guerra condannandola, anzi così facendo si criminalizza chi la pratica «ed è per questo che oggi la guerra si può fare solo nelle forme peggiori. Chi mi sta di fronte deve essere un criminale e come tale va eliminato»⁴¹.

    Con l’instaurazione dei regimi totalitari la contrapposizione amico/nemico raggiunge il suo apice. Ora il nemico racchiude tutte le caratteriste assunte nel corso dei secoli: è barbaro, è assoluto, è totale. Per questo è ingiusto, illegittimo, demoniaco, ideologico, criminale.

    Solo l’odio è il sentimento che può legare l’amico al nemico. In questo il dittatore italiano Benito Mussolini è chiaro:

    Signori, non si fa la guerra senza odiare il nemico, non si fa la guerra senza odiare il nemico dalla mattina alla sera, in tutte le ore del giorno e della notte, senza propagare quest’odio e senza farne l’ultima essenza di se stessi. Bisogna spogliarsi una volta per tutte dai falsi sentimentalismi. Noi abbiamo di fronte dei bruti dei barbari.⁴²

    Il nemico esterno è un avversario ideologico e imperialista, perché insidia la Nazione, mettendo in pericolo la Patria. Egli va combattuto con una «guerra integrale — cioè una guerra che coinvolge Stato, società, esercito e partito, economia, politica, ideologia; insomma tutte le forme dell’umana esistenza»⁴³.

    Il nemico interno è invece un antagonista del popolo, perché minaccia l’idea di Nazione. Egli può essere un antagonista attivo, un oppositore potenziale o un nemico oggettivo. Quest’ul­timo è un nemico per definizione ideologica, quindi non per la sua condotta individuale, ma per le sue caratteristiche oggettive, quali l’orientamento politico o l’appartenenza a una classe/razza che l’ideologia del regime addita come ostile⁴⁴. Egli è ancor più pericoloso del nemico esterno, perché vive e si cela nella Nazione:

    Nei totalitarismi compare una concezione della politica che dall’antagonismo arriva fino alle dinamiche della distruzione fisica del nemico interno, che nelle logiche totalitarie costituisce la pericolosa minaccia sia alla fondazione dell’identità politica del regime sia alla colonizzazione delle coscienze. Per questo, il nemico interno è presentato nella sua ubiquità, nel suo essere al tempo stesso antagonista interno e avversario esterno: interno perché vive e opera dentro la comunità, esterno perché considerato estraneo alla stessa società.⁴⁵

    Per questo il nemico interno va scovato: se irrecuperabile va soppresso, se correggibile va invece raddrizzato attraverso la rieducazione politica. In una logica di rifondazione del tessuto politico–sociale, ecco allora comparire i campi di concentramento per rieducare gli elementi infetti del sistema.

    1.5. Dal nemico etnico a quello globale

    Con la Seconda Guerra Mondiale ogni residua distinzione tra nemici civili e nemici militari è annullata, con la conseguenza che la tradizionale separazione tra fronte esterno e interno decade e anche i centri abitati divengono bersaglio delle operazioni militari (basti ricordare, tra gli altri, i bombardamenti nazisti su Coventry, in Inghilterra, o quelli Alleati su Dresda, in Germania, o ancora lo sganciamento di ordigni nucleari sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki).

    Il secondo conflitto mondiale aggiunge un’altra categoria di nemico, quello biologico. In questa tipologia di nemico la figura dell’avversario non nasce da alcuna considerazione di tipo militare o politico, ma unicamente dall’appartenenza a una razza considerata inferiore. Con il nemico biologico non sono possibili compromessi, l’unica soluzione è quella finale: cancellarli fisicamente dall’Umanità. Il culmine di questa razzizzazione del nemico si raggiunge con la pratica nazista volta alla distruzione fisica di interi gruppi etnici.

    Conclusa la Seconda Guerra Mondiale, i vincitori decidono di criminalizzare definitivamente il nemico, portandolo dinanzi a tribunali creati ad hoc: il Tribunale

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