Neve sporca a Kabul
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Book preview
Neve sporca a Kabul - Gianluca Ellena
Indice
Capitolo primo - Il ritorno
Capitolo secondo - Gente nuova
Capitolo terzo - Progetti
Capitolo quarto - Una città internazionale
Capitolo quinto - Una terra lontana
Capitolo sesto - Mani gelate
Capitolo settimo - Notte senza luna
Capitolo ottavo - Accorata preghiera
Capitolo nono - Nascosta verità
Capitolo decimo - Persone invisibili
Capitolo undicesimo - Il cavallo nella tormenta
Capitolo dodicesimo - Gli incastri spirituali
Capitolo tredicesimo - Gusci di noce
Capitolo quattordicesimo - La ragnatela
Capitolo quindicesimo - La luce
GianLuca Ellena
Neve sporca a Kabul
Youcanprint Self-Publishing
Titolo | Neve sporca a Kabul
Autore | GianLuca Ellena
ISBN | 9788831603683
Prima edizione digitale: 2019
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Youcanprint Self-Publishing
Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce
www.youcanprint.it
info@youcanprint.it
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Capitolo primo
Il ritorno
L’aria condizionata dell’autobus soffiava vento gelido dalle bocchette in alto fra l’odore del velluto caldo e l’acredine del sudore dell’umanità stipata. Inghiottito dal traffico del sabato mattina, l’autobus imboccava la via dell’aeroporto, arteria pulsante di umanità satura di suoni disarmonici ma familiari.
Yasir tornava al lavoro nella mastodontica e disordinata Kabul, fangosa per via dell’inverno fino a quel momento mite, tanto lontana dalla natia e familiare Herat.
I mesi di convalescenza non avevano lenito le ferite dell’anima, la morte del giovane Faisal, il fischio nelle orecchie, diuturno, instancabile come un monito.
Allah ti ha protetto! Gli avevano ripetuto i parenti che si erano stretti attorno alla famiglia di Yasir appena fu in grado di lasciare l’ospedale militare di Kabul e raggiungere la sua famiglia ad Herat.
In quei mesi si erano succeduti diversi eventi, il disgraziato trasferimento dello zio Zemar a Kunduz e l’ingresso del giovane Faraj nella facoltà di Medicina di Herat che aveva ringiovanito suo padre, orgoglioso fino al midollo. Yasir stava rientrando al secondo distretto, Dipartimento di polizia criminale, ansioso di rivedere Mahmud, fido collaboratore di poche parole e zio del compianto Faisal.
Senso di colpa. Yasir non riusciva a sfuggire al dubbio di aver esposto il giovane agente di polizia all’esplosione che aveva provocato la morte di sei persone e il ferimento di quarantotto. «Dio ti ha protetto, non smetteremo mai di ringraziarlo!» Gli avevano detto i suoi genitori, «Gli effetti del trauma acustico scompariranno progressivamente, figliolo», lo aveva tranquillizzato suo padre. Il più saggio fu forse lo zio Abed, «Sul ring non ti sarebbe mai successo, nipote!»
Già! La boxe, pensava Yasir, quello sport tanto osteggiato dai genitori e da suo padre, il dottore Papà, primario di ortopedia dell’ospedale Merhaban di Herat.
Poi c’era la notte popolata da incubi ricorrenti, Mahmud vestito di bianco che andava alla Mecca su di una sedia a rotelle spinto dal nipote Faisal, entrambi vestiti di bianco. La coscienza che lo inseguiva, sognava Mina, la sua futura sposa che lo guardava severa senza proferire parola, la sognava con un libro sotto braccio, nel sogno non riusciva a parlarle. Sovente, i suoi incubi terminavano con una forte luce e il risveglio tachicardico, inseguito, agitato.
Il silenzioso ascolto di Mina lo aveva accompagnato nei caldi pomeriggi primaverili della convalescenza. Oltrepassando le rigide convenzioni sociali, nei due mesi di riposo avevano condiviso tè e i biscotti allo zenzero serviti dalla futura suocera parlando serenamente del loro futuro senza però esagerare con i progetti. Mina insegnava al liceo femminile a pochi metri dal parco di Takht-e-Safar, «Yasir, il futuro dei nostri figli passa attraverso la possibilità che avranno di studiare e seguire la propria strada!»
«Un po’ troppo per una donna afgana di provincia!» La prendeva in giro lui sorseggiando il tè allo zafferano.
Lei rideva in silenzio e lo scrutava ricercandone sfumature invisibili a prima vista. Lui la guardava in maniera impudente, aveva sentenziato un giorno una zia pettegola della futura sposa.
Una fredda sera di novembre, a casa di una coppia di insegnanti amici di Mina, Yasir sembrò essere più taciturno del solito.
«Il tuo orecchio ti dà tormento, Yasir?»
«Mina, in questo periodo di riposo forzato mi chiedevo se costruire la nostra vita qui abbia senso.»
«Cosa intendi?»
«Era solo un pensiero ad alta voce, scusami.»
Amalgamatosi nel traffico, fermo dietro il lungo corteo di veicoli di ogni genere, all’interno dell’autobus si cominciò ad avvertire odore di gas di scarico provenire dal condizionatore. Si era lasciato alle spalle l’ospedale Wazir Akbar Khan, superato la grande piazza Massoud e dopo il rettilineo, la rotonda della piazza Abdul Haq. Yasir ritrovava, come un vecchio amico, il gigante, Kabul, città inquinata e internazionale, piena di autocarri, moto, auto e taxi, a perdita d’occhio, era la Capitale e dunque era giusto così. Rivolse lo sguardo al Suunto color argento regalatogli da un consulente della missione EUPOL¹ suo amico, un canadese, erano le dieci in punto. Aveva preso l’aereo delle sette di mattina, poco più di un’ora di volo senza contare il ritardo dato dal sovraffollamento dell’aeroporto di Kabul, un immenso caotico cantiere. Con il suo tesserino da ufficiale della polizia criminale aveva saltato le file disordinate come i corsi dei fiumi durante le stagioni delle piogge, cosa che negli Stati Uniti non avrebbe fatto o forse sì. Sorrideva preparandosi a ricominciare quello che aveva lasciato mesi prima, il giorno della ricorrenza del Nawruz, quando, intervenuto al mercato di Ka Faroshi con il giovane Faisal erano stati oggetto di un attentato che aveva straziato vite innocenti ed ignare delle miserie di questo mondo. Nei sogni inquieti delle ultime settimane, aveva visto la luce dell’esplosione come quella di un flash di una macchina fotografica. La faccia di colui che si era immolato, un fotogramma di un istante, un pakistano, senza nome e identità scomparso nell’esplosione senza lasciare tracce. Da quel giorno nella sua testa non era riuscito a liberarsi da un fischio che cresceva con il silenzio della sera o nel passaggio fra