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Quaderni Amerini n°9
Quaderni Amerini n°9
Quaderni Amerini n°9
Ebook220 pages3 hours

Quaderni Amerini n°9

By Aavv

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About this ebook

Venerdì 14 settembre 2018 si è riunita la Giuria della nona edizione del Premio Amerino, concorso letterario nazionale in lingua italiana dedicato al racconto breve, a tema libero, organizzato dall’Associazione Culturale Poggio del Lago (Vasanello VT). Il bando è stato ufficialmente diramato il 1° gennaio, le iscrizioni si sono chiuse il 19 agosto. In data odierna, domenica 28 ottobre, giorno della premiazione, viene presentata questa Antologia.
“Quaderni Amerini n° 9” raccoglie quelli che la Giuria ha ritenuto i migliori dieci racconti tra quelli pervenuti. Nell’Antologia è indicata la graduatoria dei primi tre classificati, con la motivazione della Giuria, ed è attribuito agli altri sette finalisti il quarto posto ex aequo.
LanguageItaliano
Release dateFeb 15, 2019
ISBN9788830600621
Quaderni Amerini n°9

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    Quaderni Amerini n°9 - Aavv

    voto

    PREFAZIONE

    Gabriele Campioni, presidente della Giuria

    Se pareba boves

    Se pareba boves: così è l’incipit del famoso Indovinello veronese, una delle prime attestazioni della lingua italiana, che paragona l’aratura e la semina allo scrivere proponendo il geniale connubio tra attività, apparentemente inconciliabili, eppure destinate ad alimentare due primarie necessità dell’essere umano: una materiale ed una immateriale, la sopravvivenza dell’organismo e quella intellettuale.

    Nella mente di chi ideò l’enigma questo accostamento avvicina azioni che, ieri come oggi, rappresentano per l’uomo l’una la vita propriamente detta, l’altra, forse persino più bramata, la sopravvivenza dopo la sua morte. Se il cibo serve all’esistenza fisica lo scrivere garantisce quella spirituale, il perpetuarsi del nostro pensiero, di gran lunga superiore come durata; infatti eccoci a parlare di un indovinello scritto più di mille anni fa, pur se non sappiamo da chi. Il nome dell’autore non ci è infatti giunto, non sappiamo chi fosse costui. Eppure l’arguzia del suo pensiero è ancora qui, racchiusa in poche righe, è lui stesso che continua a palesarcelo.

    Ecco la magia dello scrivere: rivolgersi ad un pubblico potenzialmente immenso, oltre le nostre aspettative ed oltre i secoli. Chi in epoca medievale scrisse l’indovinello non immaginava certo che qualcuno, così tanto tempo dopo, potesse ancora parlarne o scriverne. Nella solitudine della sua stanza, chiunque si cimenti nella scrittura potrebbe allora rivolgersi ad un pubblico di dimensioni enormi, al di là della propria contemporaneità e delle tecnologie disponibili. Il fatto poi che lo scrittore non abbia necessariamente bisogno di un’interfaccia tecnologico per comunicare con i posteri lo rende di gran lunga più immortale dei divi televisivi, legati a mezzi tecnici estremamente più volatili se ci riflettiamo un attimo. Basterebbe un brillamento solare di proporzioni nemmeno troppo catastrofiche a mandare in tilt il campo magnetico della terra, e con esso cancellare in un attimo tutte le registrazioni su nastro o cd dall’inizio dell’era analogico-digitale. Ma uno splendido paradosso lascerebbe del tutto integro il nostro pensiero impresso su carta: un pensiero non necessariamente alto, attenzione, ma comunque testimonianza del nostro transito in questa vita.

    Dall’inizio della Storia (è proprio la scrittura che ne determina l’atto di nascita) pure se con metodologie diverse le due attività messe in relazione dal nostro sconosciuto amanuense sono sempre lì. Con la differenza che oggi l’aratura si pratica con moderni mezzi meccanici e chi scrive lo fa con l’ausilio della tastiera di un computer. È cambiata la forma ma non la sostanza: entrambe le cose continuano ad essere imprescindibili per l’uomo, durante e dopo la vita.

    Chissà allora che non sia proprio la necessità di continuare ad esserci, di parlare agli altri oltre gli angusti confini dell’esistenza a farci scrivere e a far sì che esistano concorsi letterari come il nostro Premio Amerino? Al di là del vincere, cosa che non guasta mai, intendiamoci, forse inconsciamente la motivazione principale è il gesto dello scrivere, è l’interazione con chi ci è contemporaneo e con chi verrà dopo. Che si continui allora ad arare i bianchi campi dei fogli, a seminare il seme nero della scrittura: il frutto che si raccoglierà sfamerà nei secoli generazioni e generazioni di lettori.

    A proposito di futuro mi sembra perciò doveroso focalizzare l’attenzione sul terzo racconto classificato di quest’anno, opera di una ragazza classe 1997. Ebbene, senza nulla togliere agli altri finalisti di questa nona edizione dell’Amerino, non posso esimermi dal riallacciarmi alla prefazione dello scorso anno, nella quale evidenziavo con rammarico che l’età media dei partecipanti del nostro concorso non potesse definirsi propriamente giovane. Spero allora che il lusinghiero piazzamento della 21enne Giulia Neri da Montecarlo, in provincia di Lucca, non si riveli la solita eccezione che conferma la regola quanto piuttosto una quantomai auspicabile inversione di tendenza. Altrimenti avoglia noi ad arare i bianchi campi dei fogli…

    Primi tre classificati

    1° classificato

    LA LETTERA DI SPINOZA

    Giuseppe Sorrentino, Napoli

    2° classificato

    SCALA B

    Paolo Pergolari, Castiglione del Lago (PG)

    3° classificato

    MUTEVOLI EQUILIBRI

    Giulia Neri, Montecarlo (LU)

    La lettera di Spinoza

    1° classificato

    Giuseppe Sorrentino - Napoli

    Napoli 23 ottobre 1965 – Vive e lavora a Napoli, sposato, un figlio, coltiva la passione per la scrittura cimentandosi nel racconto ma anche nel romanzo. Ambiti nei quali ha ricevuto importanti riconoscimenti, tra questi il podio più alto nel 2015 nel Premio Letterario Internazionale Il Club dei poeti con il racconto Paresia (titolo di una raccolta di racconti pubblicati nello stesso anno dalla Casa Editrice Montedit); primo classificato 2017 nel Premio Letterario Jacques Prevert con il romanzo L’unica possibilità di amare (Montedit – 2017); primo classificato 2017 nel Premio Letterario Napoli Time con la raccolta di racconti Paresia; primo classificato 2017 nel Premio Letterario di Filosofia di Certaldo (FI) con il racconto Chi non si piega, si spezza; primo classificato nel Concorso Letterario Città di Empoli (FI) con il racconto Cala il sipario.

    Motivazione della Giuria

    Per la drammatica suggestione con cui è resa la fatica di crescere del Libero Pensiero, da tutti più o meno agognato ma da pochi davvero perseguito. Se va bene ricevendo in cambio isolamento e pubblico ludibrio, a volte pagandone lo scotto fino alle estreme conseguenze. Siamo nel ristretto limbo dei martiri di questa eterna battaglia, dove il protagonista del racconto, Baruch Spinoza, ebreo olandese della metà del Seicento, ben si attaglia all’epica dei Giordano Bruno, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Campanella: giganti tra loro non lontani nel tempo che al pari di Spinoza gettarono le basi al Secolo dei Lumi.

    Dopo molti giorni di viaggio giunsi alla bottega dove Baruch Spinoza costruiva e modellava occhiali. Un piccolo locale con al centro un tavolo di legno scuro, una sedia di paglia incavata dall’uso, alle pareti lunghi scaffali in cui erano stati ordinati pezzi di vetro di varie dimensioni. Per un attimo fui tentato di tornamene a Leida, mi sentii a disagio davanti a quell’uomo giudicato un pericoloso eretico da ogni autorità.

    Come se avesse colto il mio imbarazzo, fu lui a chiamarmi: - Non vada via. Posso esserti utile in qualcosa? -

    Spinoza parlava con voce affaticata, colpa anche della polvere dei vetri che si respirava nella piccola bottega. Il viso scavato, i capelli lunghi, bianchi lo facevano sembrare più vecchio dei suoi quarant’anni.

    - Vengo dalla città di Leida non per comprare occhiali, ma per farti alcune domande. Studio teologia. Ho avuto la possibilità di leggere alcuni tuoi scritti e ne sono rimasto colpito. Molte cose, però, non mi sono chiare. Ho pensato che per fugare ogni dubbio sarebbe stato meglio venire qui, apprendere direttamente dall’autore il significato di pagine per me troppo oscure. -

    - Sono onorato di avere come ospite un giovane studente venuto a trovarmi da una città molto lontana, affrontando un viaggio faticoso, per conoscere meglio i miei scritti proibiti e vietati da tutte le autorità. Devi avere tanta sete di conoscenza per venire qui da me. -

    Stando in piedi, Spinoza faceva ancora più fatica a parlare. Quando ritornò a sedersi, mi accorsi delle sue spalle curve, che ad ogni passo si piegavano ancora di più. Si muoveva con prudenza. A guardarlo sembrava un mistero della natura. Un corpo così indebolito capace di generare un pensiero potente che preoccupava tutte le autorità civili e religiose!

    La sera, a casa sua, dopo una cena frugale, non fui io a fare domande, ma lui, curioso di sondare, come se fossi un territorio da esplorare, la mia preparazione, le mie conoscenze. Mi chiese cosa avessi letto di Platone, di Aristotele, di Cartesio. Ebbi l’impressione che dietro quelle domande si nascondesse la curiosità di verificare non la mia preparazione, i miei studi, ma la mia persona, quali passioni vivessero dentro di me, chi fossi realmente. Le sue domande mi sembrarono non un esame di filosofia, ma una strada per conoscermi. Alla fine, si congratulò con me. Se volevo, aggiunse, potevo ritornare da lui ogni mese per continuare la discussione.

    Mi dispiaceva andare via, separarmi da un uomo di intelligenza sconfinata. Soprattutto volevo restare per sapere di lui. Avevo attraversato molti paesi per avere notizie più precise della sua espulsione dal quartiere di Amsterdam dove era nato.

    Mentre stavamo per salutarci mi feci coraggio e chiesi: - Prima di andare via, potresti parlarmi della tua fuga da Amsterdam, la città dove sei nato? Se ho fatto bene i conti è accaduto circa vent’anni fa, ma tutto sembra inghiottito in un mistero impenetrabile, pagine oscure di un libro che nessuno vuole aprire. Ho anche chiesto a persone vissute a quel tempo nel tuo quartiere, ma nessuno ha voluto parlare del tuo allontanamento. -

    Spinoza abbassò lo sguardo. Fissando la punta delle sue scarpe, evitò di rispondermi adducendo la scusa di essere molto stanco, di voler andare a dormire. Il ricordo di Amsterdam, della scomunica, della fuga dal quartiere dove era nato, gli apriva forse ferite che nemmeno il lungo tempo trascorso aveva sanato.

    Prima di lasciarci, volle sapere dove potermi spedire alcuni suoi scritti mai divulgati, nemmeno sotto falso nome.

    Me ne andai con un’ombra nel cuore per avergli ricordato l’episodio del suo allontanamento dal quartiere ebraico. Non era mia intenzione fargli del male.

    Dopo qualche settimana, con mia grande sorpresa, arrivò, insieme ad un suo scritto, una lettera sugli anni trascorsi nel quartiere ebraico di Amsterdam in risposta alla mia domanda inevasa.

    Mio caro S.,

    l’altra sera a casa mia non ho risposto alla tua domanda sulla scomunica subita quando avevo poco più di vent’anni. Mi rattrista andare con la memoria a quel tempo, ma è giusto soddisfare la tua curiosità, non deve rimanerti la sensazione di aver affrontato un viaggio inutile, come un mendicante che ha girato per tutto il giorno e alla fine resta con il cappello vuoto, senza nemmeno una moneta.

    Sono tempi difficili per i liberi pensatori. Siamo odiati, perseguitati, visti con sospetto. Ho temuto più volte di finire i miei giorni bruciato su un rogo, come è accaduto a tanti altri come me accusati di eresia.

    Come sai, sono nato nel quartiere ebraico di Amsterdam, dove si rifugiarono più di un secolo fa tanti ebrei scappati da Lisbona per non cadere nelle mani del Tribunale dell’Inquisizione e del Re di Spagna. Questo quartiere è conosciuto anche come il borgo dei marrani, dei porci, perché così venivano chiamati dall’Inquisizione gli ebrei che avevano giurato di convertirsi alla religione cattolica, ma in segreto continuavano a pregare il Dio del Vecchio Testamento. I porci dovettero fuggire, per salvare le loro famiglie dalla persecuzione. Quando ero ragazzo amavo ascoltare i racconti dei vecchi del quartiere sulle persecuzioni spagnole. I loro ricordi erano per me un tesoro inestimabile.

    Se di origine sono un marrano, nel nome porto un destino per nulla rassicurante. Espinoza è parola portoghese, significa da luogo spinoso. Così come piena di spine, di ferite aperte mai chiuse, è stata la mia vita. Il nome Baruch vuol dire Benedetto. I miei genitori lo scelsero per riconoscenza alla terra benedetta, Amsterdam, che ospitò i nostri lontani parenti, salvandoli dalla furia degli spagnoli.

    Mio padre vendeva stoffe, tessuti, alternando periodi di buon guadagno a momenti di grande miseria. Era conosciuto nel quartiere per aver ricoperto a lungo la carica di membro del Mahamad, il comitato di governo, che decideva le regole della comunità con il potere di allontanare i dissenzienti, gli eretici, i disobbedienti. Ero un bambino quando dalle sue labbra sentii per la prima volta la parola eresia, la disobbedienza che offende Dio, meritevole della più dura delle condanne. Ed è stata la storia di un eretico, di nome Uriel da Costa, a segnarmi la vita.

    Nel nostro quartiere la povertà si coglieva sui volti della gente. Non c’era cibo nelle cucine né legna nei focolari, la morte si aggirava nelle strade mietendo vittime tra vecchi, donne e bambini. Non avendo tante altre occasioni per distrarsi da tutta quella miseria, molta gente correva in piazza, come fosse un divertimento, a guardare la fine di coloro che avevano avuto l’ardire di sfidare la Legge.

    Una mattina giunsero in molti ad assistere alla fustigazione di Uriel da Costa, il pericoloso eretico, legato al palo fissato al centro della Sinagoga. Le grida di dolore si sentivano a molta distanza dal luogo di culto. Dopo le canoniche trentanove frustate lo slegarono, lo denudarono completamente e lo stesero davanti al portone della Sinagoga. La gente calpestava il suo corpo fino a ridurlo uno straccio, sputava sulla sua faccia sanguinante, gli camminava sulle tibie, l’umiliava con i più ripugnanti insulti e i gesti più volgari.

    L’atroce spettacolo si fissò nei miei occhi impauriti. Mi tenevo stretto a mio padre, sobbalzando ad ogni schiocco di frusta.

    A casa, per prima cosa, corsi in camera per vomitare tutta la tensione e lo spavento accumulati durante l’esecuzione di quella terribile condanna. Come se non fosse bastato, dopo pochi minuti giunse a casa nostra tutto trafelato un amico di mio padre per annunciarci la morte di Uriel.

    Non si doveva ammazzarlo. Non prevedeva questo la condanna. Affermò preoccupato mio padre sfilandosi lentamente la Kippà.

    È lui che si è tolta la vita. Replicò sottovoce quell’uomo dal viso largo. Una smorfia di dolore si disegnò sul volto di mio padre, sconvolto dall’orrore suscitatogli dalla notizia del suicidio.

    Quando restammo soli, domandai: Papà, mi racconti la vita di Uriel da Costa. Perché è stato condannato?

    Un altro giorno. Sono state già troppe le cose viste oggi. Una di queste sere ti racconterò di lui.

    Tre giorni dopo mio padre mantenne la promessa. Entrò nella mia stanza trovandomi immerso nella lettura del Talmud. Fu sul punto di ritornarsene sui propri passi per non distogliermi dalla lettura, la mia attività preferita. Fui io a fermarlo, supplicandolo di raccontarmi la vita dell’eretico scomunicato. Lui si sedette accanto a me e iniziò a parlarmi di Uriel da Costa. Ti racconto la sua storia così come mio padre la narrò a me.

    Era sera. In Sinagoga rabbi Mortera stava leggendo un passo della Bibbia. Entrò un giovane mai visto prima. Passandosi la mano nei lunghi capelli chiari, bagnati dalla pioggia fitta, lo sconosciuto esordì con voce dolce come il suo sguardo: Posso sedermi in mezzo a voi?

    Da dove vieni? Gli domandò incuriosito rabbi Mortera.

    Dall’altro capo di Amsterdam.

    Non mi sembri uno di Amsterdam, il tuo accento è di altre terre, lontane da qui. Incalzò il rabbino.

    Sono di origine portoghese, come tutti voi ho avuto parenti fuggiti dalla terra dove ci chiamano marrani, perseguitati per colpa della nostra fede.

    Parlava piano, con un tono di voce dolce, suadente e fermo al contempo.

    Come ti chiami? Chiese il rabbi.

    Uriel. Uriel da Costa.

    Nessuno aveva mai sentito il suo nome, tranne il rabbi, che mostrò di non gradire l’arrivo del giovane portoghese. Si accarezzò la fitta barba bianca, lentamente, come era solito fare quando temeva che potesse succedere qualcosa di grave nella comunità.

    Un silenzio cupo calò nella Sinagoga. Osservando il gesto del rabbino, si ebbe la sensazione che la visita di quel giovane non promettesse nulla di buono, che insieme a lui in Sinagoga fosse entrato un vento maligno a scompigliare le nostre vite.

    Rabbi Mortera annuì gravemente: Ho letto i tuoi libri. Condivido le preoccupazioni delle autorità religiose e politiche della città di Amsterdam. Cosa grave è sostenere la mortalità dell’anima…

    Lo so l’interruppe Uriel, ma spero non succeda di essere allontanato anche dalla vostra comunità. Per noi ebrei la questione dell’immortalità dell’anima è senza una risposta definitiva, niente dice la Legge in proposito.

    Rabbi Mortera si girò verso tutti i presenti, dandoci appuntamento per il giorno dopo. Volle restare solo con Uriel. Nessuno ha mai saputo cosa si dissero, dovette trattarsi di una discussione molto tesa se la notte stessa Uriel lasciò in tutta fretta il nostro quartiere.

    Per molti anni se ne persero le tracce, fino a quando una mattina lo si rivide camminare insieme ad una vecchia signora e a due giovani. Erano la madre e i fratelli di Uriel. Tutta la famiglia si era trasferita nel nostro quartiere, prendendo casa dietro la Sinagoga. La vita per i da Costa non è stata facile sin dai primi giorni. La gente non li vedeva di buon occhio, su di loro pesava il giudizio negativo di rabbi Mortera. La mamma di Uriel, donna robusta e tenace, non si lasciava intimidire da nessuno quando c’era da difendere il figlio dalle accuse della gente del quartiere. Disposta ad esporsi ad ogni conseguenza, anche all’emarginazione, all’isolamento, all’insulto si misurava con chiunque parlasse male del figlio, affrontava ogni pericolo, ogni ritorsione. Un giorno, davanti alla Sinagoga, urlò contro rabbi Mortera accusandolo di essere ingiusto con suo figlio, di non avere cuore nel trattarlo alla stessa stregua di un cane bastardo solo perché aveva idee diverse.

    "Tutti hanno diritto di dire ciò che pensano. Soltanto l’Eterno può impedire al cervello di un uomo di funzionare, non tu. Tu non sei il Signore!" La donna fu punita con una dura

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