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Maria Zef
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Maria Zef

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Pericolosa è la storia di Maria Zef che è la metafora della rivalsa, pericolosa per tutti gli oppressori, per tutte quelle persone che sottovalutano la bontà, che scherzano con l'apparente rassegnazione degli "ultimi", i quali, tuttavia, dimostrano di essere muniti di un'arma molto più potente: il coraggio. Prefazione di Elisa Quinto.
LanguageItaliano
PublisherGAEditori
Release dateFeb 15, 2019
ISBN9788832518757
Maria Zef

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    Maria Zef - Paola Drigo

    Paola Drigo

    Maria Zef

    ©

    GA

    Editori

    Prefazione

    Due donne speciali: un’autrice e il suo personaggio.

    La prima si chiama Paola Drigo, la quale nasce in Veneto nel 1876, nella famiglia Bianchetti. Compie studi presso il ginnasio e sposa, giovanissima, l’agronomo padovano Giulio Drigo, dal quale acquisirà il cognome con cui firmerà le sue opere. Inizia la sua carriera di scrittrice pubblicando novelle per le più importanti testate giornalistiche del suo tempo, tra le quali Nuova Antologia, L’Illustrazione italiana e il Corriere: proprio sul supplemento La Lettura apparirà la prima di queste, nel 1912. Per quanto riguarda la forma del romanzo, vi si dedicherà nel 1936 quando usciranno due storie: Fine d’anno e Maria Zef . Quest’ultimo sarà pubblicato per i tipi dell’editore Treves nel ’38 e dall’editore Garzanti nel ’39. Sfortunatamente Paola non le vedrà mai: si spegne a Padova il 4 gennaio del 1938.

    Conosciamo, inoltre, altre due edizioni che risalgono al 1946 e al 1953. Proprio nel 1953 nascerà la prima trasposizione cinematografica del romanzo per la regia di Luigi Latini De Marchi. Ne seguirà una seconda, nel 1981, per la regia di Vittorio Cottafavi. Paola è stata un personaggio eclissato dalla storia della letteratura – o forse dalla storia dei lettori – contrariamente a quanto accade ad alcune sue contemporanee che hanno sempre giocato un ruolo fondamentale nella storia della letteratura: basti pensare a Grazia Deledda e Matilde Serao, sue contemporanee. Allo stesso tempo, però, lei ha silenziosamente rivestito un ruolo fondamentale, al punto tale da essere riconosciuta dalla critica come la scrittrice di area veneta più rilevante della prima metà del ‘900.

    Alla sua voce, come a quella di molte altre donne della letteratura (per fortuna non tutte), almeno fino al secondo dopoguerra, viene riservato un buon accoglimento e poi un algido silenzio. La Storia, che è donna, risulta essere governata dal Mondo, che è uomo e autoritario. In Italia bisognerà attendere, e non senza fatica, nomi e timbri come quelli di Elsa Morante e Natalia Ginzburg perché il femminile inizi ad acquisire una sorta di dignitosa presenza all’interno del panorama culturale. Se di quest’ultima si può condividere il pensiero che afferma: «Non amo il femminismo come atteggiamento dello spirito in quanto è una visione del mondo rozza, povera riduttiva e limitativa» che segnala un «non superato complesso di inferiorità» è anche vero che la riscoperta di voci straordinarie, di pensieri pensanti, di talenti accantonati merita l’orecchio attento del lettore ormai emancipato. Quello che resta fondamentale è ciò che affermava Italo Calvino: «Sono solo un pezzo d'un essere bicefalo e bisessuato, che è il vero organismo biologico e pensante».

    La seconda donna è Maria Zef, la protagonista dell’omonimo romanzo di Paola.

    La storia di Maria è complicata, la sua vita molto diversa da quella biografica della donna che la inventa. Una storia inizialmente incentrata su tre personaggi femminili: Maria, la sua sorellina e la loro mamma. Insieme girano per i paesi del Friuli per vendere la loro merce (stoviglie per la casa), un lavoro faticosissimo, che le costringe a lunghi tragitti in territori impervi, sopportando qualunque condizione metereologica, combattendo contro la fame, il sonno, la povertà e le cattive annate. Tuttavia, Mariutine (così chiamano Maria) non deve crescere velocemente solo per il suo lavoro ma anche a causa dell’improvvisa perdita della madre, che la rende orfana (suo padre era già deceduto in America dov’era andato a cercare fortuna) e allo stesso tempo la costringe a farsi carico di sua sorella. Già estremamente responsabile, ella è condotta una maturità forzata: una ragazzina, con i sogni e le speranze propri di quell’età viene improvvisamente catapultata in una realtà che via via le fa conoscere la disillusione. Quando rimangono orfane, le sorelle vengono affidate all’unico parente, l’unico membro della famiglia che è rimasto loro: Barbe Zef, lo zio paterno. Vivono con lui in una casa poverissima, in alta montagna, lontana dal mondo e, in generale, dalla società. In questa solitudine avverranno altri incidenti che decreteranno l’ingresso della protagonista nel mondo degli adulti: ma non è una storia di formazione, non guardiamo crescere e mutare una giovanissima donna, anzi, il mondo degli adulti del quale è costretta a far esperienza è come lo immaginiamo nei peggiori incubi di bambini. Niente eroi, nessun punto di riferimento incrollabile. Il mondo dei grandi è cattivo e costringerà Maria a spingere se stessa al limite.

    Poi vi è un altro personaggio femminile, solo apparentemente meno importante perché non è umano ma antropomorfizzato: la Natura. Descritta minuziosamente ci dà l’esatta percezione dello spazio in cui la vicenda si articola. Madre delle vite che la abitano è allo stesso tempo loro carnefice. Al suo mutare cambia la storia: più questa diventa rigida e spaventosa più le vite dei personaggi prendono pieghe inaspettate. I fatti più nefandi e sconvolgenti avvengono quando l’inverno diventa rigido, il giorno e la notte sembrano inscindibili. L’oscurità diviene quella dell’umanità. La perdita del calore del sole diviene metafora della fine dell’innocenza, del passaggio definitivo dall’infanzia all’età adulta. Il tramonto delle illusioni.

    Quest’ultime avevano trovato forma concreta in un’altra figura maschile che gioca un ruolo solo apparentemente secondario: Pieri, il ragazzo che accompagnerà le ragazze sul treno e per la strada di montagna che le conduce da Barbe Zef. Egli rappresenta la fantasticheria, nel pensiero di lui Maria ripone i suoi sogni di ragazza, di adolescente. Le illusioni di chi non ha ancora conosciuto la disumanità e il pericolo che si annida nei luoghi certi, e nel caso specifico nella famiglia ovvero nel luogo in cui ci si dovrebbe sentire al sicuro, a dimostrazione del fatto che i mostri, qualche volta, si nascondono veramente sotto il letto. Quel giovane ragazzo in procinto di partire per l’America a cercare fortuna è l’ultimo barlume di speranza, l’ultimo raggio di sole prima che la Natura matrigna catapulti la vita della protagonista nell’indescrivibile realtà, nella gelida disillusione.

    In una società ancora incentrata su opposizioni binarie, in cui la donna è vista sempre come l’elemento debole, la controparte insignificante dell’uomo, in un mondo ancora ingiusto, Paola Drigo ci fa conoscere la caparbietà di chi è disposto a tutto per non soffrire più, la determinazione spietata di chi decide di salvarsi la vita ad ogni costo. E fa tutto questo creando un clima perfetto: in un ambiente arido, duro, pericoloso e malvagio come quello della montagna in pieno inverno si svolge una storia sbagliata, fatta di sentimenti altrettanto duri, dove la felicità, come il sole, non sembra riuscire a sciogliere la coltre di neve. Anche il linguaggio scelto rientra perfettamente in quelle tinte: le parole del dialetto (quasi incomprensibile) - proprie non solo di alcuni passaggi dei dialoghi dei personaggi ma anche della narrazione - rendono tutto più crudo, legato alla terra, e ci descrivono un mondo che sembra perso nel tempo, una realtà italiana che appare lontanissima dai giorni nostri e invece è proprio lì, dietro l’angolo.

    All’orecchio del lettore, così come a quello del critico, la scrittura di Paola Drigo suona verista: per la scelta del linguaggio non forbito; l’artificio della regressione, quindi l’abbandono delle radici colte da parte dell’autrice; la messa in atto del principio di impersonalità, così come i maestri Verga e Capuana insegnavano. Allo stesso tempo, a quell’orecchio che percepisce il suono e l’andamento di questo stile di scrittura arrivano delle note particolari: un lento motivo disturbante, una melodia nella melodia che segnala una convivenza di durezza e umanità che creano un nuovo tipo di lirismo, che non segue i dettami convenzionali, che non ha nulla di rassicurante e sentimentale ma che si caratterizza come la marca distintiva di questa signora della letteratura che si impegnano a descrivere il mondo, quello vero.

    Una capacità descrittiva straordinaria: con la sua prosa l’autrice è in grado di farci percepire odori, rumori, sensazioni in maniera così precisa da poter essere rievocate ogni volta in cui si ripenserà a questa storia o capiterà di risfogliare le pagine del romanzo.

    Maria Zef è un romanzo completamente incentrato sulla perdita: degli affetti, delle certezze, dell’innocenza. A Mariutine sembra impossibile sfuggire al suo destino. L’unica rivalsa contro questo mondo che la vuole sottomessa e silenziosa fino alla malattia e alla morte – proprio come era stata sua madre – è trasformare la sua natura bambina in quella di una giovane donna arida, asciutta come la montagna, disposta a tutto pur di sopravvivere.

    Pericolosa è la storia di Maria Zef che è la metafora della rivalsa, pericolosa per tutti gli oppressori, per tutte quelle persone che sottovalutano la bontà, che scherzano con l’apparente rassegnazione degli ultimi, i quali, tuttavia, dimostrano di essere muniti di un’arma molto più potente: il coraggio.

    Elisa Quinto

    PARTE PRIMA

    Erano due donne un carretto ed un cane. Andavano lungo l'argine del fiume, dopo il tramonto, verso una grossa borgata di cui si vedeva appena brillar qualche lume sull'altra sponda.

    Il carretto a due ruote, carico di mèstoli, scodelle, càndole e candolini, e di altri oggetti in legno, era trascinato da una delle donne che, attaccata alle stanghe per mezzo d'una cinghia che le passava sotto le ascelle, tirava innanzi animosamente tra le buche e il fango della strada.

    Veramente, benché alta e complessa con larghe spalle di montanara, era ella piuttosto una bambina che una donna, di tredici o quattordici anni appena, con un visotto tondo ed ingenuo, e due begli occhi azzurri dall'espressione infantile.

    Pur seguitando a fare bravamente il suo ufficio di cavallo, si voltava di tratto in tratto con visibile ansia a guardare la madre che, fiancheggiando il carretto e posando la mano sulla sponda di esso, faceva l'atto di sospingerlo, ma in realtà vi si appoggiava sopra stancamente, trascinando a fatica i grossi piedi calzati delle scarputis [¹].

    Osservando meglio, si vedeva che un terzo personaggio faceva parte della comitiva: una bimba di cinque o sei anni, profondamente addormentata fra i mèstoli e i candolini, ed avvolta in uno scialle sdruscito da cui non sbucavano fuori che un ciuffetto di capelli rossi e la sommità d'una guancia paffuta.

    Il cane, un barboncino color del fango, trotterellando chiudeva il piccolo convoglio.

    Camminavano dall'alba, e avevano camminato anche il giorno innanzi e quell'altro e quell'altro ancòra, da due settimane, attraversando gran parte della regione che dal Friuli digrada al mare.

    Si soffermavano nei paesotti, nelle fiere, nei cortili delle case coloniche, a vendere la loro mercanzia. Mangiavano, si può dire, camminando, e dormivano dove capitava: nei portici delle fattorie, nei fienili, nelle stalle.

    Approssimandosi all'abitato la fanciulla si faceva precedere da un piccolo grido:

    Càndole, candolini, sculièri, menèstri, donne!.

    Allora le contadine del piano, floride e grasse, uscivano dalle case coi bimbi piccoli attaccati alle gonne, si assiepavano curiose intorno al carretto, finivano per comperare per pochi soldi chi un oggetto chi un altro, dopo lunghe discussioni.

    La madre e le figliole erano conosciute ormai in tutti i paesi lungo le rive del Livenza e del Piave, chè, scendendo ogni anno dalla Carnia al principiar dell'autunno, passavano sempre press'a poco per gli stessi luoghi, e non tornavano in montagna se non dopo aver vuotato il carretto, e raggranellato un piccolo peculio.

    Al loro passare, la buona gente del contado le chiamava per nome, e le salutava allegramente:

    — Catine! Mariùte! Rosùte!

    I fanciulli le rincorrevano ridendo e gridando:

    — Uh, Mariùte! Uh, Rosùte! Uh, Catine!.

    A dire vero, Catine, la madre, non avrebbe ispirato nè simpatia nè allegria, chè era una donna dall'aspetto squallido, taciturna, sempre piena di freddo, con un fazzoletto scuro legato sotto il mento come una vecchia.

    Vecchia forse non era, ma così logora e malandata da sembrare decrepita. Tossiva continuamente, e camminava trascinando i piedi, ma pareva facesse fatica anche a rispondere a chi la salutava, e usciva dal suo torpore soltanto per discutere accanitamente sul prezzo della mercanzia. Allora, due macchie rosse accendevano alle tempie il suo terreo pallore, la voce le tremava, e le tremava la bocca sulle gengive sdentate. Mariutine, la figlia maggiore, la guardava con ansiosa timidezza. Le contadine borbottavano:

    — Che grinta!

    Col suo modo di fare, Catine avrebbe indubbiamente disgustato e allontanato la clientela, se non avesse avuto al suo fianco Mariutine. Ma Mariutine, nei momenti difficili sapeva intervenire con una parola conciliante o scherzosa che neutralizzava, per così dire, la durezza eccitata della madre; eppoi aveva un'arte, quella bambina, per attirare a comprare anche chi non ne aveva voglia!

    Prendeva in mano gli oggetti con delicatezza, maneggiandoli colla punta delle dita, come fossero d'oro; li voltava e li girava da tutte le parti, mettendone in mostra i pregi e nascondendone i difetti; guardava in faccia gli offerenti, con quei suoi occhi azzurri che, ridendo, supplicavano.

    — Ah, le bambine non sembrano neppur figlie di quel sacranon! — dicevano le donne — Mariutine l'è 'na tosèta d'oro, la fa fin da caval; Rosùte, la par de butiro.

    Infatti, le bambine erano belle, robuste, colorite; le bambine piacevano a tutti: Mariutine furba svelta ed allegra, impavida contro il freddo, la fame, il sonno e la fatica; Rosùte, così buffa, col suo ciuffetto ritto di capelli rossi, insaccata in una vecchia giacca da uomo, grassa e pacifica come si nutrisse di tordi e beccafichi, anzichè di pan duro. Che fosse zoppina, non ci si accorgeva neppure, e neppure veramente lo era: si era ferita a un piede andando scalza, e quando scendeva dal carretto teneva la sua zampetta per aria, come le cicogne.

    Càndole, candolini, sculièri, menèstri, donne!

    Talvolta, negli anni buoni, capitando esse nei pressi delle fattorie ricche al tempo della vendemmia, quando la tavola era preparata non soltanto per i padroni, ma per le «opere», e sul fuoco fumava un'immensa pentola di zuppa, la massaia di buon cuore aggiungeva una ciotola ed un pane anche per

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