Corpo vitreo
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Corpo vitreo - Valerio Dalla Ragione
battesimo.
1
Il Globo
Pallore gratinato in una vasca di lentiggini, il rosso cruento di una sciarpa di lana e le ossa lignee. Il timbro vetroso e amorfo di una struttura cromatica.
Ecco, è già passato.
In un disperato ripescaggio, i bassi fucsia del quadro sonoro trasportano l’attenzione e la disturbano. Ora completamente persa.
Sono nuovamente, sono qui. L’arpa celtica che sognavo di pizzicare si è trasformata in una panetteria modenese, e io Modena non so neanche dove si trovi … ma perché dovrei andare a Modena? Il braccio di forza fra due mappature mentali precostruite e annacquate dalla psicosi si estingue, scemando, per ricomporsi in un secondo tempo. Potrebbe avvenire in un momento qualunque, ma non c’è alcun modo di saperlo. Come un incendio o un torrente stagionale, arginarlo è l’unica opzione. Privare i neuroni del prezioso nutrimento, spingere giù il sangue in zone periferiche, bonificarne le aree atrofizzate e impigrite dalla scelta comoda dei mezzi pubblici, nell’unico, dissonante sforzo ragionato di decentralizzare il potere dispotico del cervello.
Sega. Dirompente come l’apocalissi, come la detonazione di piccole conflagrazioni atomiche nella massa cerebrale, e di colpo questa si sgonfia, rilasciando il suo peso. Schiamazzi dall’incrocio con Studiestræde risvegliano un’eredità inconscia del primate nascosto, la scimmia riposta con accuratezza sotto una botola della meccanica umana. Quell’uovo di pasqua a sorpresa che gli operai della riproduzione si divertono a sigillare al momento dell’assemblaggio, troppo a fondo nella bambola di carne perché lo si possa rimuovere dopo la consegna.
Ho saputo poi che era una pazza in bicicletta. Aveva urtato due pedoni e si era messa a schiamazzare. I due – uno portoghese, l’altro no – hanno prima provato a calmarla. Quando l’hanno vista entrare in loop, le hanno sputato in faccia e se ne sono andati. La pazza è rimasta imprigionata nel suo loop, e adesso lancia maledizioni alle finestre della Strædet da una ventina di minuti. Una di queste risponde schiantandosi a terra. C’è molto vento e i vetri del centro contano molti decenni. La ciclista isterica allarga le braccia, balbetta qualcosa in un dialetto isolano e sviene.
Le faccio una foto, per ricordarmi più tardi della sua esistenza. Da quel momento in poi, saranno pochi megabyte ad archiviarne gli elementi, sia quelli essenziali, primari, che i dettagli. Per esempio, il colore dei suoi orecchini. Oppure se veramente ce li aveva, gli orecchini, o se è caduta sull’asfalto – mattonelle? E se sì, di che dimensioni, forma, colore? Non devo più aver paura di allenare la mia memoria, da quando esistono gli archivi digitali. E il braccio spirituale della Rete … come potrebbe esistere un mondo senza l’Internet? Premo le nocche del pugno destro contro la mia fronte serrando le palpebre, ma non riesco a concepire l’idea di dover per forza stringere le mani a una persona per poter dire di conoscerla.
Un altro schianto per Studiestræde. La scimmia si ritrae dalla panoramica sulla Rete, riallacciandosi allo spazio corporeo. Questa volta sono operai. È vero. Hans Vågensø ricorre oggi.
Cerchi concentrici e fosforescenti di carpentieri nei loro rituali, assaggi di una protoreligione ancora insondata, diffusa da piattaforme al largo del Trønderlag, mille chilometri più a nord – e il Globo.
Spiegazzato, alto venti metri, posto di fronte al municipio.
Nessuno ci aveva detto quando sarebbe arrivato, né a cosa servisse. Semplicemente un giorno era lì, con file di transenne e attrezzi da lavoro disseminati sotto il polo sud, e i passanti stupiti a Rådhuspladsen che boccheggiando sfilavano il telefono dalla tasca per diffonderne istantanee sulla Rete, condivise, ritagliate, rifiltrate e ritrasmesse, come un bicchiere d’acqua pura estratto dal letame delle fogne. Si fermavano non più del tempo necessario a strappare una foto o due, allungando di una manciata di secondi la corsa al posto di lavoro, o alla sessione in palestra, o quello che era – o anche niente, perché l’importante era mostrare di avere fretta.
E il Globo rimaneva lì, sotto la pioggia. Muto e indecifrato. Una domanda irrisposta. C’è una piccola lanterna in cima al polo nord, e non funziona.
L’ambulanza si ferma all’incrocio con Studiestræde e preleva la ciclista forsennata. Ecco che ritorna la coscienza che lei esiste, che semplicemente lei è. La manager di un negozio di vestiti lì davanti si china a raccogliere, uno ad uno e a mani nude, i pezzi di vetro della finestra caduta, o almeno quelli più vicini al suo tappeto d’ingresso. Mi affaccio, afferrando la fotocamera. Frammenti di polpette di pesce fritte fra i miei incisivi. Sputo sul tappeto d’ingresso. La manager si volta, si accorge di qualcosa. Resta ferma un secondo, si guarda intorno e tiene gli occhi fissi su un’insegna. Si avvicina a un cestino, butta i frammenti di vetro. Se ne è già dimenticata.
2
Il Monte di Re Federico
La scimmia immerge le dita argillose in una pozza d’acqua piovana per trovare un po’ di sollievo. Le sue sorelle la imitano. Ancora non lo sanno, ma hanno fatto la scelta giusta. Solo pochi giorni fa, il branco aveva perso due femmine per quella leggerezza: il cucciolo nato morto era rimasto così, all’aria, e i predatori non avevano tardato a presentarsi, attirati dal potente fetore dell’aborto spontaneo.
Ma oggi, il cadavere dell’ultima vittima – spenta dopo due giorni di affanni per le ferite riportate – non avrebbe sparso i fermenti della sua decomposizione. I quattro membri rimasti del branco si sono affrettati a grattare via manciate di argilla dal terreno umido dopo la pioggia. Una di loro l’aveva visto fare a un’altra bestia – non sapeva più quale – subito dopo la defecazione. Si era avventurata in una piccola gola dopo che la tempesta aveva smembrato gli alberi da frutto della zona, e lì aveva assistito a quello strano rituale: concluso il rilascio di quell’ammasso fumante di feci, il quadrupede aveva scalciato in fretta all’indietro. Piccoli mucchi di terra si depositavano sui suoi scarti alimentari. Il motivo era ignoto al quadrupede stesso – e tale sarebbe rimasto alla sua intera discendenza, ma la figura pelosa nascosta dietro una roccia ne fu in qualche modo colpita.
La femmina è sepolta. I quattro primati l’hanno ricoperta sotto uno strato di argilla, abbastanza da non renderla un pericolo per il branco decimato. Rimangono lì per pochi secondi ad osservare il tumulo grigiastro e costellato di rocce. In mezza giornata, forse, si sarà asciugato – ma a quel punto il branco si troverà già in un’altra zona.
Negli anni a venire – sull’ordine dei sei zeri – questo atto inconsueto e dispendioso ha assunto un altro significato. Non potendo ammettere che un caro scomparso rappresenti un pericolo per i vivi, la glabra evoluzione di quelle scimmie si è convinta di erigere quei