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Il cuore sul tavolo
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Il cuore sul tavolo

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“Anche rispetto agli uomini della mia vita, ho sempre lavorato per non cadere mai in una situazione di bisogno, né emotivo né economico: se ne hai bisogno non sei libera, e se non sei libera non puoi nemmeno chiamarlo amore. Non è amore vero se non è un amore femminista”
LanguageItaliano
Release dateFeb 22, 2019
ISBN9788855080385
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    Il cuore sul tavolo - Piera Cipriani

    Rosanna

    Di una bambina ribelle e delle sue radici

    Curiosa, vivace, ribelle e disobbediente.

    Ero così da bambina, e sono così ancora oggi, che ormai ho settant’anni.

    Se c’è una cosa che ricordo della mia infanzia è proprio la disobbedienza: anche se molti tendono a pensare il passato come un posto felice, la realtà è che in quell’Italia rurale e patriarcale i bambini venivano trattati con un livello di violenza psicologica che oggi è difficile anche solo pensare, era normale forzare la loro personalità, costringerla con ogni mezzo perché si adeguasse alle aspettative del mondo adulto; forse non eravamo neanche davvero bambini, come li intendiamo oggi, ma solo umani piccoli, che non avevano bisogno di alcuna speciale premura o attenzione.

    Per me questo era insopportabile.

    Non che provassi rancore: anche quando venivo picchiata o subivo un trattamento umiliante, anche quando le lacrime del dolore e quelle della rabbia si mescolavano sul mio viso impietrito, io capivo bene che di fronte a me c’era comunque una persona, e più che desiderare vendetta volevo capire, comprenderne i perché.

    Obbedire, però, quello no.

    Eravamo una famiglia contadina del Nord Est con un passato benestante, e anche se al momento le cose non andavano più così bene come un tempo, il segno della prosperità perduta era lì, a incombere sui nostri giorni nella sagoma imponente della nostra casa: era una grande costruzione colonica su due piani, con due ali che abbracciavano un cortile abbastanza ampio da ospitare una piccola vigna. Sulla facciata frontale si arrampicavano i tralci di una grande vite che raggiungeva il poggiolo del primo piano: per me era una via di fuga, il passaggio segreto delle mie avventure quando da piccola salivo e scendevo su e giù per quei legni nodosi, eludendo la sorveglianza severa degli adulti.

    Era un mondo arcaico, di famiglie grandi: nella casa vivevamo noi, i due fratelli maschi di mio papà, la mia nonna paterna, e le donne che aiutavano nelle faccende domestiche. Non era un ambiente accogliente, non c’era spazio per le dimostrazioni di affetto: un abbraccio, una carezza, un bacio, io non ho memoria di niente di tutto questo, ma non era per cattiveria, semplicemente non si usava, era fuori dall’orizzonte di quegli adulti contadini dai volti nodosi e bruciati dal sole.

    La sola figura da cui un bambino potesse aspettarsi un po’ di tenerezza, qualche coccola, era chiaramente la mamma.

    Mia mamma era malata, aveva una diagnosi di psicosi bipolare: alternava momenti di relativa tranquillità ad altri in cui veniva tenuta in casa sottochiave. La malattia mentale fa paura oggi, figuriamoci allora: era un tabù, una vergogna sociale, qualcosa da nascondere e di cui non fare cenno, come se, relegata nel silenzio, la realtà evaporasse nell’oblio. Ovviamente era il contrario, e dietro la cortina della rimozione la malattia della mamma si ingigantiva per lei e per tutti noi.

    Io le volevo bene, era mia mamma, ma la situazione era ovviamente piuttosto difficile.

    Avevamo dei momenti di intimità, certo: più che le serate in casa, per me i ricordi più intensi di noi due insieme sono quelli del mattino presto, quando era lei che ogni giorno mi accompagnava alla scuola materna. L’istituto non era proprio nel nostro paese, stava nella frazione limitrofa: attraversavamo le strade nel crepuscolo silenzioso, in quel frangente sospeso tra quando gli uomini erano già andati nei campi e quando le attività di negozi e botteghe avrebbero aperto, e le vie del borgo erano semideserte, in un silenzio come di fiato trattenuto.

    Arrivavamo quindi al piccolo fiume che separava il nostro paese dall’abitato dove si trovava l’asilo: bisognava attraversare un ponte, e per me così piccola quel semplice passaggio si trasfigurava in una traversata avventurosa, mi immaginavo storie di pirati e di animali selvaggi, di eroi e di principesse, fughe rocambolesche e combattimenti coraggiosi.

    Di solito andavamo in bicicletta, e arrivate all’inizio del ponte ci fermavamo un istante e ci guardavamo negli occhi con complicità, come per raccogliere il coraggio necessario a quell’impresa eroica...

    Spesso però capitava che la bicicletta servisse a qualcun altro della famiglia, o che avesse la ruota bucata, così dovevamo andare a piedi: era più faticoso, ma il senso di eccitazione trepida dava ancora più i brividi, e quando finalmente entravo in classe mi sentivo forte e sicura di me, pronta a tutto.

    In realtà alla fin fine la mia frequenza all’asilo non era continua, proprio per le condizioni della mamma. Fu giusto in quel periodo che cominciarono le mie prime vere paure: la paura che nessuno venisse a prendermi, la paura che crollasse il ponte, che non sarei potuta ritornare a casa e sarei rimasta sola� per sempre.

    Fu anche in quel periodo che cominciai a dovermi ingegnare per affrontare quelle paure, fronteggiarle a viso scoperto, trovare un modo per uscirne viva e possibilmente vittoriosa: al cospetto del terrore, senza nessuno su cui poter contare, nemmeno la mamma, la mia salvezza fu la fantasia.

    Per ogni angoscia che si insinuava nel mio piccolo cuore fino a spezzarmi il fiato in gola, io mi figuravo una trama epica e gloriosa in cui avrei sconfitto pericoli e mostri, trasformavo il panorama delle mie camminate mattutine nello scenario in cui scoprirmi invincibile e fiera, senza macchia e senza paura: arrivavamo alla sommità del ponte e rabbrividivo a sentirlo scricchiolare sotto i miei piedi, era reale, per me stava crollando veramente, riuscivo a sentire le pietre colpirmi precipitando nelle acque vorticose del fiume, urlavo senza voce, era terribile... ma poi riuscivo a nuotare tra i flutti fino alla zattera che si trovava accanto all’imbocco del ponte, che sino a poco tempo prima serviva per attraversare il fiume� mi immaginavo riuscire a mettermi in salvo, ansimante ma ancora determinata, e arrivare infine a casa attraversando i campi di corsa, sferzata sul volto dalle piante che erano più alte di me, eppure irrefrenabile, talmente veloce che non avrei avuto paura di niente, perché io ero Piera, ero forte.

    Ora che sono adulta, madre, nonna, ora che coccolo i miei nipotini con tenerezza infinita, mi capita spesso di riflettere su quanto affetto ci siamo persi quando eravamo bambini noi: sembra incredibile a raccontarlo adesso, ma da parte della nostra famiglia non abbiamo ricevuto abbracci, baci, carezze, mai. Nessuna coccola, nessun gesto di dolcezza che ci facesse sentire al sicuro, perché erano smancerie, debolezze, si doveva essere grandi.

    Era il mondo della cultura contadina, spesso la si mitizza e invece bisogna dirlo chiaro: il mondo oggi è migliorato, le relazioni sono migliorate, le attenzioni per i piccoli, per le donne, per chi soffre.

    È vero che gli anziani ricordano quel mondo con nostalgia e vagheggiano di un tempo fantastico e felice, lo capisco, in fondo per i più l’infanzia è un periodo lieto e spensierato, ma in realtà era peggio di oggi, era un universo duro, spietato.

    Questo però d’altra parte mi ha forgiato: poteva indurirmi, e invece ha plasmato la mia estrema sensibilità.

    Certo, ci sono ricordi felici e spensierati anche per me, naturalmente. La vendemmia, per esempio: che momento meraviglioso!

    Ecco, se dovessi identificare degli attimi di felicità piena nella mia infanzia, sarebbero sicuramente nelle vendemmie.

    Casa nostra era grande, oltre a tutti noi che ci vivevamo arrivavano quindici, venti persone dal vicentino, sembrava che la vita finalmente esplodesse, c’era un trambusto meraviglioso!

    Ovviamente era anche un periodo di lavoro, e di lavoro duro, ma si spezzava la routine della vita familiare sempre uguale, era un periodo in cui, nonostante anche noi fossimo impiegati come manovalanza, ci era finalmente concesso di essere davvero bambini.

    Poi si tornava alla vita di sempre, con la mamma malata e chiusa in casa, il papà che faticava, gli zii, la nonna.

    Già, la nonna: nei racconti di famiglia ci veniva sempre nascosto per la vergogna, ma lei aveva una storia a suo modo tragica. Prima della guerra il marito era andato in Argentina a cercare fortuna, lasciandola da sola con due bambini, mio papà e mio zio Ezio. Iniziò il conflitto, e già da subito il Trentino divenne teatro di combattimenti intensi, con movimenti di truppe e di armamenti pesanti, così che la guerra divenne presto una singolare abitudine della vita normale; dopo l’Armistizio, la situazione nella zona fu tra le più drammatiche e violente di tutto il continente, si era sul confine con il Reich e l’occupazione nazista era pervasiva, totale, mentre dal cielo i bombardamenti alleati erano quotidiani, e la vita di sempre era definitivamente sospesa, come in una lunga, terribile apnea.

    Visto che casa nostra era grande, vi si insediò un comando delle SS, che ne avevano fatto il Quartier Generale di tutta la gendarmeria tedesca sul territorio: la collocazione campagnola era ideale da un punto di vista strategico, permetteva di sfuggire agli attacchi sulla città mantenendo però un controllo pieno e diretto su tutte le attività dei propri uomini nel circondario. C’era dunque un discreto movimento di ufficiali di alto rango che, preso possesso della casa, ne usufruivano in chiave militare ma anche come dimora

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