Bestie
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Bestie - Federigo Tozzi
Table of Contents
Federigo Tozzi - Bestie
Federigo Tozzi - Bestie
Bestie
Federigo Tozzi - Bestie
© Musicaos Editore 2019, Gennaio 2019
In copertina, Rawpixel
Progetto grafico, Bookground
Musicaos Editore, Via Arciprete Roberto Napoli, 82, Neviano (Le), tel. 0836.618232
www.musicaos.org, info@musicaos.it
Isbn 978-88-94966-268
Isbn versione cartacea 978-88-94966-213
Federigo Tozzi - Bestie
Federigo Tozzi (Siena, 1 gennaio 1883-Roma, 21 marzo 1820), pubblicò Bestie
nel 1917. Malgrado i frammenti che compongono quest'opera siano tutti accomunati dalla presenza di uno o più animali, è l'umanità scabra, cinica, senza pietà, a farsi avanti, in una natura insensibile. Le bestie sono soggiogate alla volontà dell'uomo, che decide per loro della vita e della morte, senza un motivo apparente, a volte per un capriccio. Il protagonista di queste prose liriche (come specificato nell'edizione del 1921, Fratelli Treves Editori) è un io che scava dentro se stesso confrontandosi continuamente con la realtà che lo circonda, la città di Siena e la campagna dei dintorni. Il lettore di questi frammenti ha l'impressione di conoscere un universo di odori, suoni, popolato da specie animali, nelle quali l'io narrante si muove tra rapporti approssimati con mogli, fratelli, padri. Queste Bestie sono capaci di passare in frazioni di secondo dalla pietà all'odio, dalla compassione alla violenza, e al termine della lettura ciò che muterà sarà la visione del rapporto tra animalità e bestialità nell'uomo.
Bestie
Che punto sarebbe quello dove s’è fermato l’azzurro? Lo sanno le allodole che prima vi si spaziano e poi vengono a buttarsi come pazze vicino a me? Una mi ha proprio rasentato gli occhi, come se avesse avuto piacere d’impaurirsi così, fuggendo.
Che chiarità tranquille per queste campagne, che si mettono stese per stare più comode! Che silenzii là dall’orizzonte e dentro di me!
La strada per tornare a Siena è là. Vado.
Le case si facciano un poco a dietro, e quel mendicante non mi cada addosso. Almeno, l’altro è seduto per terra! Dio mio, tutte queste case! Più in là, più in là! Arriverò dove trovare un poco di dolcezza!
Dio mio, queste case mi si butteranno addosso! Ma un’allodola è rimasta chiusa dentro l’anima, e la sento svolazzare per escire. E la sento cantare.
Verso il settentrione; dov’è di notte l’orsa, dove la luna non va mai!
Ora, se anche io t’amo così, o allodoluccia, vuol dire che tu puoi restare dentro la mia anima quanto tu voglia; e che vi troverai tanta libertà quanta non ne hai vista dentro l’azzurro. E tu, certo, non te n’andrai mai più.
Non fai né meno ombra!
Esciamo dalle strette delle case e dei tetti. La città si chiude sempre di più; le case sono sempre più vuote; e non vi troveremmo niente per noi.
Lasciamola, qui, questa gente che metterebbe me al manicomio e te dentro una gabbia!
Sono le tue ali che tremano oppure è il mio cuore? Credo che sia passata la morte, in cerca non si sa di chi. Oj, ma la chiuderemo dietro qualcono di questi cancelli, in uno di questi vicoli senza sfondo, insieme con la spazzatura! A Siena, ce ne sono di questi cancelli che nessuno apre mai, perché non servono più a niente; dalla parte di dietro a qualche orto che nessuno coltiva; di fianco a qualche palazzo disabitato.
§
Nel tinaio, sotto un vecchio barile che aveva perduto anche i cerchi, ritrovo una tavola di sorbo. Perdio! Se mi riesce a segarla come voglio, mi ci viene un bel tagliere. Prima, con la lima a triangolo, arroto i denti della sega, poi mi metto all’opera. È legno così duro che, per quanto consumi tutta la sugna che tenevo incartata su la cappa del camino, non giungo alla fine. La sega brucia e doventa pavonazza. E poi, non mi riesce d’andare a filo. Allora prendo un accettino e concio la tavola alla meglio. Quando ho quasi finito, m’accorgo che c’è un buco fatto da un tarlo. Lo voglio trovare! Spacco nel mezzo la tavola; e in fondo al buco, che gira quasi come una spirale, lo trovo; bianco e tenero, con una puntina rossa. Lo lascio stare: io sono Dio, ed egli è un solitario dentro una Tebaide.
§
Da ragazzo, mi compravano pochi libri. Mio padre voleva ch’io non leggessi; e, con la scusa che mi sarei sciupato gli occhi, non cavava mai un soldo di tasca. Quei cinque o sei che avevo, li tenevo insieme con la biancheria; e m’avveniva che, quando tiravo il cassetto per prendere una camicia o altro, ne aprivo uno e leggevo senza muoverlo dal suo posto.
Ma, un capodanno, la mia