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Cento di questi anni. Preludio
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Ebook128 pages1 hour

Cento di questi anni. Preludio

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La microstoria dei personaggi irrompe nella macrostoria del mondo intero e si trasforma in romanzo. Comparse reali e protagonisti immaginari attraversano il Novecento tracciando una storia alternativa, tra amori e guerra, introspezione e utopìa, passioni ideologiche e culturali, speranze politiche collettive e aspettative personali. Come insegna lo storico Franco Cardini: Le cose accadute divengono perentorie e irreversibili solo dopo che, appunto, sono accadute: ma prima di allora nulla è scritto e tutto è possibile.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 25, 2019
ISBN9788831602860
Cento di questi anni. Preludio

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    Cento di questi anni. Preludio - Pietro Ferrari

    Indice

    Copertina

    1 PRELUDIO

    Napoli. Anno 2019. Mese di marzo. Giorno 19. Martedì.

    È pronto l'agnello al forno? Gianni? Se le patate sono scure di sicuro è cotto!

    Controllo, tu vai in terrazza che nonno avrà sete, portagli l'acqua e un goccio di frizzantino che brindiamo assieme appena arrivo. È un evento bellissimo che capita a pochi.

    Luigi Esposito si trovava sulla sua poltrona comoda e morbida, nella penombra naturale del pergolato che reggeva i rami del glicine. C'era tutta la famiglia intorno al vecchio Esposito emozionato per il suo compleanno, raggiunto con uno stato invidiabile di salute psicofisica.

    Lanciò lui il brindisi, seguito dallo scroscio dei bicchieri e dalle grida dei nipotini.

    Alla vita!

    Mentre i nipotini rientravano nel tinello per giocare assieme, suonò il citofono; Marcello, il nipote più grande, guardava nonno Luigi.

    Certo nonno che è incredibile! Ora arriva un giornalista per farti una foto e pure una breve intervista, se vuoi.

    Intanto Gianni apriva il telegramma arrivato contemporaneamente al giornalista trafelato perché l'ascensore non funzionava; un messaggio di sole quattro parole era chiaramente leggibile a caratteri cubitali. Lo lesse ad alta voce. Era firmato Giovanni, Michele e Alberto.

    CENTO DI QUESTI ANNI

    Alla fine della giornata, Luigi Esposito pensò alla sua lunga vita, ai suoi interminabili ma sfocati ricordi, ai rimorsi e ai rimpianti, alla dolcezza e al profumo degli anni verdi. Pensò a quello che aveva visto e a quello che aveva saputo, immaginò perfino i contorni di ciò che neanche aveva visto né saputo, ma che era accaduto davvero.

    Non tutto quello che gli passava per la mente era veramente avvenuto, ma probabilmente, neanche quello che aveva visto e saputo era accaduto esattamente come lo aveva percepito allora e come adesso lo ricordava. In fin dei conti, ognuno vive la vita propria e si dà una chiave di lettura di ciò che lo circonda.

    Di una sola cosa Luigi era sicuro o meglio, si riteneva persuaso: se non avesse conosciuto Giulia, non avrebbe mai ascoltato suo nipote leggergli quel telegramma e oggi non avrebbe festeggiato un secolo di vita. Gianni non sarebbe neanche esistito. Sarebbe stata tutta un'altra storia o magari no? Forse tutto ciò che era stato, sarebbe accaduto ugualmente.

    Il vecchio si chiedeva se non può che accadere ciò che in realtà accade o se, invece, è solo a posteriori che possiamo dire che è accaduto quanto doveva accadere. Tra il dovere e il potere, tra il participio passato e il presente, si muoveva ansiosa la differenza qualitativa delle umane possibilità.

    Era perplesso ma sereno. L'indomani avrebbe visto addirittura il suo volto sul giornale.

    ***

    In qualche modo sono da considerarsi presenti tantissimi altri personaggi, anzi ci sono proprio tutti quanti, sebbene non li abbiamo sempre trovati dove abbiamo cercato, né abbiamo ascoltato tutti i loro dialoghi. Malgrado tutto, non possono dirsi assenti. Non vi dispiaccia però che tra tutti, abbiamo scelto di raccontarvi di loro. Essere gettati come piccole comparse nel palco sconfinato della macrostoria, col brivido di perdersi nella militanza ignota, come ombre danzanti una rapsodìa dell’impersonale, ombre che faranno di tutto per lasciare una traccia, per imprimere forse invano un solco, che dia ai posteri contezza di quello che fu il loro esistere, il loro esserci stati.

    Il treno della storia si dirigeva roboante contro di loro, sbuffando, come un gigantesco toro, carbone bruciato dalle narici. Eppure alzarono lo sguardo e sorrisero alla vita.

    1 PRELUDIO

    Figli spavaldi del loro tempo, innamorati e fiduciosi dell’avvenire, cavalieri del menefreghismo e interpreti di un anelito maggioritario e mediterraneo, sudista e spartano, tragico e travolgente. Avanguardia consapevole ma involontaria.

    1919. Dicembre. Notte fonda. Massimo Lugani e Alfredo Covelli guardavano la camionetta che tornava al paese, qualche foro di proiettile e qualcuno bendato, Mario Antonelli non guidava. Mario era steso dietro, ammazzato durante la guerriglia che la Disperata aveva ingaggiato coi rossi perché squadristi neri e militanti rossi se le davano di santa ragione in Toscana, non solo con le mani ma pure coi coltelli e le pistole.

    Mario aveva regalato ad Alfredo una copia di Pagine Libere – Rivista quindicinale di politica, di scienza ed arte pubblicata a Lugano nel 1906 da Angelo Oliviero Olivetti, un intellettuale che univa l’idea sindacale al sentimento nazionale contro le ‘derive parlamentaristiche’ del socialismo riformista. I primi anni del Novecento erano pervasi dalla volontà di ricomporre in modo creativo e nuovo le basi della rappresentanza politica attraverso l’associazione di mestiere, rompendo le schematizzazioni ideologiche sclerotizzate mentre il mondo politico e sindacale, era ingessato dal conformismo e dalla retorica dogmatica del partito veterosocialista.

    La famiglia Antonelli era una famiglia povera, fatta di gente onesta e laboriosa, gente tosta, schietta e ospitale. Mario era un operaio nazionalista, formatosi nella scuola sindacalista di Filippo Corridoni, un fanatico di George Sorel che si doveva difendere dai chierici pigri e maneschi del marxismo ottocentesco. Un fascista di sinistra, uno che avrebbe preferito convincere i comunisti ad allearsi col Fascio, perché ce l’aveva coi monarchici e con la destra borghese. Uno fatto così, ma che non torna a casa perché quei comunisti ottocenteschi lo avevano accoppato.

    Alfredo imprecò contro la sorte e poi disse a Massimo, prima che gli altri scendessero dalla camionetta: Quando muore un camerata c'è sempre l'amarezza di essersi frequentati poco e di non aver visto la vittoria...... ma quale vittoria? Amiamo più vincere o combattere? Se alle fine vinciamo contro questa feccia ci basterà mai goderci una qualche pace?

    A Mario gli volevo bene, porca di una miseria ladra! Alfredo, ma ora come glielo diciamo alla madre?

    Tanto silenzio e tanti mozziconi di sigarette per strada. Una brutta nottata coi crampi allo stomaco. L’unico che parlava era Franco Galantini, un reduce di guerra che raccontava quando all’appello dei superstiti in trincea, la voce dei caduti che non potevano più rispondere veniva urlata dal coro unanime di tutti gli altri.

    Stefania Gualandi piangeva il figlio nell’abisso infinito di una sofferenza che, seppur silenziosa echeggiava ugualmente, come se la natura circostante avesse avuto un moto di ribellione al suo dolore, in omaggio all’amore materno che resta tra le cose più sublimi e belle che possano mai conoscersi su questa terra, su questo mondo terribile e violento.

    Il giorno dopo al cimitero, si levò il triplice grido di dolore: Camerata Mario Antonelli …PRESENTE!!!

    Lo spirito comunitario che invade i superstiti salì come un brivido elettrico ma durante il ritorno a casa, serpeggiava una strana paura forse più brutta della morte. La paura di perdere. Alfredo ruppe il brusìo malinconico dello scoramento collettivo pensando…

    Romantici e visionari cantiamo a cuore aperto la nostra amicizia che è tra le migliori vittorie. Al diavolo tutto, se non abbiamo le penne giuste per scrivere la storia, allora ne troveremo di ancora più aguzze per spalancare lo spazio alla narrativa. Ci rivedremo tutti nel libro mai scritto e sarà una gran festa. Ci rivedremo lì, assieme a Mario

    Franco Galantini era l’unico tra di loro ad aver attraversato il grande Conflitto mondiale e seppe trovare le parole giuste.

    Da oggi siamo più forti, perché avete capito che non ci batteremo più soltanto per una Idea o per la Patria, ma per difendere l’elemento immateriale che lega tutti noi qui presenti adesso, vivi e caduti. Questo elemento è il nostro cameratismo.

    Non era finita lì.

    1920. 12 Settembre. Alfredo non temeva gli scontri armati ma aveva letto con eccitazione Il Piacere di Gabriele D’Annunzio - uscito già da una ventina di anni ma conosciuto soprattutto nelle città e tra l’aristocrazia innamorata di estetismo e decadentismo – che gli diede una così violenta brama di raggiungere Fiume da spingerlo a partire, lasciando quel piccolo mondo antico strapaesano e campagnolo, così lontano dal raffinato e colto discorrere di arti come dalle morbidi vesti delle lussuose ed incantevoli femmine del giro dannunziano. Era appena scoccato il primo Anniversario dell’occupazione della città adriatica da parte dei legionari e Alfredo si congedò dai suoi amici toscani.

    Il resto della squadra lo considerava un bischero e si continuava comunque senza troppe fantasie metropolitane a far spedizioni punitive, azioni che mettevano sempre più all’angolo del ring quei bolscevichi di paese che pensavano di farla loro la rivoluzione.

    Lo stesso Vladimiro Lenin e Leone Trotzsky dicevano che in Italia, avrebbe potuto farla solo Benito Mussolini.

    Alfredo Covelli stava intanto diventando un cultore di arti marziali e del Bushido grazie ad Harukichi Shimoi, un poeta giapponese venuto in Italia a studiare Dante, poi arruolatosi negli Arditi come volontario fra i quali conobbe Gabriele D’Annunzio che decise di seguire a Fiume. Un giapponese a Fiume! Alfredo Covelli partecipava anche alla vita editoriale nel laboratorio de La Testa di Ferro, mentre Guido Keller dava sfoggio della sua forsennata libido provocatoria e Filippo Tommaso Marinetti parlava dei fiumani come disertori in avanti.

    Il 13 gennaio 1920 Alceste De Ambris, esponente del sindacalismo rivoluzionario, è nominato dal Vate, capo di gabinetto del Comando fiumano in sostituzione di Giovanni Giuriati. Ebbe vita la avveniristica Carta del Carnaro che auspicava una Repubblica sociale federativa, fondata su libere associazioni di produttori nei sindacati, in antitesi con le tendenze burocratiche dei socialcomunisti e il loro parlamentarismo. Il Parlamento andava scavalcato e sostituito dall’azione diretta. 

    Il sogno fiumano del Vate, l’urbe onirica dell’esteta guerriero finiva nel dicembre 1920 con un ‘alalà funebre gettato sulla città assassinata’ ma Alfredo Covelli, arrivato giusto in tempo seppe fare le sue esperienze umane, culturali e sensuali, prima di tornare sui libri per dedicarsi seriamente agli studi. Sempre per modo di dire.

    Intanto nel paesello e dintorni tra azzuffate, frequenti ‘a-noi’ e tanti ‘me-ne-frego’ impazzava lo scontro politico davanti ad uno Stato scavalcato

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