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Sympathy for the devil: Il diavolo non è poi così male
Sympathy for the devil: Il diavolo non è poi così male
Sympathy for the devil: Il diavolo non è poi così male
Ebook296 pages4 hours

Sympathy for the devil: Il diavolo non è poi così male

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About this ebook

In una Los Angeles dei nostri giorni Sympathy è appena stata portata alla centrale di polizia per aver danneggiato l'ufficio del suo capo. Qui incontra Luc Bamefot, uno strano personaggio che la tira fuori dai guai e le offre di lavorare per lui. Ci metterà un po' per capire in che cosa consisterà il suo nuovo lavoro e soprattutto che l'uomo che l'ha assunta in realtà è il Diavolo in persona, affascinante, enigmatico ma vittima della noia e della società effimera e nevrotica che egli stesso ha contribuito a creare nel corso dei secoli.
LanguageItaliano
Release dateMar 1, 2019
ISBN9788899660796
Sympathy for the devil: Il diavolo non è poi così male

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    Book preview

    Sympathy for the devil - Lily Lorenzini

    Margherita

    Capitolo primo

    La centrale di polizia era affollata come un Apple Store il primo giorno di distribuzione dell’ultimo gadget tecnologico, solo con qualche cellulare in meno. Nell’androne c’erano dei giovani agenti in divisa. Alcuni discutevano animatamente fra loro, altri cercavano di calmare due donne che, urlando e gesticolando, stavano combattendo agguerrite per far valere i propri diritti. Poliziotti in giacca e cravatta, più anziani, ingrugniti e agitati, entravano e uscivano dagli uffici, in un via vai frenetico di documenti, verbali e tazze di caffè. In un angolo, seduti e ammanettati, tre tipi dalle brutte facce imprecavano a voce alta contro la polizia e contro il mondo intero, mentre gli agenti che li stavano tenendo d’occhio li redarguivano urlando e colpendo le loro sedie con gli sfollagente a ogni parola di troppo. Sympathy un posto simile non l’aveva mai visto e la sua prima impressione fu quella di trovarsi in un girone infernale. A malincuore aveva dovuto seguire il giovane agente che era stato chiamato a portarla via dal luogo del misfatto. Se non altro non l’aveva ammanettata perché, parole sue, quando era arrivato sul posto l’aveva trovata piuttosto arrendevole. In realtà lei aveva avuto la netta sensazione che non l’avesse fatto solo perché l’aveva trovata piuttosto carina: a bordo della volante, in una profusione di sorrisi, l’aveva rassicurata e tranquillizzata ed era sembrato molto più interessato a chiederle un appuntamento che ad arrestarla. A ogni modo il risultato era stato lo stesso. Adesso si trovava lì, come una vera criminale, spaventata, disorientata, in attesa di sapere quale sarebbe stato il suo destino. L’unica cosa che le pareva certa era che non sarebbe stato dei più rosei. Quando in passato aveva combinato qualche guaio, se l’era sempre cavata con una ramanzina e un’ammonizione verbale ma questa volta aveva esagerato e ne avrebbe pagato le conseguenze.

    Il poliziotto le spiegò con estrema gentilezza che l’avrebbe portata in una cella dove avrebbe dovuto attendere di essere ricevuta dal procuratore distrettuale che, una volta esaminato il suo caso, avrebbe emesso la sentenza più adeguata. Lei annuì, un po’ intontita, e lo seguì docilmente. Non poteva fare altro. Si fermarono davanti all’ascensore che li avrebbe dovuti portare alle celle del piano inferiore ma dall’altro capo del corridoio un forte rumore seguito da un urlo fece trasalire entrambi. D’istinto si voltarono e si trovarono di fronte una scena surreale: un grosso coniglio bianco, o meglio, una persona con addosso un grottesco costume da coniglio di peluche, stava combattendo con tre agenti, avendo la meglio. Una gracile poliziotta afroamericana era appena stata scaraventata a terra da uno spintone. Un collega urlava chiedendo rinforzi mentre il coniglio lo teneva contro il muro per il collo con le grosse zampe pelose. Le lunghe orecchie ballonzolavano vorticando nell’aria a ogni tentativo di liberarsi dalla stretta da parte dell’uomo che, con voce strozzata, continuava a chiedere aiuto. Un terzo agente, nel frattempo, gli si era avvicinato con un taser ma l’uomo mascherato glielo fece saltare di mano con una ginocchiata. L’arma volò dritta in faccia a una bambina e quando la madre prese a urlare in preda al panico alla vista del sangue della figlia, il poliziotto che era con Sympathy non riuscì a trattenersi dall’intervenire.

    Fece alcuni passi in direzione della rissa ma gli insegnamenti ricevuti al corso di polizia, ancora freschi nella sua memoria, ebbero la meglio sull’impeto: prima di correre in soccorso dei colleghi in difficoltà era suo dovere assicurare l’arrestata. Prese Sympathy per un braccio e la strattonò in direzione di una porta qualche metro più in là. Tirò fuori dalla tasca una chiave, aprì velocemente la serratura e scaraventò letteralmente la ragazza all’interno.

    «Aspetta qui, non toccare niente!» le intimò e richiuse a chiave la porta lasciandola lì per correre all’attacco del coniglio impazzito.

    Lei rimase impalata per un attimo di fronte all’uscio chiuso. Dal corridoio arrivavano ancora urla e schianti. Si augurò di non sentire anche colpi di pistola, poi si voltò e cercò di mettere a fuoco l’interno della stanza in cui si trovava.

    Nella penombra riuscì a distinguere tre file di sedie di plastica fissate al muro, una libreria zeppa di fascicoli, alcuni armadietti di metallo e una felce mezza avvizzita in un grosso vaso di plastica. Doveva trattarsi di una sorta di sala di aspetto o di uno spogliatoio, non le era chiaro. Forse era uno sgabuzzino di fortuna, chissà. Di certo era meglio di una cella o del corridoio in cui in quel momento stava infuriando la battaglia contro il folle coniglio gigante.

    Si lasciò cadere a occhi chiusi sulla prima sedia a disposizione e rimase qualche istante così, senza riaprirli, cercando di rilassarsi, per quanto quella situazione glielo permettesse. Era stremata.

    La plastica della sedia era fredda a contatto con la pelle nuda delle cosce e un brivido le salì dall’orlo della gonna fino alla nuca facendole venire la pelle d’oca sulle braccia.

    Nello stesso esatto momento una voce maschile, che proveniva dall’altro lato della stanza, la fece trasalire. La frase che le rivolse suonò in un leggero accento straniero ma corretta e forbita e, in un certo modo, quel timbro le sembrò familiare: «La prego di scusarmi» disse, «Mi permetta di parlare con lei benché non siamo stati introdotti».

    Lei spalancò gli occhi e si guardò attorno. Eppure le era sembrato che non ci fosse nessuno quando era entrata. Invece, accanto alla pianta, comodamente seduto su una poltroncina Chesterfield di pelle nera che non aveva niente a che fare con lo scarno arredamento, quasi come se l’avesse portata lui da casa, c’era un uomo che la stava fissando. Sembrava divertito e le sue labbra erano incurvate in un lieve e curioso sorriso.

    «Stavo aspettando una persona per una questione di... lavoro, diciamo, e non ho potuto fare a meno di notarla. Davvero, non vorrei essere troppo indiscreto ma non posso non chiederle per quale motivo si trova qui» proseguì lui, noncurante del fatto che la sua presenza l’avesse chiaramente spaventata a morte.

    Era moro, leggermente abbronzato, indossava un completo nero di elegante fattura, un paio di occhiali da sole Oakley dalle lenti specchiate rosse e aveva con sé una cartella porta documenti di Louis Vuitton di pelle pregiata. Sembrava un avvocato. Uno di quelli dei quartieri alti.

    «Mi hai fatto prendere un colpo! Non ti avevo visto quando sono entrata!» gli rispose immediatamente lei, irritata, dandogli del tu e ignorando l’etichetta. Non era mai stata una persona diplomatica e non le parevano quelli il luogo e il momento per perdersi in leziosità.

    A ogni modo si ricompose sulla sedia scomoda drizzando la schiena e unendo le ginocchia. Sembrava un’alunna ripresa dalla maestra per mancanza di attenzione.

    Lui emise una netta risata teatrale.

    «Non era mia intenzione, davvero. Purtroppo mi capita spesso di fare questo effetto. È solo che l’ho vista qui, mi sembrava un po’... sperduta... e mi sono incuriosito».

    Si tolse gli occhiali, li fece scivolare sopra la testa e la fissò serio come se stesse per sottoporla a un interrogatorio.

    Nonostante la semioscurità della stanza lei poté vedere distintamente il suo sguardo, quasi scintillasse di luce propria. I suoi occhi erano chiarissimi, del colore del ghiaccio artico ed era impossibile dire se fossero più belli o inquietanti. Trasmettevano un’impressione di antica saggezza, sebbene lui dimostrasse non più di una trentina d’anni. Mentire di fronte a quello sguardo le sembrò un’impresa impossibile.

    «Ecco, cioè, ho...» esitò lei.

    «Ho ribaltato la scrivania del mio datore di lavoro... cioè... addosso al mio datore di lavoro»

    «Perché? Che le aveva fatto?» la incalzò lui con interesse.

    «Beh... lavoravo nel suo studio da sei mesi e non faceva altro che riprendermi... oggi non ero proprio in giornata, ero nervosa e quello non smetteva di urlarmi contro. A un certo punto non c’ho visto più e mi sono lasciata andare... è stato un attimo... una reazione esagerata, lo so, adesso me ne rendo conto... anzi, in effetti me ne rendevo conto anche mentre spaccavo tutto, ma non posso farci niente... a volte ho questi... questi scatti di rabbia spropositati... insomma, ho fatto un casino».

    Le venne quasi da piangere. Lui continuò a guardarla serio senza dire nulla. Ci fu una pausa di pochi infiniti secondi mentre i due si fissavano in silenzio e le sembrò che l’uomo leggesse tutto il resto nel suo sguardo. I suoi timori, i suoi dubbi, le sue speranze, tutto quello che aveva dentro. Sentì che non doveva aggiungere altro, emise solo un lungo sospiro chiudendo gli occhi e, allentando la tensione muscolare, si lasciò andare contro la sedia sentendosi svuotata. Sempre senza dire una parola lui guardò l’orologio, si alzò con calma, sollevò la cartella da terra e ne estrasse un biglietto da visita e, avvicinandosi, glielo porse.

    «Ovviamente ora le serve un lavoro e credo di avere quello che fa per lei. Mi chiami domani all’ora di pranzo. Al resto ci penso io, non si preoccupi, ma adesso devo proprio andare».

    Si diresse verso la porta e la aprì con naturalezza come se non fosse stata chiusa a chiave dall’esterno poco prima. Prima di richiudersela alle spalle, però, si voltò di nuovo verso di lei con un sorriso furbo e le fece l’occhiolino.

    Non appena fu uscito dalla stanza, Sympathy mise automaticamente in borsa il bigliettino senza nemmeno guardarlo.

    La natura e il senso di quella breve conversazione, nel contesto in cui si trovava, le sfuggivano e questo la lasciò interdetta. Un attimo dopo, senza che avesse avuto il tempo di figurarsi cosa fosse successo, sentì il rumore della chiave nella serratura della stessa porta che poco prima era stata aperta semplicemente abbassando la maniglia. Era il giovane agente che l’aveva portata lì. Sorrideva, nonostante avesse un taglio sanguinante sullo zigomo.

    «Ho un’ottima notizia per lei: se ne può andare immediatamente. Non verranno presi provvedimenti a suo carico, né penali né amministrativi».

    A quelle parole la ragazza si risvegliò dalla trance momentanea.

    «Posso andare a casa? Subito? Adesso?»

    «Sì, certo... anche se personalmente preferirei trattenerla per un caffè» scherzò lui.

    «Pare che sia intervenuta la sua buona stella... a ogni modo, qui c’è il mio numero».

    Aveva fra le dita il documento di Sympathy assieme a un foglietto di carta un po’ strappato.

    «Mi chiamo Matt. Mi farebbe piacere se mi chiamasse, potremmo andare a bere qualcosa una di queste sere, che ne pensa?»

    Sympathy nemmeno rispose, lo guardò, si alzò e schizzò fuori in direzione dell’uscita strappandogli dalla mano la carta d’identità e il biglietto. Lo lasciò impalato e un po’ deluso per non essere riuscito a suscitare in lei il minimo interesse ma in quel momento non riusciva a pensare ad altro che ad andarsene da lì, casomai avessero potuto ripensarci.

    Un attimo dopo era già in strada, respirando l’aria fresca a pieni polmoni. La consapevolezza di aver sfiorato la possibilità di perdere la sua libertà rendeva la cosa tanto inebriante che le venne voglia di correre verso la spiaggia.

    Il sole era allo zenit e la poca distanza dalla centrale di polizia al mare, percorsa correndo, le tolse il fiato al punto che, arrivata sulla sabbia, dovette fermarsi per riprendersi. Era sudata, con le dita livide avvinghiate alle ginocchia e la testa china a guardarsi le Vans di tela nera.

    Non è possibile! Non è possibile che mi abbiano rilasciato così su due piedi! pensò, Altro che buona stella, è stato quel tipo, per forza! Deve aver parlato con qualcuno e... ma come ha fatto? Chi è per poter fare questo? E perché?

    Era confusa. Non credeva ai colpi di fortuna, non le capitavano mai. Né tantomeno alle opere di bene senza secondi fini, e non riusciva a darsi una spiegazione di quello che le era successo. Si risollevò e andò a sedersi su una panchina di cemento all’ombra delle palme.

    Un ragazzo a pochi metri da lei suonava una melodia malinconica con il sax aspettando un pubblico e qualche dollaro di approvazione, sull’altro lato della strada una coppia di turisti scattava foto ai murales decorativi sulle facciate dei negozi di t-shirt e chincaglierie.

    Sympathy rovistò dentro la shopper che aveva con sé, cercando una risposta alle sue domande.

    Con estrema difficoltà e un paio di imprecazioni, sommerso fra specchio, spazzola, gomme da masticare, sigarette, scontrini vari e altre inutili e indispensabili cianfrusaglie necessarie per la sopravvivenza femminile, quando già stava pensando di averlo perso o solo sognato, finalmente saltò fuori il biglietto da visita:

    Luc Bamefot

    10211 Chrysanthemum Lane

    Bel Air, California 90077

    +1-424-8166642

    Non c’era scritto nient’altro. Solo l’indirizzo e il telefono. Era bianco, semplice, di carta ruvida e resistente e non presentava il minimo indizio relativo al lavoro o a qualsiasi tipo di attività del suo proprietario. Nient’altro che un misterioso benefattore europeo pensò, rigirandosi il bigliettino tra le dita. La sua vita stava andando a rotoli e gli unici eventi positivi erano al di fuori del suo controllo o le risultavano incomprensibili. Si sentiva impotente. E disperatamente sola. Sollevò lo sguardo verso il mare, si perse per un attimo lontano, all’orizzonte, oltre le onde che scintillavano sotto al sole.

    ***

    Dopo essere uscita dalla centrale di polizia si era fatta coraggio e aveva telefonato all’unica collega con cui aveva avuto modo di stringere amicizia. La incontrò la sera stessa vicino alla sede del vecchio ufficio per farsi portare le sue cose, soprattutto le chiavi della macchina.

    La donna la rincuorò, guardandola con affetto da dietro le lenti spesse e tonde dei suoi enormi occhiali da vista: nessuno era mai riuscito a sopportare il loro capo e tutti sognavano da sempre di fare quello che aveva fatto lei.

    Si fecero una bella risata al pensiero di come le foto incorniciate dei figli e della moglie di quel vecchio odioso fossero volate contro lo specchio fissato alla parete, mandandolo in mille pezzi, e della faccia che lui aveva fatto prima di realizzare cosa stesse succedendo per poi urlare chiamate la polizia! con il volto paonazzo e i capelli dritti.

    Era un uomo di una bella stazza, ma una piccoletta di un metro e cinquantacinque come lei gliel’aveva fatta fare letteralmente addosso dalla paura, concordarono le due ridendo.

    Ripensarci in quei termini, certo, l’aveva messa un po’ più di buon umore, ma restava il fatto che adesso avrebbe dovuto cercare un nuovo lavoro. L’ex collega alla fine le fece gli auguri e le assicurò che se fosse venuta a conoscenza di qualche impiego vacante l’avrebbe certamente avvisata. Erano cose che si dicevano per gentilezza ma che poi nessuno faceva mai, pensò Sympathy. Si sarebbe dimenticata di lei nel giro di qualche giorno, come succede sempre. Tuttavia la ringraziò con un abbraccio e un saluto per gli altri colleghi e si allontanò dalla tavola calda con la scatola dei suoi effetti personali fra le braccia.

    Una volta tornata a casa non la tirò nemmeno fuori dal portabagagli della macchina, entrò in cucina, bevve una birra e si buttò a letto addormentandosi quasi subito, non senza prima aver pensato, melodrammatica come una moderna Rossella: domani è un altro giorno.

    ***

    Il mal di testa con cui si svegliò la mattina dopo le ricordò impietoso che lei non era l’eroina di Via col vento e che il nuovo giorno si prospettava anche peggiore di quello passato.

    Dalla cucina al piano di sotto proveniva il chiasso di persone che armeggiavano con i fornelli ridendo e, quel che era peggio, facendolo ad alta voce. Già normalmente appena alzata non aveva voglia di sentire baccano e di sicuro quello non era il momento per aver a che fare con gente che faceva festa. Tutto quello che voleva era un caffè. E magari farsi un bel pianto liberatorio, anche se sapeva che quello le sarebbe risultato molto più difficile. Trovare persone in casa le sembrò un incubo ma doveva raggiungere quel caffè, per cui si fece coraggio e scese al piano di sotto.

    Quando la videro, i ragazzi la salutarono con quelle che le risultarono urla animalesche e suoni gutturali, nonostante fossero solo innocue e gioviali espressioni di benvenuto. Erano i suoi amici o, meglio, gli amici di Eryn, la sua coinquilina. Li conosceva tutti, era uscita spesso con loro, ma se non fosse stato per l’amica che faceva da collante li avrebbe persi di vista in men che non si dica. Stavano preparando il pranzo. Erano allegri. Lo erano sempre, del resto... Come facevano a esserlo, per lei era un mistero.

    «Eryn! Ma è possibile che questa casa sia praticamente una comunità almeno sei giorni a settimana? Sembra di stare in un centro sociale!» non appena ebbe terminato la frase si rese conto che ai loro occhi doveva essere apparsa come la perfida strega dell’Est che compare a rovinare la festa nel paese dei Munchkin, ma ormai era fatta. Del resto sapeva che la chiamavano Mercoledì Addams quando non c’era, per cui niente di nuovo. Decise di restare nella parte e, imbronciata, si fece largo fra i ragazzi cercando di raggiungere la sua tazza per versarci il caffè.

    Nella stanza era calato il silenzio. Al suo passaggio si scansarono uno a uno come se si fosse trattato di un’appestata. Max, il ragazzo di Eryn, la guardò preoccupato passargli accanto perché la conosceva bene e temeva che potesse esplodere da un momento all’altro. Lei se ne accorse e lo rassicurò: «Tranquillo fratello, non ho le energie questa mattina per mettermi a spaccarvi piatti in testa, passami lo zucchero e me ne vado fuori a fumare una sigaretta».

    Aveva i capelli dritti che schizzavano in tutte le direzioni fuori dal mollettone che si era sistemata sulla testa cercando inutilmente di darsi un tono. Sembrava una fontana di fibre ottiche accesa. Accesa e incazzata. Lui non disse nulla e le passò il barattolo con un gesto meccanico. Eryn posò i piatti sul tavolo e intervenne il più delicatamente possibile.

    «Dai, Sym, non fare la guastafeste! Mangiamo tutti insieme e poi ce ne andiamo al mare. Oggi siamo tutti liberi, ne approfittiamo!»

    Sympathy non le rispose, sorseggiò il caffè bollente fissandola inebetita quasi come se non la conoscesse. L’amica non si lasciò scoraggiare e continuò l’attacco: «A proposito... tu come mai non sei al lavoro? Che è successo? Stai male?»

    Max nel frattempo si era allontanato con la scusa di aiutare ad apparecchiare la tavola perché probabilmente non si fidava delle rassicurazioni ricevute poco prima.

    Gli altri si misero a discutere fra loro sui tempi e le modalità della cottura della pasta, cercando di fare come se niente fosse ma, tanto per non correre rischi, fecero tutto a bassa voce. Sympathy, dopo un altro sorso di caffè, finalmente si scosse un poco, portò l’amica in giardino e le raccontò tutto: il licenziamento, la stazione di polizia, il tipo strano che l’aveva salvata dall’arresto.

    «Oh, cazzo, Sym, quanto mi dispiace!» disse la brunetta, sinceramente dispiaciuta.

    Le due ragazze erano molto diverse sia caratterialmente che fisicamente. Eryn era molto più alta di Sympathy, scura di carnagione, formosa e sempre sorridente e disponibile con tutti. Era a Los Angeles perché come tanti voleva diventare un’attrice e lavorava come cameriera per un’agenzia di catering per tirare avanti. Anche se non era la sua aspirazione, le piaceva. Amava stare a contatto con la gente.

    Sympathy era minuta, aveva un fisico asciutto, grandi occhi verdi e un’enorme massa di capelli biondissimi, impreziosita da ciocche multicolore che la rendevano simile a una fatina fantasy. Il suo aspetto grazioso, però, non aveva niente a che vedere con il suo carattere. Odiava la gente e avrebbe preferito andare a chiedere l’elemosina piuttosto che fare il lavoro dell’amica.

    «Ma questo tipo ha detto di avere un lavoro da offrirti, no?»

    Anche Eryn si accese una sigaretta, «Chiamalo, che aspetti?»

    «Mah, non lo so... mi è sembrato così strano... e non ho la minima idea di che lavoro abbia in mente»

    «Ti sembra un pervertito? Ti ha dato l’impressione del maniaco, forse?»

    «No, quello veramente no... però che ne so se poi quando vado da lui mi fa trovare una stanza delle torture sadomaso alla Mr. Grey?»

    Le ragazze scoppiarono a ridere.

    In realtà tutte e due erano sempre state d’accordo sul fatto che a trovarlo, un fico stramilionario come il protagonista delle Cinquanta sfumature... sarebbero state entrambe ben liete di prendersi qualche frustata ogni tanto.

    «Ok dai, tu chiamalo, senti che ti dice. Se decidi di incontrarlo mi dai l’indirizzo e, se vedo che dopo un po’ non torni, vengo a cercarti con il tuo poliziotto spasimante di ieri. Sai come sarebbe contento di venire a salvarti dal maniaco? Sarebbe la sua giornata fortunata, promozione sul campo e appuntamento garantito con te. Almeno uno lo facciamo felice!»

    Sympathy ci pensò un attimo, alla fine cosa aveva da perdere? Al massimo un paio d’ore per fare il colloquio, ma di tempo libero ne aveva in abbondanza, ormai.

    «Ok, hai ragione, adesso lo chiamo poi ti dico».

    Eryn batté le mani.

    «Grande la mia migliore amica che non si perde mai d’animo! Vai a telefonare, io torno dagli altri che ho una fame! Ci vediamo dopo» e tornò in cucina.

    Sympathy salì in camera sua e accese lo smartphone. Si sedette sul letto, compose il numero riportato sul biglietto da visita e attese.

    La voce dal lieve accento francese che rispose era senza dubbio quella del tipo che aveva incontrato il giorno prima alla centrale, con la sola differenza che adesso le sembrò infastidito e sveglio da poco.

    «Sì, chi è?»

    «Ah, ehm... salve, mi scusi, ieri mi ha dato il suo biglietto e mi ha detto di chiamarla all’ora di pranzo. Ehm... non so se è troppo presto, è mezzogiorno, molti pranzano a quest’ora ma non tutti, cioè...»

    «Con chi parlo, mi scusi?»

    «Ah, già... che stupida! Lei non ha il mio numero, come fa a sapere chi sono... sono Sympathy, Sympathy Liddell»

    «Liddell? Conoscevo una Alice Liddell, un po’ di tempo fa. È una parente? Qualcuno per caso ha scritto un romanzo anche per lei?»

    «No, veramente non conosco nessuna Alice e nessuno ha mai scritto nulla per me che io sappia... ci siamo incontrati ieri, alla centrale di polizia»

    «Ah, sì. Adesso ricordo. La signorina dai bollenti spiriti. È stata rilasciata subito, vero?»

    «Sì! Sì! Anzi, a proposito, l’ho capito che è stato merito suo, non so proprio come ringraziarla! Non so come abbia fatto, ma mi ha davvero salvato il culo... scusi la schiettezza»

    «Si figuri, è sempre un piacere sentir parlare in aramaico di questi tempi!» fu la risposta di lui, seguita da una risata squillante.

    Sympathy si mortificò un poco rendendosi conto della sua gaffe, nonostante non avesse capito appieno la battuta.

    «Comunque, al di là del suo linguaggio colorito, non c’è di che. Il comandante della centrale è mio amico, mi deve tanti di quei favori! È stata una sciocchezza per me. E poi volevano arrestarla. Ma noi abbiamo altri progetti, o sbaglio? Dobbiamo parlare di lavoro. Ce la fa a essere a casa mia fra un’ora?»

    Lei rimase a bocca aperta. Quel volevano arrestarla,

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