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Schema di morte
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Schema di morte

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Una bambina di nove anni viene brutalmente uccisa. La ricerca del suo assassino è affidata al commissario Mara Nicolosi e alla sua squadra. Il lavoro investigativo procederà secondo i canoni classici del racconto giallo: indizi, sospettati, interrogatori. Le piste s’ingarbuglieranno quando, nella stessa zona e poco tempo dopo, avviene un secondo omicidio. Alla complessità dell’indagine poliziesca fa da sfondo il racconto di luoghi in cui si muovono una galleria di personaggi delineati ora con schizzi veloci ora con ritratti attenti ai diversi caratteri. Il realismo della storia è accentuato dal gioco  linguistico in cui ciascuno si esprime secondo il proprio registro, con espressioni legate al territorio di provenienza. Nella tessitura della trama poliziesca si inseriscono dei flashback senza spezzare il filo della narrazione, che prende e avvolge il lettore tenendolo col fiato sospeso fino allo scioglimento finale. 
Schema di morte è il secondo romanzo che ha come protagonista il commissario Mara Nicolosi 
 
LanguageItaliano
Release dateMar 8, 2019
ISBN9788832535280
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    Schema di morte - Annamaria Naso

    Il libro

    Una bambina di nove anni viene brutalmente uccisa. La ricerca del suo assassino è affidata al commissario Mara Nicolosi. Il lavoro investigativo procederà secondo i canoni classici del racconto giallo: indizi, sospettati, interrogatori. Le piste s’ingarbuglieranno quando, nella stessa zona e poco tempo dopo, avviene un secondo omicidio. Alla complessità dell’indagine poliziesca fa da sfondo il racconto di luoghi in cui si muovono una galleria di personaggi delineati ora con schizzi veloci ora con ritratti attenti ai diversi caratteri. Il realismo della storia è accentuato dal gioco linguistico in cui ciascuno si esprime secondo il proprio registro, con espressioni legate al territorio di provenienza. Nella tessitura della trama poliziesca si inseriscono dei flashback senza spezzare il filo della narrazione, che prende e avvolge il lettore fino allo scioglimento finale. Schema di morte è il secondo romanzo che ha come protagonista il commissario Mara Nicolosi.

    L’autrice

    Annamaria Naso è nata a Messina. Si è laureata in lettere e ha iniziato a insegnare giovanissima.Ha vissuto in diverse città d’Italia: Messina, Mantova, Brescia, Firenze, Roma, Pisa. Oggi vive in Toscana, a Cascina.

    Ha collaborato al giornale Il Nuovo Soldo e da alcuni anni si dedica alla carriera di narratrice.

    Il suo primo romanzo, La chiave di violino (2013), è stato pubblicato dalla casa editrice Agemina e oggi è alla sua quarta ristampa. Del libro è stato realizzato un trailer, presentato al Pisa book Festival di Pisa.

    I suoi racconti, Testimone invisibile (2014) e Luce improvvisa (2015), sono stati pubblicati nelle antologie curate da Historica edizioni.

    La si può trovare sul suo sito www.annamarianaso.it.  

    Annamaria Naso

    Schema di morte

    Historica Edizioni

    Narrativa

    © 2019 Annamaria Naso, Historica Edizioni

    Direzione editoriale di Francesco Giubilei

    Progetto grafico di Historica Edizioni

    Prima edizione digitale

    febbraio 2019

    a Marco e a Mariangela

    Prologo

    Patrizia era scomparsa venerdì pomeriggio dalla piazza del paese dove ogni giorno giocava con gli altri bambini. Aveva nove anni.

    La madre, vedendo che tardava a rientrare, aveva iniziato a preoccuparsi. In preda a un’ansia crescente era andata allora a cercarla, ma sembrava che nessuno l’avesse vista. Il padre aveva fatto il giro delle vie intorno, però di Patrizia si erano perse le tracce e sembrava essere svanita nel nulla.

    A quel punto era stato dato l’allarme e avvisata la polizia. La squadra dei volontari, amici e parenti si erano mossi immediatamente per rintracciare la bambina, e una sua foto era stata distribuita. Poco dopo, appena si era sparsa la notizia, anche molti abitanti del paese si erano uniti a loro nelle ricerche con la solidarietà tipica dei piccoli centri dove, in una situazione di emergenza, si può contare sull’aiuto di tutti.

    La polizia municipale aveva avvertito della scomparsa la centrale in città e chiesto rinforzi, nell’attesa aveva coordinato il soccorso, radunando i volontari e dividendoli in gruppi di cinque, sei persone, per controllare la zona.

    Intanto cominciavano a scendere le prime ombre della notte.

    Erano stati setacciati per ore senza sosta, anche alla luce delle torce elettriche, i sentieri intorno al paese, le campagne e i boschi, i ruscelli fino alle rive del lago nel timore che la piccola, non si sa come, potesse essere arrivata all’acqua; alcuni si erano spinti ai ruderi delle vecchie calchère abbandonate, le fornaci utilizzate in passato per la produzione della calce.

    La ricerca non aveva dato però alcun esito.

    Durante la notte era arrivato anche un cane dell’unità cinofila della polizia, un labrador nero, anziano, ma dal fiuto infallibile, esperto nel ritrovamento in superficie di persone scomparse; la bestia, spronata dal suo conduttore, aveva girato prima intorno alla casa della bambina e poi a lungo per la piazza del paese, alla fine si era fermata davanti alla saracinesca chiusa della gelateria, ultima tappa certa della piccola.

    Lì, come ogni pomeriggio, Patrizia era andata insieme agli altri bambini a prendere il gelato.

    Tutti aspettavano con grande speranza l’arrivo di un elicottero di soccorso, che avrebbe sorvolato la zona per cercare qualche traccia nelle vie impervie intorno al paese; il mezzo era dotato di una camera a radiazione infrarossa, strumento che permette in ambienti bui o poco luminosi la visione notturna di qualsiasi oggetto, altrimenti invisibile all’occhio umano, e che viene utilizzato anche per la ricerca di persone scomparse, come in questo caso.

    La disperazione e l’angoscia per la sorte della bambina aumentavano, la madre era sotto shock e il medico aveva dovuto somministrarle un sedativo.

    Alle prime luci dell’alba non era stato trovato ancora nessun indizio, assolutamente nulla.

    Prendeva sempre più corpo l’idea di una disgrazia.

    PRIMA PARTE

    Agosto

    Capitolo 1

    Il buio della notte cedeva pian piano il posto al chiarore rosato dell’alba. L’auto procedeva rapida e silenziosa sull’autostrada semideserta; la pianura ai lati della carreggiata scorreva piatta e monotona, una leggera foschia appena visibile si levava dalla terra illuminata dalla luce incerta del mattino.

    I trattori, sfruttando le ore fresche, avrebbero iniziato ben presto il lavoro quotidiano nei terreni agricoli divisi in una griglia di canali d’irrigazione poco profondi o separati da lunghi filari di alberi.

    A destra e a sinistra scivolavano via veloci e si disperdevano casolari, case diroccate e grossi capannoni utilizzati come stalle, circondati da basse recinzioni di legno per le bestie. Ogni tanto s’intravedevano macchie rettangolari di alti pioppi dalle chiome svettanti verso l’alto, tutti perfettamente allineati: falangi macedoni dalle lunghe picche, schierate nella pianura.

    Il sole ancora non era comparso, ma la luce si andava spandendo sempre più sulle terre grasse e scure, appena arate e pronte per la semina, che si alternavano a quelle coltivate a mais o a girasoli ormai maturi.

    Il commissario Mara Nicolosi guidava rilassata ascoltando musica, stanca solo un po’ per il viaggio notturno; alla sua età, a trentasei anni, lunghe distanze da percorrere in macchina non rappresentavano certo un problema. Una volta arrivata a casa, una doccia e un buon sonno l’avrebbero rimessa a posto.

    Dai finestrini abbassati dell’auto le arrivava alle narici la disgustosa puzza tipica dello stallatico, il letame fertilizzante sparso sui campi, che ammorbava l’aria per chilometri e chilometri.

    Il suo occhio talvolta volava fuori, inquadrava scheletrici tralicci e pali della luce che si susseguivano regolari, perdendosi nella profondità di campo, distanziati e al tempo stesso uniti da funi tese. Indistinte macchie nere se ne stavano appollaiate immobili, in attesa dell’alba.

    La donna scrutava l’orizzonte pronta a individuare alla lontana le cime delle montagne, segno della fine del suo viaggio. Avvicinandosi al casello di uscita dall’autostrada poteva riconoscere il Monte, che sovrastava la città e ne era il polmone verde.

    L’inverno precedente aveva risolto un difficile caso di omicidio, avvenuto proprio in una villa sul Monte, che aveva impegnato lei e la sua squadra investigativa: l’assassinio del maestro Altieri, un famoso musicista, conosciuto e apprezzato in tutto il mondo.

    Il sole ora splendeva e aveva dissolto tutte le ombre della notte e le sfumature rosate dell’alba.

    Aguzzando la vista, anche a grande distanza, distingueva tra le cime diseguali e il verde della fitta vegetazione quella che i locali chiamano la tomba del cane, una costruzione in marmo bianco dominata da un’alta e slanciata guglia. Secondo la tradizione popolare il sarcofago di questo tempietto sepolcrale contiene non spoglie umane, ma il corpo di un cane. Ogni volta la vista di quella specie di monumento la faceva sentire a casa.

    La stessa sensazione la provava quando, dopo il lungo viaggio in macchina verso la Sicilia, la segnaletica autostradale le indicava Bagnara Calabra e i quindici chilometri che mancavano all’imbarco sul traghetto, per attraversare ù Strìttu, e arrivare.

    Allora le tornava alla mente il tempo sereno dell’infanzia, quando in estate andava a trascorrere qualche giorno dai parenti, che vivevano in Calabria. Durante il tragitto sua nonna, che era una grande affabulatrice con il dono di saper raccontare, emozionando chi l’ascoltava, la intratteneva sempre con delle storie bellissime e questa capacità preziosa aveva creato con la nipote un rapporto particolare, come accade talvolta tra nonni e nipoti.

    Una delle storie che Mara preferiva, e non si stancava mai di ascoltare, era quella delle  bagnarote dette anche femminòte, le donne di Bagnara.

    Erano figlie del popolo, fiere, statuarie, di grande forza fisica e di animo; andavano scalze, camminavano dritte e sicure, ancheggiando i fianchi, con portamento regale per l’abitudine di tenere in equilibrio sul capo ì cofàne, ceste rotonde a sponde basse per le merci da vendere o barattare. Tra la testa e a cofàna mettevano a curùna, una spessa corona di stoffa intrecciata necessaria per proteggere e attutire il contatto. Le lunghe trecce dei capelli scuri e folti, raccolte sulla nuca da forcine e mollette, come si usava un tempo, venivano coperte da fazzolettoni annodati dietro; tutte portavano camicette pulitissime di cotonina aderenti al busto, sbottonate al collo, con le maniche arrotolate da cui spuntavano avambracci resi robusti dal lavoro e dalla fatica. Erano, estate e inverno, abbronzate con la pelle indurita e bruciata dal sole, ma dalle pieghe del corpetto s’intravedevano rotondità candide e lisce, che restituivano a queste infaticabili donne femminilità e bellezza.

    Le loro gonne, formate da cinque ampie sottane, scendevano lunghe fino al polpaccio. Tra le pieghe dei vari strati venivano nascosti sacchetti di plastica trasparente di forma cilindrica, duri e pesanti, che contenevano sale, che in questo modo contrabbandavano dall’isola al Continente, insieme ad altre merci, passando sul ferribo’.

    La nonna una volta le aveva raccontato che, quando lei stessa era ancora una bambina, aveva visto una di queste bagnarote che, camminando, lasciava sulla strada senza accorgersene una lunga striscia bianca di sale: le si erano bucati i sacchetti nascosti sotto le gonne e così perdeva il suo prezioso carico.

    Mara sentiva l’eco delle risate con cui si concludeva il racconto e, persa tra questi ricordi, percorreva gli ultimi chilometri.

    Arrivata a Scilla, all’uscita della galleria, le appariva improvvisa e maestosa la Sicilia e, se la giornata era limpida, la sagoma delle Eolie in lontananza. Guardava emozionata, come fosse la prima volta, il confine dell’isola tra mare e terra, segnato dalla schiuma bianca delle onde che si ripetevano incessanti, stendendosi placide verso la costa nella calmerìa di scirocco. Sentiva sul volto il caldo vento familiare che trasportava una brezza salmastra, impregnata dal profumo inconfondibile di mare, un insieme di salsedine, alga, pesce, zolfo, ù mègghiu ciàuru dù mùnnu, che lei respirava a pieni polmoni.

    Una forte turbamento ogni volta la prendeva a quella vista, la stessa di chi si trova davanti un’opera sublime della natura o dell’uomo e l’ammira, incantata da tanto splendore.

    La striscia di terra bassa di Capo Peloro, o Torre Faro come la chiamano i locali, sembra protendersi sul mare verso la sponda calabra, sovrastata da un alto traliccio dell’Enel a larghe fasce bianche e rosse, ù pilùni, uguale all’altro sul versante opposto.

    Un tempo, quando ancora erano in uso, nelle giornate di scirocco si poteva sentire ù dìru dei piloni, la voce dei fili elettrici, simile a un ululato dalla tonalità cangiante, a seconda della forza del vento.

    Per branchi di iridescenti delfini e di numerose specie, lo Stretto di Messina rappresenta da tempi remoti un punto fondamentale di transito, una delle principali direttrici migratorie del mar Mediterraneo; nel mese di luglio vi passano gli agili pescispada, perché nel canàli depongono le uova.

    Quel braccio di mare collega, facendoli scontrare, il mar Tirreno col mare Ionio e mantiene da millenni inalterata la sua fisionomia naturale.

    Gorghi schiumosi rendono infida, oggi come un tempo, la navigazione delle piccole barche che osano sfidare l’antico Fato e affrontare il canto delle Sirene, senza cera alle orecchie e senza legature all’albero. Gli scogli, siculo e calabro, testimoni di rivalità primordiali tra i due popoli, chiudono lo Stretto quasi in un abbraccio.

    Una volta imbarcata sul traghetto, Mara con lo sguardo poteva seguire la linea dell’orizzonte e individuare spazi a lei familiari, come sanno esserlo solo i luoghi dove si è nati e cresciuti. Il vecchio faro bianco e nero in disuso da decenni, la magnifica terrazza della casa degli amici che abitavano proprio alla Punta, dove a ogni ritorno trascorreva serate tra buon cibo e storie di pesca, in quieti ed estatici colloqui, mentre la luna madreperlacea risplendeva candida nel cielo, specchiandosi nei due mari.

    A metà traversata sarebbe riuscita persino a distinguere, sebbene ancora lontana dall’approdo, tra l’ammasso di cemento in cui affogava la città, i grandi tendoni da sole bianchi che proteggevano i terrazzi e i balconi della sua casa che guardava lo Stretto dall’alto.

    Capitolo 2

    La sera prima, giovedì, Mara era partita dall’isola per rientrare al lavoro, dopo aver trascorso tre settimane al mare con la famiglia e con gli amici di sempre; giornate intere in spiaggia a lasciarsi abbrustolire dal sole, come una lucertola, in completo relax, senza altra occupazione che una lettura o la semplice visione contemplativa dell’orizzonte, qualche interminabile partita a tressette, il suo gioco preferito, all’ombra del pergolato della villetta al mare dei genitori, e passeggiate con Ringo e Alice, i suoi cani, lungo la riva di spiagge deserte.

    Poi la sera a casa di questo o di quello per una focacciata oppure a mangiare il pesce in una delle tante trattorie sul mare dove, mentre si cena, arriva il rumore della risacca e lo sguardo scivola sulle luci brillanti della costa calabra di fronte. Qualche volta una puntata notturna a Taormina, altre uno spettacolo o un film nel cinema giardino all’aperto, luogo storico della città che aveva visto crescere generazioni di giovani con vecchi film, sempre gli stessi, riproposti un anno dopo l’altro.

    L’estate era il momento in cui tutti coloro che come lei erano andati a lavorare e vivere altrove tornavano: agli affetti, al mare, ai profumi, ai colori, ai sapori della Trinacria.

    Si ritrovavano con gli amici a prendere l’immancabile granita, mènza cà panna, e fare due chiacchiere come un tempo, ma nulla era più come un tempo. Tutto è lo stesso e mai è lo stesso.

    Chi era andato via e tornava, dopo un paio di giorni, quando la gioia del ritorno lentamente scemava, cominciava a criticare la città. La rassegnata inefficienza che regnava come un tempo, come sempre, ora risultava intollerabile.

    Chi invece era rimasto mal sopportava i commenti di quelli che vivevano fuori e  ritornavano con l’aria del continente sentendosi, secondo loro, nordici.

    Come sempre la partenza era stata velata dalla malinconia, perché sua madre non si sarebbe mai rassegnata ad averla lontana: Mara era la sua unica figlia.

    La decisione di entrare in polizia dopo la laurea aveva creato per la prima volta disaccordi in famiglia, superati pian piano e con fatica. I genitori non riuscivano a capire

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