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Giornalisti all’inferno
Giornalisti all’inferno
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Giornalisti all’inferno

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Carlo è un giornalista cinquantenne, con una vita sofferta, un’ex moglie cui è ancora molto legato e un dissidio interiore, affrontato lungamente in analisi, che emerge di frequente nei suoi rapporti conflittuali con la professione e il potere. Si ritrova all’improvviso accusato di un omicidio avvenuto diversi anni prima, probabilmente legato a un oscuro evento del suo passato tormentato. 
Nella sua vita tutto assume sfumature incerte e inquietanti, intorno a un’umanità disperata e irredimibile, segnandolo ancora di più come un antieroe inconsolabile, imploso in una cosmica solitudine e in un’abissale irresolutezza.

Andrea Manzi, giornalista, già redattore capo de “Il Mattino” di Napoli, ha fondato e diretto il quotidiano “la Città” ed è stato vice direttore del “Roma”. Autore di saggi e di libri di poesia, scrive da anni per il teatro. È co-autore di Gesù è più forte della camorra (Rizzoli, 2010; Europa Edizioni, 2018), dal quale ha tratto un testo teatrale in via di allestimento. Presiede l’associazione “Ultimi” per la legalità e contro le mafie. Giornalisti all’inferno è la sua prima esperienza narrativa.
LanguageItaliano
Release dateMar 9, 2019
ISBN9788855080712
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    Giornalisti all’inferno - Andrea Manzi

    1994)

    Capitolo I

    «Mi dice l’ora?».

    «Le tredici».

    Aveva dormito trenta minuti, dimentico di quello schifo di treno. Tanfo di cibo e muffa, un pugno in faccia. Sul velluto spelacchiato del sedile, persino una buccia di banana. Di fronte a lui è sparito il ciccione che gli aveva chiesto il giornale, poi reso senza nemmeno ringraziare. Quasi quasi a questo lo picchio, il primo attacco di bile venuto guardando quella pasqua del dirimpettaio, tizio abulico, pienotto, serafico. Inquietante. Al suo posto ora c’è una giovane donna – occhialini e scollatura non proprio di ordinanza per questi luoghi di preti, gelosia ossessiva e delitti passionali.

    Le tredici? Boh! Stiracchia le braccia, spinge il petto in avanti, accompagna il risveglio con uno dei suoi larghi sbadigli. Gallerie brevi inghiottono il treno che ne esce fischiando. Luci e buio si rincorrono come i suoi stati d’animo. La misurata felicità e gli slanci di buonumore della mattinata finiscono sopraffatti, nei tunnel, da una cupezza opprimente.

    Non vorrebbe ammetterlo, ma qualcosa gli dice che il suo equilibrio sta per saltare. E se salta, non riuscirà a ripristinarlo senza un aiuto, ormai lo sa bene. E il dubbio: è tutto ok o sta tornando il demone? Due voci uguali e contrarie, la prima mielosa, la seconda fottutamente amara.

    «Una caramella?».

    La signora dal prorompente davanzale gli porge il pacchetto di Ricola. Bene, quell’offerta è segno che il mondo non lo ignora, ma lui non può ammetterlo quando il meteo interiore segnala burrasca.

    «Grazie, no» si affretta, senza staccare gli occhi dal cellulare.

    La donna abbozza un sorriso, si rintana.

    I due tornano estranei.

    Gli invia, l’oscurità, segnali torbidi e sente sul petto la stretta che lo aveva spedito, per prudenza, più volte dal cardiologo.

    L’aria si condensa in una nebbia lattiginosa e irrespirabile. Almeno, a lui così appare. Una sensazione antica, da anni a malapena controllata, minacciosa gli si riaffaccia nella mente, come accadeva ai tempi delle rimozioni che spedivano in soffitta il demone per riattirarlo più cupo nella mente quando meno se lo aspettava.

    Forza, luce e sole, tornate nello scompartimento, gli riequilibreranno l’umore che salterà nuovamente, nella galleria successiva. Alti e bassi, come ormai non gli accadeva più.

    Il giorno prima aveva vissuto una analoga situazione, entrare e uscire da un dolore muto. Gli era accaduto, per la precisione, passando dal buio della camera da letto alla finestra dello studio dalla quale andava a godersi il tramonto.

    Nuotare nel nulla è terribile, pensa.

    I suoi compagni di viaggio dormono. La signora legge.

    Nel vagone mancano i punti di riferimento, proprio come nella mente: una sensazione che gli ricorda il mare nel quale da ragazzo si affrettava a bracciate nervose quando gli prendeva la paura di morire (o di impazzire, per lui un po’ la stessa cosa). In quei frangenti il mare non offriva approdi e si allungava nell’infinito.

    Pensa e suda. Sta oltrepassando il confine, è chiaro. Tenta un aggancio con il mondo.

    «Me la dà, ora, la caramella?».

    Senza guardarlo in viso, la signora tira fuori il pacchetto dalla borsa e glielo porge. Chiusura ricambiata. Lui, lucido esaminatore degli atti altrui, non intravede più il ponte che collega gli sconosciuti, immaginato sempre come un percorso sul mare mosso della vita, percorso fatto di sguardi, sorrisi, magari un assenso, robetta appunto da scompartimento ferroviario, utile solo per non sentirsi... solo.

    Prende la caramella dalla scontrosa signora, decide di fottersene del suo voltafaccia, la succhia, la frantuma, avido la ingoia. Si ritrova però madido di sudore e con il groppo in gola.

    Che cazzo mi accade?

    Nemmeno il tempo di chiederselo e il cuore prende a battergli come ai tempi in cui pulsava a raffica. Colpi di maglio con rimbombo, il petto diventava vuoto, non sentiva il sangue, nulla, proprio nulla, forse perché in quelle circostanze si perde ogni cognizione di avere dentro di sé il cuore, le vene; e, così, una cassa toracica senza il cuore diventa una cassarmonica, luogo cavernoso dove un aggeggio stupido, che pensi sia un transistor, produce tonfi ad alta frequenza con rimbombo nelle tempie.

    Suda sempre di più, è sudore freddo, sembra ghiaccio. Si passa l’indice sulla fronte, porta il dito bagnato sul labbro inferiore. La temperatura la misura così, imitando la mamma, ed anche questa volta immagina che non superi i 35 gradi.

    Sarà infarto.

    Non gli viene in mente che sia semplicemente panico, eppure momenti del genere ne ha già vissuti. Purtroppo, mentre il male attraversa il corpo, nessuno pensa alla mente come causa del problema.

    Carlo ha paura che si stia ripresentando il disagio che per anni gli anticipava le crisi. Ricorda di dover attuare una strategia, l’ultimo espediente che gli resta tra i possibili sistemi di autoaiuto appresi.

    Fai una fantasia, suggeriva il terapeuta, quando circostanze analoghe si presentavano anche per più volte al giorno. Doveva abbandonarsi a un desiderio e viverlo come fosse realtà. «Fantasie di realtà» le chiamava il dottore. Così, lui fronteggiava gli attacchi di panico e, più tardi, i conflitti di realtà.

    Stavolta, però, non riesce a rifugiarsi tra le ombre animate.

    Fai una fantasia, il consiglio che ben presto divenne la forma estrema di sopravvivenza nei casi di necessità, ma non sempre quell’espediente riusciva a calmarlo.

    Il treno avanza a fatica, brusche e continue fermate dilatano i tempi. «Già mezz’ora di ritardo» sentenzia la signora dirimpettaia dopo aver interpellato l’orologio. Poi, fissando a lungo Carlo, gli gira il coltello nella piaga: «Ha qualche problema? È così pallido».

    «Perché?» la risposta allarmata sta per una secca diffida: come osi pensarmi malato? Un nevrotico, se smascherato, perde la bussola e finisce per sentirsi male, anche se sta bene. Carlo, poi, è maledettamente ipocondriaco, quindi i pensieri di morte gli si mettono in moto facili.

    Realizza dunque che il suo malessere è visibile né pensa di poterlo dissimulare, gli viene in mente lo scacco, la trasparenza dell’inferno nel quale naviga, ne prova vergogna. Nega a se stesso il sostegno della fantasia liberatrice. Meglio servirsi degli altri, pensa e rilancia.

    La signora di fronte ha ripreso a leggere con avida curiosità. Annuisce e, con sorrisi meravigliati, gusta quello che, verso la metà pagina di destra, deve essersi rivelato un racconto dai frequenti colpi di scena. Pensa di non distoglierla, c’è stato un silenzio troppo lungo dopo il perché incredulo e interrogativo rivoltole, e tenta così l’approccio con l’uomo che gli siede accanto, al quale poco prima ha chiesto l’ora ottenendo una risposta vagamente infastidita.

    «Bassa quest’aria condizionata! Troppo caldo, no?».

    «Meglio così» taglia corto il tizio, confermando le sue maniere spicce.

    Ah, si sente respinto, quasi che l’uomo gli avesse detto vaffanculo.

    La sufficienza lo offende. Spesso nella vita ha fatto testa e muro per le presunte chiusure del mondo e si è sentito un nano tra giganti, proprio come ora.

    Se l’altro mi caccia dalla sua vita, pensa, non valgo niente.

    Forse, con quel meglio così pronunciato con spedita sufficienza, il tizio non intendeva respingerlo, ma lui si sente espulso dallo scompartimento con violenza, come se l’intero treno, tutti i treni d’Italia e, poi, la sua città, le città vicine e l’umanità intera gli chiudessero la porta in faccia schiacciandogliela sul naso.

    Avverte un macigno alla bocca dello stomaco, gli vengono in mente il vomito, i conati spaventosi dell’infanzia, quando ancora nessuno era consapevole della natura dei suoi disturbi. Arrivava il medico e sentenziava: «Vomito sine materia». Un fronte di atroce resa nel malessere più disgustoso: sforzarsi e non rimettere nulla è una sconfitta anche per chi assiste alla crisi. È una tragedia perché il disgusto toglie la forza, opprime ma non riesci a tirarla fuori la liquida schifosissima nausea che ti sale in gola e ti impregna di succhi gastrici e umori fetidi, più o meno come quelli del treno lercio, soprattutto quando disinfettano con la creolina, passando il liquido saponoso sui residui del cibo e le macchie di urine di vecchi e bambini.

    Un disgusto che sale a Carlo dal basso, diviene tutt’uno con lui, lo gonfia come l’omino della Michelin. Gli si spegne la vita, e gli si apre dentro una fogna con le dimensioni di un abisso. Scompaiono i riferimenti, zero colori, il mondo è una foto in bianconero, sensazione di malessere inespugnabile.

    Gli era riuscito facile soltanto una volta di collegare le parole a quello stato d’animo chiuso come un riccio infilato dalle sue stesse spine. Poi, mai più. Le parole non lo avevano mai aiutato a uscire dall’inferno. Fa impazzire, la vita prigioniera in cristalli di angoscia. Vedi il mondo esterno in asimmetriche cornici luccicanti ma non comunichi: nessuno ti ascolta, è come se ti affacciassi in una sala cinematografica dal fotogramma di un film. Gesticoli e nessuno ti vede, taci e sembra ti ascoltino. Povero Carlo.

    Fu di sera, quell’unica volta in cui riuscì a curarsi con le parole. Gli eventi si aggrovigliarono come all’inizio di ogni crisi. Gli torna nitido il ricordo di quel passato che lo attira a sé e ancora gli succhia il sangue.

    Il treno sballotta la signora che regge il libro sul palmo di una mano: e più il treno sferraglia e alterna brevi percorsi a fragorose frenate più la donna ostenta un disinvolto equilibrio. Il libro sembra incollato sulla sua mano, ferma come un leggio.

    Capitolo II

    La calamita dei ricordi lo risucchia dentro anni lontani. Casa di Sandra, in montagna. Le parole giuste per descrivere il magma che avvertiva dentro di sé non gli vennero dalla sua mente, ma da un poeta che amava. Ricorda esattamente anche il giorno, l’ora e lo stato d’animo di quei momenti in cui ebbe il libricino rivelatore tra le mani. Aveva finito per mandare giù a memoria alcuni di quei versi, letti e riletti ad ogni passaggio impegnativo della vita.

    Le parole dei nodi, le chiamava tra sé, con un inconsapevole ma diretto rinvio alle letture terapeutiche di quando la testa gli bolliva sul lettino. Parole dei nodi, nel senso che lo aiutavano a sciogliere grovigli di pensieri, uscire dai dilemmi che lo assediavano.

    Solo quella volta, con l’aiuto di un poeta-mentore, entrò nel cuore dell’angoscia, dove non c’è traccia / né di me né di noi, e ne venne fuori integro e più forte. Esche di senso Sandra definì quelle parole, quando lui le raccontò del sortilegio lessicale. Mai più gli era capitata una cosa del genere e, per squadernare l’angoscia e superare pericolosi blocchi, era ricorso a più di un ciclo di sedute di psicoanalisi.

    Sopraffatto da colpe e vergogne, preferiva rifugiarsi in quell’angolo dove confronti e scontri vivono rigorosamente al coperto, dentro di noi, lontano da temuti sguardi indiscreti. La poesia per lui era essenzialmente questo, un rifugio accogliente.

    Carlo era così, schivo e fragile, un bimbo ostile. Ne prese atto senza curarsi più dei giudizi altrui che, tuttavia, qualche volta immaginava, schermendosi preventivamente: misantropia, misoginia, nevrosi, follia, le patologie che gli affibbiavano.

    Dopo quasi trent’anni di lotta – psicoterapie e psicoanalisi (anche di gruppo) – ora non gliene importa più un cazzo di critiche e dicerie su di lui.

    Sono fatto così, se vi pare, e riesce finanche a compiacersene, intercettando in congruo anticipo qualche pubblico camuffato dileggio.

    Il treno esce dalla galleria stridendo. La lunga frenata scuote la signora che però nemmeno allontana lo sguardo dal libro. L’uomo al suo fianco respira profondamente, l’ampio ventre gli si gonfia fuoriuscendo dalla giacca lisa e aperta. Il fischio della vecchia locomotiva emerge dal fragore di ferraglie.

    Carlo si alza, spinge la porta di vetro e fa per andare in corridoio a fumare.

    Il controllore, intanto, entra.

    «Biglietto».

    «Un attimo, che lo trovo».

    Fruga nelle tasche. Niente. Non ricorda dove ce l’ha.

    «Guardi, ce l’ho senz’altro».

    «Calma».

    L’uomo che gli siede a fianco e la lettrice incantata mostrano il tagliando. Lui proprio non lo trova, deve cercare ancora nella borsa, ma nessun ricordo preciso lo soccorre. In tasca, non c’è. Procede per tentativi, l’ansia lo infila da sotto, dallo stomaco alla testa.

    «Lo cerchi con calma, ripasso tra qualche minuto».

    «Sì, cercherò ancora...».

    Suda, il caldo lo opprime, accende una sigaretta e nessuno fiata, insegue la nuvolaglia di fumo che si apre davanti ai suoi occhi. La

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