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Della bellezza dei corpi: Il risveglio della sensualità pagana
Della bellezza dei corpi: Il risveglio della sensualità pagana
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Della bellezza dei corpi: Il risveglio della sensualità pagana

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I Padri della Chiesa raccontano che Gesù di Nazareth è venuto tra gli uomini in figura “vile e dispregevole”, per sancire il primato della bontà sulla bellezza, dell’etica sull’estetica. Eppure, alle soglie della Modernità, gli artisti rinascimentali rappresentano il Cristo incarnato come un Dio greco: alto, bello e muscoloso. È un passaggio simbolico di fondamentale importanza.
Della bellezza dei corpi scava nel passato per spiegare il presente: anche oggi, i personaggi dello sport e dello spettacolo sono idolatrati per le loro capacità atletiche e il loro aspetto fisico, si assiste a una continua esibizione di corpi perfetti sui media per veicolare messaggi pubblicitari e molte persone comuni dedicano gran parte del tempo alla “manutenzione” e all’esibizione del proprio corpo. C’è chi parla di deriva edonistica della società occidentale, ma il culto della bellezza corporale può anche essere interpretato come un ritorno alle radici, come un risveglio della sensualità pagana.
LanguageItaliano
PublisherD Editore
Release dateMar 21, 2019
ISBN9788894830385
Della bellezza dei corpi: Il risveglio della sensualità pagana

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    Della bellezza dei corpi - Riccardo Campa

    Note

    Introduzione

    Non so fino a che punto sia appropriato introdurre un libro parlando di un altro libro, ma è esattamente ciò che mi appresto a fare. Non vorrei, però, spaventare il lettore. Anche se qui continuo un discorso già avviato, questo è un libro autonomo. È una piantina che nasce su un terreno già dissodato, ma se ne possono assaporare i frutti anche senza sapere com’è cresciuta.

    Nel 2013 ho dato alle stampe una raccolta di saggi intitolata La rivincita del paganesimo: Una teoria della modernità, che si vale di una pregevole prefazione di Luciano Pellicani. Per comprendere lo spirito di quel libro, si deve innanzitutto considerare la domanda dalla quale partiva, ovvero: «Quali sono le radici profonde della civiltà europea?». La domanda era ispirata dal lungo dibattito che aveva presieduto la stesura della Costituzione europea. La Chiesa cattolica aveva chiesto a più riprese ai costituenti di menzionare nel preambolo le radici cristiane dell’Europa, ma la richiesta fu respinta. Nel Trattato di Lisbona si è optato per un generico riferimento alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa.

    Il rifiuto opposto dalla quasi unanimità dei paesi europei a menzionare le radici cristiane mostra plasticamente che viviamo ormai in una società secolarizzata, ove i cristiani sono giuridicamente visti come un gruppo di cittadini tra gli altri. Naturalmente, la Chiesa non chiedeva un trattamento speciale per i propri fedeli. Voleva che fosse riconosciuto il significato storico e culturale del cristianesimo.

    Parliamo di un fatto innegabile. Sarebbe folle voler negare il significato spirituale e morale che il cristianesimo ha assunto, per un lungo tratto della storia europea. Tuttavia, questione assai diversa è se la religione cristiana sia davvero la sorgente dalla quale è sgorgata la moderna civiltà europea. Il Preambolo è lì, infatti, per dire qual è il fattore che ha ispirato le norme di diritto e le aspirazioni programmatiche menzionate nel prosieguo del testo. Le aspirazioni alla libertà individuale, alla democrazia, allo sviluppo scientifico ed economico scaturiscono davvero dalla Bibbia e dal Vangelo? O non è forse vero che la loro radice più profonda si ritrova, in primis, nella filosofia greca, nella scienza alessandrina e nel diritto romano?

    Perciò, nella sinossi del libro, concludevo che «ci sono buone ragioni per interpretare l’emersione della modernità come una rivincita del paganesimo. I germi della democrazia, della mentalità scientifica, della libertà di commercio, della tolleranza religiosa, dell’agonismo sportivo, delle belle arti, dell’edonismo, della libertà sessuale, della bioetica laica, e di tanti altri tratti della Modernità, sono infatti più facilmente rintracciabili nel mondo pagano e, in particolare, nella civiltà dell’Antica Roma o dell’Antica Grecia, che non nel Medioevo cristiano» (Campa 2013).

    Negli anni successivi ho scritto diversi saggi intesi a investigare, più in dettaglio, il rapporto tra la paganitas e i tratti della modernità elencati nella sinossi. Nel 2014, sulla rivista «Orbis Idearum. European Journal of the History of Ideas», ho pubblicato un lungo saggio sulla tolleranza religiosa come frutto del recupero di idee romane. Nel 2015, sulla stessa rivista, ho pubblicato un lungo articolo che mostra come l’idea e la pratica biopolitica non debba essere fatta risalire all’alba della Modernità, come indicava Michel Foucault, ma all’Antichità. Ancora una volta: non siamo di fronte a un novum nella storia, ma a un recupero. Nel 2016, sulla rivista «Archivio storico del Sannio», ho pubblicato un altro lungo saggio sulle idee biopolitiche dei filosofi greci. Lo stesso anno, sempre su «Orbis Idearum», è apparso un mio lavoro sulle idee pagane che hanno ispirato gli studi di Copernico e, di conseguenza, la rivoluzione scientifica. Sempre nel 2016, ho pubblicato su «Rivista di scienze sociali» una ricerca sul culto del corpo nelle società contemporanee, mostrando come esso si leghi geneticamente al pensiero pagano. Lo stesso anno, è apparso in una collettanea un altro studio sul rimodellamento del corpo umano, stavolta incentrato sul corpo femminile, che mostra ancora una volta quanto i comportamenti della nostra era siano il retaggio di quelli antichi. Infine, nel 2017, sempre in una collettanea, è stato incluso un nuovo lavoro sulla cura del corpo, reintrodotta da Vittorino da Feltre alla corte di Mantova, nel Rinascimento, sulla scorta dei suoi studi classici.

    È nata subito la tentazione di riunire tutti questi lavori in un grosso volume, una seconda edizione ampliata de La rivincita del paganesimo. Tuttavia, lo Zeitgeist lo sconsiglia. Oggi il pubblico pare preferire libri agili e conclusi, più che opere enciclopediche. Inoltre, non pareva corretto costringere chi aveva già letto il primo volume a riacquistarlo in forma ampliata, soltanto per accedere ai nuovi contenuti. Poiché i tanti studi che hanno fatto seguito al primo seminale tomo possono essere raggruppati intorno a pochi, ben riconoscibili nuclei tematici, in accordo con l’editore, abbiamo per ora deciso di dare alle stampe un volumetto autonomo, incentrato sulla bellezza dei corpi umani, che include tre dei saggi appena citati e un quarto ancora inedito. Al resto penseremo poi.

    Il titolo di questo volume è stato preso a prestito da un noto scritto di Albrecht Dürer. La frase Della bellezza dei corpi humani, et specialmente delle donne compare come titoletto di una sezione dell’opera De la simmetria dei corpi humani (Durero 1591: 125) . La questione della bellezza dei corpi, della loro cura e manutenzione, della loro valutazione estetica e rappresentazione iconografica, è l’ennesimo esempio di rinascita di idee e comportamenti pagani in seno alla società europea. Non a caso, quando il pittore di Norimberga espone la sua idea di bellezza, supporta il discorso pescando a piene mani nella letteratura classica. Tra l’altro, mostra un’apprezzabile sensibilità antropologica, riconoscendo l’esistenza di un certo grado di relativismo estetico. Quando introduce il suo metodo d’indagine, infatti, scrive: «Volendo io dunque trattare qui della bellezza in quanto pertiene al pittore, ho io avertito, che questa si ritrova diversa presso diversi scrittori, & diversa in diverse etadi…». D’altro canto, non gli è parso opportuno cavarsela a buon mercato, ripiegando – come molti fanno – sul detto latino de gustibus non disputandum est. Ciò per due buone ragioni.

    La prima è che, come già insegnavano i sofisti, giova conoscere le leggi, i costumi e i gusti di una città, per ben vivere in quella città. Insomma, sarà pure vero che ciò che è bello e buono in un luogo può non esserlo in un altro, ma ciò non implica che sia saggio seguire semplicemente il proprio gusto personale. Dürer avverte, infatti, che «deve il saggio pittore bene, diligentemente intendere, & cónsiderare quello, che qui e scritto della bellezza & poi accommodarsi all’universal opinione de suoi tempi & della sua etade per non parere egli solo sapiente fra tutti gli altri, ch’altro no farebbe, ch’acquistarsi nome di pazzo, il quale giudicasse bella quella cosa che da tutti, ò di quei tempi, ò di quella cittade è riputata brutta». L’esempio che offre è illuminante. Un pittore che volesse dipingere una bella donna a Venezia, sarebbe pazzo o ignorante se le «facesse i capelli negri, come voleva Anacreonte Poeta Greco», giacché è «universale opinione, che la bellezza di una donna consista principalmente nei capelli biondi, overo di colore d’oro, come vogliono i moderni Poeti ancora».

    La seconda ragione è che il relativismo estetico vale fino a un certo punto. Dürer consiglia al pittore di considerare «quale sia l’universale opinione dei tempi, o del luogo, ove egli vuole fare una donna, overo huomo od altra cosa bella sapendo però, che in tutti i luoghi, & in tutti i tempi fù sempre lodato un bene proportionato corpo, quantunque, non sempre ne in tutti i luoghi, i medesimi colorì siano riputati convenienti ad un bel corpo».

    Secondo il pittore di Norimberga, dunque, i colori sono culturalmente condizionati, non così le forme del corpo. Più di un antropologo avrebbe qualcosa da ridire su questa tesi, ma non è questo il punto essenziale per noi. L’aspetto più importante è che, quando espone il suo canone universale, supposto valido in tutti i tempi e tutti i luoghi, Dürer inizia a sciorinare nomi e testi dell’Antichità. Cita Omero, Virgilio, Seneca, Aristotele, Platone, Ovidio, Plauto, Mecenate, Orazio, Svetonio, Plutarco, Giovenale, Plinio, e altri ancora. Certamente, cita anche autori del suo tempo, come Torquato Tasso, Ludovico Ariosto, e Marsilio Ficino, o comunque propinqui al suo tempo, come il Petrarca, che fu l’ultimo dei medievali e il primo dei moderni. Tuttavia, trae poco o punto ispirazione dalla letteratura cristiana del Medioevo. Ciò non sorprende, perché non era una pressante preoccupazione dei Padri della Chiesa, né dei filosofi della Scolastica, stabilire come dovessero essere le cosce, le natiche, il petto, o le labbra dei fedeli, specialmente delle donne. Eppure, tutto ciò interessava gli antichi, così come interessa i moderni. Il buco è nel mezzo.

    In questo mezzo, naturalmente, c’è molto altro. C’è una grande tensione mistica e una profonda sensibilità morale, che scaturiscono dal cristianesimo delle origini, dallo gnosticismo, dal neoplatonismo della scuola di Plotino, nonché da forme ibride di queste dottrine. Tutto ciò non è da denigrare. Ha un suo valore intrinseco. Mi pare, però, difficilmente contestabile la tesi di fondo di questo libro: nella civiltà cristiana, a differenza di quanto accade nella civiltà pagana che la precede e nella civiltà secolare che la segue, l’orientamento culturale non è particolarmente favorevole all’esaltazione della bellezza dei corpi umani.

    Ciò non significa che io ritenga verosimili le ricostruzioni storiche che riducono il Medioevo a un’epoca dominata dall’ascetismo e dalla mortificazione della carne. Queste sono evidentemente caricature. Come chiarisco in alcuni passaggi del libro, i cristiani non credono soltanto nell’immortalità dell’anima e in un Dio spirituale. Credono nella resurrezione della carne; adorano un Dio che si è fatto carne; rappresentano il proprio Dio come un corpo nudo, nella mangiatoria e sulla croce. Tutto ciò significa che la svalutazione della dimensione corporale dell’esistenza non è la pietra angolare della dottrina cristiana. D’altro canto, mi pare anche poco convincente tutta quella letteratura revisionistica che, per dimostrare che nel Medioevo c’è ancora una certa vivacità culturale (fatto incontestabile, soprattutto dopo l’anno Mille) e che non sono scomparsi del tutto gli istinti vitali (ci mancherebbe!), si spinge poi troppo lontano su questa strada. Se nella foga di rivalutare la civiltà cristiana medievale si arriva a presentarla come fiorente e libertina, quasi fosse una rediviva Babilonia, si produce un’operazione dubbia sul piano storiografico, che, probabilmente, risulta imbarazzante agli occhi degli stessi cristiani.

    Quelli che abbiamo appena esposto, ai nostri occhi, appaiono come fatti – parola che mettiamo tra virgolette in ossequio alla cautela metodologica. È pur vero, infatti, che ogni narrazione si basa su una selezione di eventi e che la stessa selezione può essere determinata da pregiudizi cognitivi ( bias – dicono gli inglesi) . Questo vale per tutte le ricerche e, dunque, anche per la presente.

    Capita però anche di vedere bias, motivi nascosti, pregiudizi, laddove non ci sono. Sebbene una certa fraseologia da me adottata potrebbe far pensare il contrario, ci tengo a sottolineare che il mio lavoro non è animato da spirito anticristiano. Mi rendo perfettamente conto che una frase come rivincita del paganesimo possa suonare sinistra e forsanche minacciosa alle orecchie di un cristiano. Tuttavia, questo non è un esito desiderato, né tantomeno necessario. La ricezione positiva o negativa del discorso sulle nostre radici pagane dipende in grande misura dal modo di concepire il cristianesimo che anima il lettore.

    Nel Vangelo si trovano due frasi, entrambe attribuite a Gesù Cristo, che hanno ispirato nei fedeli due idee assai diverse della propria religione, una esclusiva e una inclusiva. Gesù dice: «Chi non è con me è contro di me» (Matteo 12:30). D’altro canto, dice anche: «Chi non è contro di noi è per noi» (Marco 9:40).

    I due detti non sono di per sé contradditori, perché si riferiscono a situazioni distinte, come rivela una lettura attenta delle Scritture. Tuttavia, trasformati in slogan, sul piano storico, hanno attivato nei cristiani modi assai diversi di relazionarsi alle altre religioni. Sicché, da un canto, abbiamo cristiani che interpretano la propria religione come contrapposta agli altri culti. Essi vedono le proprie credenze e i propri riti come un recinto che non dovrebbe essere valicato. Il paganesimo è da essi posto fuori dal recinto e considerato contro di noi, perché non è con noi. Da questo atteggiamento di chiusura sono nate le persecuzioni degli eretici. Chi fosse animato da una tale idea di cristianesimo non potrebbe che avere una percezione negativa di un libro che celebra la vitalità e la bontà di certe idee pagane.

    D’altro canto, nel cristianesimo, e in particolare nel cattolicesimo, c’è anche una solida tradizione di attenta assimilazione dell’altro. Già i Padri della Chiesa assorbono elementi della cultura pagana, in particolare platonica. I monaci amanuensi, i Benedettini in primis, per secoli conservano e riproducono i prodotti culturali dell’Antichità. I filosofi della Scolastica pongono al centro della dottrina cristiana le idee di Aristotele. Gli umanisti e i chierici del Rinascimento pescano a piene mani da opere di autori pagani, dal leggendario Ermes Trismegistus a Platone, da Cicerone a Plotino, per tacere dei tanti studiosi alessandrini riscoperti dopo la caduta di Costantinopoli, grazie alla fuga in Italia dei dotti di lingua greca. Evidentemente, questi cristiani sentivano che la cultura pagana, non essendo contro noi, è per noi.

    Da questo atteggiamento di fondo sono nate concezioni inclusive del cristianesimo, nell’ambito della stessa Chiesa cattolica. Faremo soltanto un esempio. Recentemente, è stata riscoperta l’opera filosofica di un sacerdote cattolico, vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo: Giuseppe Petich. Gli scritti di questo autore sono stati riuniti in due volumi intitolati Divagazioni filosofiche (2003) e Ulteriori frammenti (2005).

    Lasciamo alla penna di un luminare della storia delle idee, Gregorio Piaia (2008: 250), il compito di riassumere il pensiero di questo canonico: «Petich vede nel cristianesimo la ricapitolazione a un livello superiore delle grandi religioni e delle grandi filosofie che si sono manifestate nel corso della storia. […] Il cristianesimo non si pone dunque in alternativa alle altre religioni positive, ma ne rappresenta il compimento...». Al contrario dell’ortodossia ecclesiastica, «ristretta entro i confini di un neotomismo che in Italia era oltretutto interpretato in forme assai anguste» (ibid.: 148), Petich è alla costante ricerca di ciò che unisce, non di ciò che divide. Sicché, scrivendo all’inizio del Novecento, il prelato cerca innanzitutto di rapportarsi all’idealismo tedesco e al positivismo evoluzionista, allo scopo di elaborare una sintesi, una narrazione unificante. «Ed è in questo orizzonte speculativo che si collocano le ricorrenti professioni di monismo, quelle più intricate sul piano filosofico-religioso (ove il cristianesimo delle beatitudini si fonde con i richiami allo gnosticismo, al neoplatonismo e al nirvana, nonché con scatti ironico-polemici) a quelle di tono tra il sapienziale e l’oracolare: Dio, come cosa, è il Sole; come persona, Gesù; come sovrapersona, che? Il cosiddetto Infinito» (ibid.: 249).

    I cristiani, laici o chierici, che condividessero una tale visione della propria religione non possono certo interpretare il riemergere del paganesimo come un fatto deleterio, né la ricostruzione di questo processo storico come un atto ostile.

    Per riallacciarci al tema di questo libro, possiamo infatti chiederci che cosa avesse da dire monsignor Petich in merito alla bellezza dei corpi, partendo dalla sua prospettiva monistica. Ebbene, in un frammento datato 2 gennaio 1912, il prete filosofo scrive: «Se bene sia comune opinione che la donna fu abbassata dall’Islam e che invece il Cristianesimo la esaltò, ciò va inteso in un senso sociale che non scema la verità di un altro fatto, e cioè che fu l’Islam il primo a resuscitare la poesia sessuale che il paganesimo aveva sentito così profondamente e il Cristianesimo aveva annientato. Il Cristianesimo ha la poesia santa della famiglia, ma non ha che rigori per il piacere venereo. L’Islam rappresenta la riabilitazione non della donna, ma del sesso, anzi più precisamente del sesso mascolino. La riabilitazione del sesso femminino ha luogo più tardi (cavalleria, Rinascimento, secolo XVIII)». E questa è la conclusione storiografico-sociologica alla quale giunge Petich: «La riabilitazione della donna che il femminismo oggi vagheggia si ricollega a queste due origini: è per una parte la prosecuzione dell’emancipazione dell’anima della donna voluta dal Cristianesimo, e per l’altra l’emancipazione del corpo femminile, del sesso, a cui si dà dignità, conforme alle teorie del Paganesimo (culto di Venere) ed anche in parte allo spirito dell’Islam. Nell’Islam la donna è schiava e il sesso femminile è in ombra, ma il sesso maschile è già onorato (cfr. il culto di Adone)» (Petich 2005: 86).

    Di questi temi parla il libro che avete in mano. Esso riunisce quattro saggi. Il primo è ancora inedito nel momento in cui questo libro va in stampa, anche se è già stato accettato per la pubblicazione nella rivista di storia delle idee «Orbis Idearum». Il secondo e il quarto sono stati inclusi in due collettanee cartacee, meglio specificate in bibliografia, pubblicate da un’istituzione scientifica polacca. Il terzo è invece apparso su una rivista scientifica italiana ed è l’unico facilmente accessibile online. I lavori appaiono qui in forma leggermente modificata rispetto alle edizioni scientifiche. Per renderne più agevole la lettura, abbiamo tradotto in italiano tutte le citazioni apparse in lingua straniera. Se la fonte citata è in lingua diversa, si intende sempre che la traduzione è nostra. Abbiamo eliminato le note a piè di pagina, inserendo nel corpo del testo le informazioni che ci parevano davvero interessanti. Abbiamo eliminato tutte le indicazioni che ci parevano ridondanti e appesantivano inutilmente la lettura, per esempio gli ibidem. Se una citazione è priva di riferimenti, resta sottinteso che essi sono identici a quelli della citazione precedente. Resta anche sottinteso che tutte le citazioni prive di numero di pagina sono tratte da edizioni digitali con numerazione variabile. Per il controllo delle citazioni si veda l’indicazione in bibliografia e si utilizzi la ricerca interna dell’ebook.

    Passando ai contenuti, dei quattro scritti offro ora qualche ragguaglio introduttivo. Il primo saggio è intitolato La religione dei corpi perfetti. Osservazioni sulla dimensione estetica dello zoroastrismo. In esso, è posta in evidenza l’attenzione alla bellezza dei corpi umani che caratterizza lo zoroastrismo, o mazdeismo, così com’è stato codificato nell’Avesta. L’antica religione iranica, fondata o perlomeno riformata dal profeta Zarathustra, pur condividendo molti aspetti dottrinali con il cristianesimo, si distingue da quest’ultimo per il ruolo privilegiato che assegna alla bellezza nelle questioni teologiche, etiche e soteriologiche. Per mostrare le radici profonde di questo aspetto peculiare dello zoroastrismo, lo scritto procede dal generale al particolare, presentando prima le principali scoperte effettuate da linguisti, storici e archeologi a riguardo dell’ideologia degli Indoeuropei, per poi prendere in esame la religione degli Arii. Si tratta di una premessa lunga, ma necessaria, per comprendere appieno il significato antropologico e sociologico di alcuni passi dell’Avesta. È necessario tenere presente che la prospettiva dello studio non è quella dell’iranistica, ma quella della storia delle idee, qui intesa come fonte vitale della sociologia storica. Ciò significa che la priorità della ricerca non è ricostruire il passato nei suoi dettagli più minuti, ma mostrare come il passato, anche il più remoto, ancora influenzi le nostre vite.

    Il secondo saggio incluso nel volume ha per titolo: La bambola, la madre, l’amazzone. Risvolti sociologici del rimodellamento dei corpi femminili. Assumendo la prospettiva della sociologia storica, lo

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