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Che io possa essere dannato: Stylon
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Che io possa essere dannato: Stylon
Ebook182 pages2 hours

Che io possa essere dannato: Stylon

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About this ebook

Estate 1979. Sud Italia.
Il cronista Michelangelo Argenti parte alla volta di Stilo, in Calabria, per investigare sulla scomparsa di un commesso viaggiatore. Arso dal sole e cullato dalle tenebre, l'antico borgo è il personaggio-scenario che accompagnerà Michelangelo in un viaggio fatto di ricongiungimenti e disgregazioni. Che lo guiderà, attraverso le sue indagini, fino alla scoperta del mistero nascosto dietro l'idilliaca apparenza di un paradiso perduto.
Alla rivelazione di un segreto, quello di Stilo, che lascerà un segno incancellabile nella sua anima.
LanguageItaliano
PublisherKoi Press
Release dateMar 11, 2019
ISBN9788885769182
Che io possa essere dannato: Stylon

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    Che io possa essere dannato - Fabio Cannatà

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    CHE IO POSSA ESSERE DANNATO

    Fabio Cannatà

    Koi Press

    Che io possa essere dannato

    Fabio Cannatà

    Koi Press © 2019

    Libro prodotto in collaborazione con ThinkABook.it 

    Koi Press è un marchio editoriale di

    OpenMind Srls - Via Volta 72, 20013 Magenta

    ISBN : 9788885769182

    Immagine in copertina: Simon Matzinger su pexels.com

    Il contenuto di questo libro è il puro frutto dell'invenzione, eventuali riferimenti a fatti, luoghi e persone è da ritenersi del tutto casuale.

    A Nora, senza cui questo libro

    non sarebbe mai stato scritto

    A Leo, per il giorno in cui lo leggerai

    Alla mia famiglia

    Andare via lontano, a cercare un altro mondo

    Dire addio al cortile, andarsene sognando

    E poi mille strade grigie come il fumo

    In un mondo di luci, sentirsi nessuno

    Saltare cent'anni in un giorno solo

    Poi non capirci niente

    e avere solo voglia di tornare da te

    LUIGI TENCO

    1

    15 giugno 1979. Michelangelo Argenti fissava senza guardare il calendario da tavolo sulla scrivania di fronte a lui. A osservarlo da fuori, si poteva immaginare che stesse cercando di mettere a fuoco con gli occhi qualcosa che stava oltre, attraverso l’oggetto. In realtà, mentre si accendeva una sigaretta con la noncuranza di chi ripete quel gesto per decine di volte al giorno, girava con la mente le tessere dei giorni e dei mesi; una dopo l’altra, quasi a voler accelerare lo scorrere del tempo, per lasciare indietro il passato. Arrivato al Capodanno del 1980 nello spazio di poche boccate di fumo, distolse l’attenzione e si guardò attorno.

    Un grosso ventilatore a pale muoveva soltanto aria calda nella stanza, mentre dalle finestre strisce di luce filtravano fra le veneziane nell’arancio della prima sera, proiettando striature d’ombra sulla parete opposta. Appese al muro, dietro a un’ampia scrivania, numerose prime pagine incorniciate de La Gazzetta del Sud troneggiavano sulla poltrona vuota del direttore Franco Condello. 10 maggio 1978, la prima sul ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. 11 luglio 1973, il rapimento di Paul Getty III. 17 maggio 1976, dopo 27 anni il Torino torna a vincere il campionato di Serie A con in panchina Gigi Radice. Notizie e avvenimenti diversi, celebrati con ostentazione, non lo animavano. Michelangelo se ne stava appollaiato e scomposto sulla sedia, in una vuota attesa. Tranquillo e passivo, come quello che non ha fretta di sbrigarsi perché tanto sa che non avrà alcun posto dove andare una volta uscito di lì.

    Grondava sudore. Gocce dai capelli castani scompigliati gli scendevano lungo le tempie e poi sul collo. Gli occhi ancor più arrossati dal fumo, la barba di almeno una settimana sul viso aristocratico, la camicia bianca informalmente sbottonata e un paio di pantaloni stirati male completavano l’immagine del giornalista decadente in attesa di una bella rivoltata.

    Che non tardò ad arrivare.

    «Lo sai, Miché, mi stai sui coglioni ancora di più dei Radicali!» disse Condello entrando nella stanza accaldato, e visibilmente alterato. «Hanno preso 18 seggi; mai avevano cacciato il muso fuori così tanto. DC e comunisti dormono all’impiedi, e per qualcuno quel matto di Pannella pare essere diventato il salvatore. Pure Sciascia si è tirato dietro nelle sue stronzate… ma ti pare possibile!? Tu però mi fai incazzare di più!… E sai perché?» Condello aveva nel frattempo guadagnato la sua poltrona sotto le cornici, togliendosi la cravatta e trascinando, non senza un certo sforzo, la corpulenta figura. «Perché non te ne frega più di nulla e di nessuno. Eri uno che se le prendeva tutte addosso le grane del mondo. Che cazzo ti prende adesso?! Capita a volte che la vita ti vada a puttane in un attimo... Non è successo soltanto a te lo sai?! Ti senti mancare la terra sotto i piedi, e magari sei anche così codardo da cercare di ammazzarti… Si può fare anche bevendo e fumando come fai tu, non devi per forza buttarti sotto un treno. Ne ho conosciuti, di quelli che non riuscivano ad aggrapparsi più a nient’altro. Per che cosa poi? Pensi davvero che ne valga la pena? Oh, poverino!»

    Non era affatto così. Non del tutto almeno, e Franco Condello lo sapeva benissimo. Così come Michelangelo, con gli occhi bassi sotto la coltre di fumo di sigaretta, sapeva che la sfuriata del vecchio era in fondo soltanto una strategia per buttarlo metaforicamente giù dal letto. Michelangelo Argenti era stato fino a poco tempo prima un giornalista acuto e responsabile. Un esempio e un modello: tra i primi cronisti al Corriere della Sera a Milano, non si limitava a spiegare la notizia che raccoglieva in prima linea; piuttosto la interiorizzava, la scomponeva, poi la riassemblava dandole una forma nuova e più saliente per il lettore. Aveva istinto, aveva sensibilità, riusciva a comprendere appieno gli stati d’animo delle persone e a trascriverne i pensieri su carta, senza che queste dovessero fare lo sforzo di provare a spiegarli. Dovevano soltanto parlargli. E lui avrebbe fatto il resto. Qualità che non si spiegano, che non si imparano su banchi di scuola o all'università. Doti che lo rendevano, a modo suo, unico.

    «Ti ho preso qui a Messina perché lo dovevo a tuo padre. Perché ero sicuro che lontano da Milano avresti potuto rilanciare la tua carriera, ma soprattutto ritrovare un po' di dignità di uomo, di uomo del sud. Ti ha portato via troppo presto, lui, però a terra tua chista è...»

    La temperatura della stanza, lievemente più mite rispetto a quella esterna, e la penosa immagine di Michelangelo, collaborarono a dissipare la collera iniziale di Franco Condello che continuò la sua allocuzione con tono sempre fermo, ma decisamente più magnanimo. «Eppure hai continuato a fottertene anche qui. Arrivi in redazione quando ti pare, te ne stai isolato, fumi comu nu tabbaccusu. L’unica volta in cui hai mostrato un po’ di entusiasmo è stato per tirare in ballo il suicidio di Tenco… qui, dopo dieci anni, alla Gazzetta del Sud!? Ora sentimi bene, Miché, io su queste cose ci posso anche passare sopra perché volevo bene a tuo padre quando studiavamo insieme, e ora ne voglio anche a te. Stamattina però mi facisti veramenti 'nchianare i cazzi! Più di un’ora l’hai fatto aspettare ad Andò. Gli avevo telefonato io, una settimana fa, dicendogli che gli mandavo il migliore per questo incontro. Il milanese. L’appuntamento era alle dieci, mi ha chiamato alle undici e mezza iestimando a Madonna! Ma che ti credi, che il sindaco aspetta che ti finisci la sigaretta e poi arrivi?

    Comunque... lasciamo stare! Non mi interessa nemmeno sapere dov’eri e perché non ti sei presentato. Devi solamente capire che questa è l’ultima occasione che hai da me».

    Condello aspettò un cenno da parte di Michelangelo, ma l’unico gesto dell’altro fu quello di spegnere la sigaretta appena fumata nel posacenere accanto al calendario da tavolo, prima di accendersene un’altra. Il direttore aprì allora un cassetto della scrivania, estraendone una busta aperta che appoggiò sul piano con un gesto stizzito.

    «Abbiamo ricevuto questa ieri. È una lettera da parte dei Carabinieri».

    Pausa teatrale, ma niente.

    «Lo sai meglio di me che se vuoi arrivare in anticipo sulle notizie devi avere qualcuno che te le passa di prima mano. Ma questa non è la solita soffiata che ci mandano. Qui c’è qualcosa di strano secondo loro. Dicono che vogliono aiuto per una brutta storia, di uno che è sparito nel nulla, uno che ha telefonato alla moglie e poi non se n'è saputo più niente. Che hanno bisogno che gli mandiamo qualcuno sul posto, subito. Uno esperto e molto discreto, che sappia fare qualche domanda dando però l'impressione di farsi i cazzi suoi. E dicono anche che se i sospetti che hanno sono fondati, potrebbe uscirne una storia da far tremare i muri pure a Milano».

    Condello allora si alzò e guardò Michelangelo con disperata solennità.

    «È quello che ci serve, Miché... soprattutto dopo la figura di merda che abbiamo fatto con il sindaco. Non abbiamo mai ricevuto niente del genere prima d'ora, dev’essere un’iniziativa privata di qualcuno che si muove senza autorizzazioni. Il mittente scrive che sarà lui a contattare il nostro inviato una volta sul posto. L’arma non fa queste cose… se uno si prende un rischio del genere è perché si è già reso conto che non è una cosa che può risolvere da solo all’interno del corpo. Secondo me vale la pena di andare a fondo… e voglio che a fondo ci vada tu. Sia mai che toccato quello, finalmente cominci a risalire».

    Per la prima volta dall’inizio del colloquio, Michelangelo alzò la testa mostrando gli occhi celesti contornati dagli eloquenti segni dell’insonnia.

    «Voglio che ci vada tu perché non ti voglio più tra i coglioni, almeno per un po', ma anche perché so che se esiste qualcuno che può vedere e sentire cose che gli altri non possono, che Dio mi dia ragione, questo eri tu prima di diventare questa specie di morto vivente. Hai mai sentito parlare di Stilo, in Calabria?»

    «Sì» rispose Michelangelo.

    «Bene, vattene a dormire allora. Parti domani mattina».

    2

    Sul ponte del traghetto che da Messina lo portava in Calabria, Michelangelo beveva caffè nero appoggiato alla balaustra di ferro. Scorreva accanto a lui, salutandolo malinconicamente con la sua benedizione, la Madonnina dello Stretto alle prime luci del fresco mattino. Non aveva dormito che un'ora o due, ma negli ultimi quattro mesi quella era ormai diventata la normalità. Durante le recenti notti siciliane se ne stava quasi sempre sul balcone del suo appartamento di via Cesare Battisti, guardando il cielo, e combattendo i suoi demoni che lo torturavano come aghi di sconforto. Quando sembrava trovare finalmente un po' di pace nella brezza stellata e nel bruciore di un bicchiere, i ricordi tornavano, riemergendo tra le pieghe ancora troppo larghe del tempo. Soprattutto il suono della sua voce tornava a straziarlo. Il suono dolce della sua voce che gli ripeteva «Ti amo», prima di baciarlo. Si accendeva una sigaretta allora, e quella voce scompariva temporaneamente nel fumo, confondendosi coi rumori della notte.

    Poi ritornava, e tutto ricominciava daccapo.

    Il traghetto prendeva di velocità increspando le onde, Michelangelo terminò il suo caffè e rimase con gli occhi fissi a guardare il mare sotto di lui. Lo aveva sempre affascinato più di ogni altra cosa, il mare. Con la sua immensità, e il suo mistero. Era suo compagno, era come lui; parlava poco ma aveva sempre tante cose da dire. Si rese conto in quel preciso momento di quanto esso gli fosse mancato in tutti gli anni passati a Milano. Praticamente tutta la sua vita, dalla prima adolescenza in avanti. Come quegli amici che non senti e non vedi più per tantissimo tempo, da dimenticarti quasi che esistano. Poi un giorno li rincontri e ti rendi conto che tutto è ancora come allora. Lo stesso affetto fraterno, la stessa complicità di quando si era bambini. Successe proprio così tra Michelangelo Argenti e il mare. Si erano ritrovati, per caso, e si stringevano in un abbraccio.

    Il passaggio sullo Stretto, il primo dondolio fra pensieri distanti e nostalgici, segnò per Michelangelo il principio di un'insospettata rinascita. Poche ore prima entrava nella redazione de La Gazzetta del Sud, in via Uberto Bonino a Messina, con l'umore del processato in attesa di condanna: il male di vivere non scomparve nell'arco di un momento, ma sulla rotta per Stilo egli stava iniziando a ritrovare una direzione chiara da seguire, oltre che un vecchio compagno azzurro e dondolante. E su quel ponte si era sentito pervadere, finalmente, da un nuovo alito di vita.

    Il traghetto attraccò a Villa San Giovanni alle 8.50. Michelangelo scese nella stiva e recuperò la sua auto, un'Alfa Giulia del '76 simile a quelle usate spesso nei film polizieschi, ma di un insolito verde bottiglia. Si mise in coda per sbarcare, nel frattempo consultò la mappa stradale per ripassare il percorso che lo avrebbe portato fino a Stilo. I lavori per la superstrada Jonio-Tirreno erano iniziati soltanto da un paio d'anni, e per raggiungere la costa orientale della Calabria sarebbe risalito lungo l'autostrada mediterranea fino a Gioia Tauro, per poi imboccare la Statale 111, a Vinova come si diceva in dialettofino a Locri.

    Il sole era salito nel cielo e iniziava come ogni giorno il suo bollente stillicidio. Oleandri e pittare accompagnavano i primi chilometri di autostrada fino a Scilla. La radio suonava un vecchio pezzo di Sergio Endrigo, 1947. Un verso in particolare, slegato dal significato storico-politico della canzone, indusse in Michelangelo una riflessione del tutto intima.

    Ho visto il mondo e mi domando se, sarei lo stesso se fossi ancora là

    Michelangelo Argenti era nato a Reggio Calabria nel 1948, figlio di Filippo, apprezzato intellettuale e giornalista di origine Umbra che lo aveva nel tempo instradato alla professione, e di Teresa, appartenente a una certa borghesia del sud. Nel 1959, tuttavia, la famiglia si era trasferita a Milano al seguito di Filippo, e lì, Michelangelo aveva trascorso la sua adolescenza, crescendo accanto alla grande città e sviluppando il suo temperamento inquieto.

    Si domandava spesso che uomo sarebbe diventato se fosse rimasto nella provincia meridionale, nel paesazzo di Reggio come lo chiamava qualcuno. Sicuramente diverso. Ma a quella domanda, e si rallegrava in questo, non aveva trovato mai una risposta davvero convincente. Di certo, allora, ci fu che risalendo la punta dello stivale l'eco forte di un'infanzia felice e spensierata faceva riaffiorare nel suo animo sprazzi di una serenità che pareva smarrita. Stava meglio,

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