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Chi corre prima o poi si perde
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Chi corre prima o poi si perde

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Cosa faresti se un giorno capissi che la tua vita, così com'è, non ti piace più? È quello che succede a Ottavio, un uomo di mezza età in piena crisi esistenziale che una mattina viene avvicinato da tre stranieri su uno strano furgone. Lo invitano a fare un giro con loro e lui, stranamente, accetta. Non intuisce nemmeno che questo giretto segnerà l'inizio della svolta.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 20, 2019
ISBN9788831607643
Chi corre prima o poi si perde

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    Chi corre prima o poi si perde - Romina La Peeh

    Jung

    LE SOLITE PAURE

    Anziché a dicembre, l’inverno sembrò arrivare il primo novembre. Durante la notte la temperatura era calata di dieci gradi, palesando quello sbalzo con degli strati di brina ghiacciata sui veicoli parcheggiati. Eppure l’uomo che osservava il mondo attraverso la finestra della sua camera non parve impressionato dall’immagine gelida che vedeva. Al contrario, fumava la prima sigaretta della giornata con un gomito appoggiato al vetro chiuso e lo sguardo piuttosto distaccato.

    La sua sagoma nel buio era avvolta dal fumo e dai pensieri, in un silenzio quasi sordo spezzato di tanto in tanto dal rombo alieno di qualche macchina. Il cielo sopra la città padroneggiava sereno; il vento fischiava forte facendo vibrare i vetri. La luce delle stelle offriva un rifugio ai nottambuli come lui, coloro che per scelta o per disperazione erano rimasti svegli soltanto per godersi un po’ di pace.

    Ad un tratto sbirciò l’orologio sul comodino che segnava appena le quattro, dopodiché tornò a guardare fuori con l’espressione in faccia di chi si rassegna alla sconfitta. Erano ormai settimane che non riusciva più a chiudere occhio; dormiva a tratti, in maniera disturbata e molto superficiale.

    Fece un altro tiro di Camel e fissò il cielo cercando di scovare la luna. Squadrò poi le case del suo quartiere, i lampioni accesi, i veicoli parcheggiati a fianco dei marciapiedi; si stupì di quella città che in quell’istante sembrava così estranea.

    In genere di notte tutto si tinge di un colore differente.

    Un passante bardato fino ai capelli invase d’improvviso la visuale, dando movimento all’immagine statica; i suoi passi erano spediti e incerti per via delle forti raffiche. Lo seguì con lo sguardo finché lo vide scomparire dietro l’angolo della strada. Si domandò dove potesse andare. E, mentre se lo chiedeva, si portava la bionda accesa alla bocca. Un ultimo tiro. Allungandosi verso una scrivania colma di fogli e cartelle, schiacciò infine il mozzicone in un portacenere.

    Per un attimo la mente lo riportò laddove lo aveva lasciato poco prima: il ricordo della discussione avuta con il suo Capo Reparto il giorno precedente. Una discussione snervante, peraltro. Di quelle che non fanno molto rumore ma che nuocciono più di qualsiasi urlo, insulto o rimprovero frontale. Una diatriba che era riuscita a punzecchiarlo nell’orgoglio, ingrandendo ancora di più le sue solite paturnie e mettendolo di fronte ad un’insopportabile verità: che il suo valore come lavoratore era pari a zero.

    L’impotenza scatenata dall’oltraggio faticava ad andarsene.

    Appoggiando la fronte contro la finestra chiusa, si premé il diaframma per alleviare un repentino dolore molesto allo stomaco: il dolore dell’angoscia. L’ansia era diventata una sua coinquilina; nel corpo abitavano entrambi, ma stavano stretti. Uno dei due, prima o poi, sarebbe dovuto andarsene. Si augurava sempre che se ne andasse lei.

    Forse avrebbe dovuto accettare il consiglio di un collega e farsi prescrivere degli ansiolitici?

    Si voltò, scrutando il buio. Individuò la sagoma di sua moglie che dormiva proprio lì, a due passi da lui, eppure lontana un chilometro. Sentì stringersi di più il nodo che aveva in gola e una strana sensazione di malinconia gli fece capire che c’era qualcosa di sbagliato in tutto quanto. Nel rapporto che aveva con quella donna, con quel letto. Nel rapporto morboso che si era stabilito tra lui e la notte fredda, la quale sembrava sempre aspettarsi che non potesse dormire.

    Si accarezzò la pelle delle guance e le notò ruvide. Rivolse come prima l’attenzione alla città, pensando a quanto sua moglie fosse peggiorata negli anni. Due estranei, erano adesso. Due individui incompatibili, ben distinti ma soprattutto distanti. In modo meccanico si avvicinò alle Camel che lo tentavano dalla scrivania; ad un passo dal prendere il pacchetto, cambiò idea. Quella stanza lo stava asfissiando, avvelenandolo più delle sigarette stesse. La situazione nella quale viveva si era trasformata in una realtà insostenibile, in una commedia che non intratteneva nessuno.

    Si fece coraggio e si allontanò dai vetri. Doveva uscire da lì. Con passi felpati si trascinò dunque in corridoio, portando con sé lo stato d’animo abbattuto e le Camel strette tra le mani. Sprovvisto di vie di fuga finì col rifugiarsi in bagno, dove subito scorse il suo stesso volto allo specchio appeso sopra il lavandino. Un’altra volta pensò alla discussione aveva avuto al lavoro, navigando tra le parole dette e le allusioni sottintese. Non riusciva a darsi pace, ad allentare la tensione. Per una frazione di secondo il Capo Reparto sembrò materializzarsi al suo fianco. E come per magia rivisse un’altra volta tutta la scena.

    «Come hai detto?» domanda il capo.

    Lui prende una boccata d’aria, sentendo il cuore imbizzarrito.

    «Ho detto che non è giusto», risponde dopo.

    I due uomini sono fermi davanti ad una delle uscite di sicurezza nella fabbrica in cui entrambi lavorano, a metà del corridoio che porta dagli uffici alla sala macchine. L’argomento della loro discussione è il cambio imprevisto nell’orario delle turnazioni.

    Il fatto è che, siccome c’è stato un grosso acquisto di prodotti da parte di una multinazionale straniera, prodotti che tra l’altro devono essere consegnati entro il mese successivo, il Capo Reparto ha avuto la brillante idea di prolungare la giornata di lavoro di un quarto d’ora. La giustificazione per quella genialata fu il semplice fatto di essere indietro nella produzione e di voler, parole testuali, evitare qualsiasi tipo di ritardo nella consegna ai pezzi grossi. Quindici minuti in più al giorno, che alla fine della settimana sarebbero state due ore e mezza, che alla fine del mese sarebbero diventate dieci. In questo modo fottevano gli operai molto bene, perché per un quarto d’ora nessuno si sarebbe lamentato. Fosse stata un’ora in più al giorno, più di uno avrebbe protestato, ma quindici minuti… cosa vuoi che siano?

    «Non mi sembra giusto che debba lavorare un quarto d’ora in più al giorno solo perché l’azienda ha preso un incarico troppo grosso», aggiunge.

    «Sarà solo per un mese. E ti verranno pagate come ore straordinarie.»

    «Non è questo il punto.»

    «Ma che ti prende, Celani? Qual è il tuo vero problema?» il Capo sogghigna. «Due ore e mezza in più alla settimana ti fanno schifo, per caso?»

    «No. Ma ognuno di noi deve poter scegliere se vuole farle oppure no.»

    «Scegliere se vuole farle oppure no?» il Capo sgrana gli occhi dopodiché scoppia a ridere. «Ma... hai bevuto?»

    «Non faccia lo spiritoso, la prego. Sto solo cercando di far valere i miei diritti.»

    «Ma chi te li tocca, i diritti?!» fa il Capo, con in volto un’espressione stupita. «Che hai visto in tivù ieri sera, Celani? Un film sulla vita di un fottuto sindacalista?»

    Lui si morde la lingua. L’altro uomo riprende a ridacchiare e gli appoggia una mano sulla spalla.

    «Mamma mia, ragazzo, come sei buffo... Purtroppo le cose stanno così. E meno male! Cazzo, in quale mondo vivi? La gente là fuori muore di fame e tu t’incazzi perché ti aumento le ore e lo stipendio?»

    Lui spalanca le braccia.

    «Non è questo il punto!»

    Ed è allora che il Capo Reparto perde la calma.

    «Oh, non alzare la voce», gli punta il dito. «Che non ti venga in mente l’idea di alzare la voce, hai capito? Io non sono un tuo amico, sono il tuo capo. Non te lo dimenticare. Nessuno ti obbliga a fare niente, okay? Ma queste sono le nuove disposizioni, le prendi o le lasci. Se non ti piacciono le nuove regole, sai bene dov’è l’uscita. Intesi?»

    «Stronzo», biascicò davanti allo specchio del bagno, scuotendo la testa.

    I muscoli del volto gli si erano talmente contratti che, appena ne fu cosciente, si sbalordì dell’immagine riflessa. Si avvicinò per guardarsi meglio, cogliendo a braccia aperte l’amarezza nel vedere quanto era stato imbruttito dagli anni. O forse ad imbruttirlo erano stati i dispiaceri? Con la punta delle dita sfiorò la pelle del viso, cercando di capire dove fosse andata a finire la sua elasticità. Le guance erano ricoperte da un accenno di barba ispida e brizzolata. I capelli corti e scompigliati lasciavano intravedere alcuni fili d’argento sulle tempie. E poi gli occhi... quegli occhi non sembravano più i suoi, erano invece due buchi oscuri in fondo a due fosse comuni. Notò le sue labbra opache, screpolate. Si accorse degli zigomi cadenti.

    «Cazzo», parlò da solo. «Una volta eri un bell’uomo, tu.»

    Aveva la voce rotta. Si era riempito di lacrime.

    «Adesso chi sei? Che cosa sei diventato?»

    Una vampata di caldo partì dalle viscere e si propagò fino a bruciarlo vivo. Si sorresse dalla parete e prese fiato, sentendo che sudava freddo. Stava cadendo nella trappola del panico, non doveva farlo! Fece attenzione al battito cardiaco mentre, nella testa, partiva il mantra creato apposta per aiutarlo a rasserenarsi. Respira. Calma. Respiiira. Caaaaalma.

    Forse davvero sarebbe stata una buona idea prendere qualche pasticchina prescritta da uno psichiatra. O delle goccioline...

    Pian piano la crisi passò, anche se tremava ancora. Barcollando verso la porta, spense la luce con aria disperata ed uscì dal bagno lasciandosi alle spalle l’autocommiserazione e quel profilo orripilante che aveva visto allo specchio.

    ***

    La casa era immersa in un’atmosfera vacua. L’oscurità dell’interno aveva ripulito ogni traccia di calore, le ore notturne avevano riassorbito gli odori della cena. Non c’era alcun segno di pericolo, eppure la quiete che s’insinuava in giro faceva quasi venire i brividi. I corridoi bui sospiravano un fiato gelido quanto il clima esterno. I mobili e gli armadietti emettevano il proprio suono notturno, quel suono che ai bambini mette paura.

    Un orologio da parete segnava le quattro e venti.

    In salotto l’uomo si vestì con un paio di jeans, una camicia a quadri e dei mocassini di camoscio marrone. Dopo si avviò verso la cucina senza nemmeno accendere la luce.

    Si concesse un attimo per squadrare il buio al ritmo dei secondi dell’orologio, i quali battevano il tempo dei suoi pensieri. Tanti pensieri, troppi. Il bagliore di un lampione entrava con timidezza dalla finestra di quella cucina, lasciandola in penombra; la osservò... così piccola, così silente. La sua semplicità lo straziò. Le immagini che vedeva sembravano essere mutate, sradicate di colpo dal paradiso delle cose concrete: il tavolo centrale con le sedie ben allineate, il frigorifero carico di quelle calamite assurde che lui aveva sempre odiato, l’armadietto delle stoviglie, la mensola dove c’era la macchina del caffè.

    Prese a mordicchiarsi l’interno della guancia mentre esaminava ogni dettaglio. Ma perché vivo in una casa come questa? Il suo senso dell’autocritica, quel primo giorno di novembre, era piuttosto cattivo. Si sentiva infastidito e rassegnato. Era come se si fosse svegliato da un coma millenario soltanto per accorgersi che tutto ciò che aveva avuto di bello era stato sostituito con degli avanzi Made in China. Da lontano il vento fischiava e creava musica, scagliandosi contro i vetri chiusi delle finestre. I secondi dell’orologio si sforzavano ancora per dare un senso al tempo che lui stava sprecando.

    Senza rendersene conto ricadde nel ricordo della lite avuta al lavoro e, da lì, volò fino al ricordo di suo padre, ormai deceduto, e a quella promessa fatta sul suo letto di morte. Gli sembrò di sentire ancora la voce tremolante del vecchio: Caro, sii felice. Aveva sussurrato quelle parole di un fiato, senza preavviso, facendo nascere in lui il bisogno d’accontentarlo. Lo sarò, babbo. Te lo prometto.

    Di nuovo arrivarono le lacrime. Che bastardo, il nodo allo stomaco si strinse più forte. Prendere così in giro un moribondo.

    La frustrazione si mischiò con l’impotenza di fronte ad un destino apparentemente segnato. Cosa fare? Come muoversi? Come riuscire a superare quelle brutte sensazioni? Era da così tanto che si sentiva un estraneo...

    Aveva bisogno d’aria; non avrebbe potuto resistere un altro attimo in quella casa, in quell’oscurità. Si fece largo tra i mobili sorreggendosi alle pareti come un ubriaco, prese il cappotto dall’attaccapanni e si avviò verso la porta d’ingresso con le mascelle serrate. Niente ha ormai un senso. S’infilò il soprabito offrendo un’occhiata furtiva al salottino ordinato. Restò immobile per un istante, a fissare il vuoto. Poi fronteggiò la porta ancora chiusa. Che cavolo esco a fare? si ammosciò. La contro-domanda che apparve nella testa fu ancora più disarmante: Che cavolo faccio, se rimango?

    Si sentì un povero disgraziato.

    ***

    Appena mise il naso fuori, il freddo gli si scagliò contro. Sollevò il colletto del cappotto e cercò di chiudere la porta a chiave, sentendo le dita intirizzite. Un ronzio lugubre gli rimbombò negli orecchi scoperti, era l’ululato del vento. I capelli sobbalzarono impazziti in tutte le direzioni prima di optare per piegarsi in avanti.

    Con la fronte increspata si strinse il cappotto contro il petto. Il cielo sopra la città era di un colore nero impenetrabile, quasi malevolo. Cercò la luna in preda ad un assurdo desiderio di bellezza, ma non la trovò. S’incamminò dunque con passo svelto verso la sua Fiat Panda modello 1998 di colore bianco sporco, girando di tanto in tanto la faccia in direzione opposta alle raffiche. Ma che freddo è venuto?

    Dentro la macchina si sentì al riparo.

    Nemmeno per un istante si preoccupò per quello che avrebbe fatto dopo; non era importante, in realtà. A quel punto avrebbe potuto tranquillamente restarsene lì per ore finché non gli fosse passata l’urgenza d’isolamento. Uno sguardo al parabrezza lo mise di fronte al velo bianco della brina nei cristalli, un bianco puro che gli diede fastidio agli occhi; troppo limpido per quell’ora del mattino, troppo acceso per il suo stato d’animo grigio. E quel vento, poi! Lo rendeva ancora più nervoso e suscettibile; ululava, ululava, ululava... Odiava il freddo, e quella città. Ma perché avevano comprato casa proprio in quel quartiere, pieno d’immigranti chiassosi e di connazionali maleducati che manco ti davano il buongiorno? Ma perché non erano andati a vivere ai Caraibi?

    La fantasia gli diede un po’ di tregua. Di fatto immaginò se stesso su una spiaggia deserta, ventilata, con il sole che picchiava in faccia. Forse in Costa Rica, oppure a Santo Domingo. Un posto valeva l’altro. Quanto avrebbe dato per essere altrove, tra gli elementi della natura, lontano da tutti, gestendo una vita libera giorno dopo giorno dopo giorno dopo giorno. Senza preoccupazioni. Senza passato. Senza futuro. Magari un giorno ci andrò, si diceva spesso.

    Magari un giorno ci andrò, pensò anche quella mattina, infilando le chiavi nel quadro per accendere il motore. Restò collegato a quel pensiero per qualche istante. "Forse ci andrò. Da pensionato." E si augurò di non schiantare prima.

    Girò la ruota del riscaldamento al massimo e si soffiò le mani gelate per riattivare la circolazione del sangue. Fece un respiro profondo ed eccolo nuovamente fra le solite paturnie: lavoro, matrimonio, promessa mancata al padre. La sua incapacità di dare un taglio alla tristezza lo scocciò. Dato che detestava la gente lagnosa, ben presto si scoprì ad odiare se stesso. Cosa poteva fare per uscire dal cerchio dell’autocommiserazione? Erano mesi che provava alternative, senza successo; continuava a rimpiangere tutto quello che non era e avrebbe voluto essere, continuava a disprezzare tutto quello che era ma che non avrebbe voluto essere mai.

    Estrasse dalla tasca il pacchetto delle sigarette e ne accese una, aspettando che il calore del riscaldamento finisse di sbrinare i cristalli. Fumò, soffiò irritato il fumo dalle narici. Il lamento del vento lo inquietava. E poi... che cavolo stava facendo lì, in macchina, alle quattro del mattino?

    Basta, deciso. Avrebbe chiesto al collega il numero dello psichiatra.

    Fu allora che l’immagine della casa cominciò ad affacciarsi tra le chiazze del ghiaccio che si scioglieva, catturandone l’attenzione. Si accorse di una particolarità: la sua piccola dimora era, appunto, molto piccola. Troppo, per i suoi gusti. Modesta e confortevole, sì, ma lontana un miglio dall’idea di casa che lui aveva sempre sognato. Sebbene sua moglie avesse messo grande impegno nel renderla un pochino meno impersonale e un pochino più accogliente, attaccando aggeggi inutili a destra e a manca, disegnando fiorellini sulla cassetta della posta e colorando la porta e le finestre di un arancione furioso, la casa di per sé era piuttosto ordinaria. Una casa qualunque, insomma.

    Una casa qualunque per un uomo qualunque.

    Sbuffò. Gli sarebbe andata una birra. E si domandò se gli ansiolitici funzionassero anche se assunti con l’alcol.

    ***

    Aveva sempre creduto che da grande sarebbe diventato un neurologo. Perché proprio un neurologo? Non c’era una risposta a quella domanda. A volte i bambini possiedono delle certezze che dopo perdono per strada, dimenticandole per sempre o quasi. È parte del crescere, forse. Si cresce e ci si confonde. Il punto è che l’uomo seduto in macchina si era messo a rammentare con nostalgia quei suoi sogni d’infanzia e i vecchi giorni all’università.

    Ricordava tutto come fosse stato ieri, eppure erano passati vent’anni: le mattine cariche d’ansia davanti ai libri di biologia molecolare, i professori ostili e quegli alla mano, gli appunti con una grafia svelta che poi non riusciva a decodificare nessuno, nemmeno lui stesso. Il primo anno all’università era stato molto duro per quel ragazzo inesperto e maldestro. Non era abituato al ritmo di studio richiesto. Troppi libri, troppi temi, nessuna spalla sulla quale appoggiarsi. Alla fine però aveva tenuto botta come un grande.

    Un sospiro gli uscì dalla bocca. Se vent’anni addietro non avesse mollato tutto, a quell’ora avrebbe potuto essere un medico, forse primario di neurologia, oppure un ricercatore scientifico. Invece, no. A quarantasei anni si ritrovava fra le mani soltanto una triste mansione d’operaio di fabbrica che a malapena lo faceva arrivare alla fine del mese. Un mediocre, in sintesi, con una qualifica specializzata che non gli sarebbe servita a niente tranne che a pulirsi il culo qualora fosse finita la carta igienica.

    Abbassò il finestrino e scaraventò per strada il mozzicone.

    «Merda», borbottò.

    La sua vita stava andando a rotoli e ancora non sapeva

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