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Tienimi ancora per mano
Tienimi ancora per mano
Tienimi ancora per mano
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Tienimi ancora per mano

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About this ebook

Tra poco Arianna compirà sessant’otto anni; gioie ricordate con tenerezza e dolori messi in un cassetto: impossibile buttare la chiave. La sua casa è bella. La sua vita è appagante. C’è solo una ferita sottopelle che torna a galla: è il ricordo di Leda, la sorellina creduta morta a circa sei anni. In realtà fu data in adozione, come altri bambini nel primo dopoguerra, con la certezza di una vita agiata e gli studi assicurati per l’adolescente Arianna. La piccola fu indotta a credere che Stefana ed Ezio non fossero i veri genitori come Arianna non era sua sorella. Di loro le resterà un orsacchiotto e un foglietto con scritti i nomi che avrebbe dovuto dimenticare. Da tenere nascosto. 
Solo dopo oltre mezzo secolo la verità mancante tornerà a galla con prepotenza e dolcezza. Le due donne, ormai madri e nonne, potranno ricostruire, tessera dopo tessera, come un mosaico, la parte sconosciuta delle loro vite tramite le lettere scritte per loro dalla madre e il rinvenimento del diario della Madre Superiora, destinato ad Arianna, a cui una suora un po’ bizzarra aveva aggiunto note graffianti.
La storia è raccontata da Arianna e dal regista del loro ritrovarsi, il notaio Massimo Morandini, uomo di legge, ma anche persona attenta alle dinamiche psicologiche delle due sorella, ingannate in modo così terribile. 
LanguageItaliano
PublisherCarta e Penna
Release dateMar 27, 2019
ISBN9788869321757
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    Tienimi ancora per mano - Fosca Andraghetti

    Filippo.

    1

    Arianna

    Primo giorno di primavera oggi. Chiudo gli occhi e offro il viso al primo sole mentre il cancelletto si apre, con un lieve cigolio, per chiudersi poi alle mie spalle con un tonfo secco.

    Mi fermo un momento per osservare il giardino dove le giunchiglie sono nel pieno di una precoce fioritura con il loro giallo sfacciato e lo stelo rigoglioso. Più in basso, ci sono le viole mescolate alle primule, appena visibili dalla parte inferiore della rete di recinzione.

    Alle mie spalle il ponte Alidosi con la sua schiena d’asino scavalca il Santerno da oltre cinquecento anni.

    Le pendici intorno sono coperte da boschi cedui e castagneti, sopra il fiume le terrazze sono coltivate a frutteti.

    Come in genere ogni antico e grande paese montano, nel centro storico ci sono vie strette e palazzi antichi, una piazza, una chiesa parrocchiale e un palazzo castello. Ci sono feste, fiere e un mercato settimanale.

    Questo paese me lo gusto ogni giorno da molti anni. Respiro il mutare delle stagioni con tutto ciò che questo comporta. Continuo ad inebriarmi come la prima volta che l’ho visto e ho capito di essere arrivata a casa.

    Respiro ed espiro adagio.

    La natura si è risvegliata finalmente e quelle macchie di colore mettono allegria. Alzo gli occhi al cielo dove le scie di due aeroplani si stanno incrociando per poi trasformarsi, pigramente, in trecce che si gonfiano e vanno infine a confondersi con tracce sfilacciate di nuvole.

    Sorrido al nulla e mi dirigo a passo svelto verso la piazza del paese. Ho il cuore pieno di gratitudine per ciò che la vita mi sta regalando giorno dopo giorno. Gli anni bui sono lontani e di quel passato pesante sono rimasti ormai pochi segni, come lievi scorticature sulla pelle. Dimenticare, smussare rancori, evitare di chiedere perché con il suono di una preghiera è stato difficile, doloroso come può essere il distruggere deliberatamente sentimenti e affetti. Rimuovere dalla propria vita uomini, donne e bambini.

    Arriva un momento in cui le persone se ne vanno per altri pascoli, a loro non potremo più chiedere perché, che cosa, dove, come. Non lo potremo fare perché non sono più parte di questa vita.

    Ci volteremo a cercarli, forse ci stupiremo o ci rammaricheremo perché non sono più lì a darci delle risposte. Non potremo nemmeno chiedere scusa per ciò che non siamo stati e che invece loro avrebbero voluto che fossimo. Non ci potranno chiedere scusa per ciò che hanno fatto credendo fosse la cosa migliore per noi, per tutti. E poiché di vite ne abbiamo sempre una sola e a senso unico, è bene cercare di metabolizzare ogni dolore, magari traendone insegnamento, se possibile. Ma mai incancrenirsi sulle devastazioni che dolori, grandi o piccoli che siano, ci hanno causato. Le ferite non si rimargineranno mai del tutto, è vero, ma usare ciò che le ha procurate come alibi non va bene. Me lo sono ripetuta per anni, per tutto il tempo in cui non sono riuscita a trovare una persona capace di ascoltare anche ciò che le mie parole non riuscivano ad esprimere. Me lo sono ripetuta fino a quando ho incontrato Gilberto, mio marito.

    La sensazione di vertigine è arrivata all’improvviso. A tradimento. La sensazione di fluttuare nel vuoto come se non ci fosse nient’altro. Come se avvertissi che qualcosa stava per succedere. E di solito non è mai niente di buono. In questo momento la mia vita non potrebbe andare meglio, mi dico mentalmente che non c’è nessuna ragione perché avverta una sensazione così profonda di disagio. I bambini sono a scuola, mio marito mi ha appena telefonato per dirmi che è arrivato in cantiere. Mia figlia l’ho incontrata un’ora fa mentre si recava al lavoro. Mio figlio mi ha inviato un sms ed è già molto per lui. Non lo si può certo definire ciarliero e si è pure trovato una moglie che non ha freni alle parole. Una scusa per parlare ancora meno.

    La strada ciottolosa è deserta, solo il rumore quasi impercettibile dei miei passi e forse quel batticuore improvviso che, in fondo, mi intimorisce.

    Ci sono giornate indimenticabili. Ci sono giornate dove il sole ti accompagna anche se non c’è. Ci sono giornate dove l’aria dei monti ti accarezza anche se ti porta nuvole nere. Ci sono giornate dove l’urgenza di un abbraccio è irrinunciabile. Non poterlo avere innervosisce.

    Un sensazione che di botto percepisco con maggiore intensità.

    So di avere davanti una giornata piuttosto impegnativa: la spesa, una torta o magari due per Rosa, poi andare a scuola a prendere la piccola Elisa con l’aggiunta di qualche chiacchiera o pettegolezzo leggero con le ex colleghe maestre come me.

    Il mercato è piuttosto affollato e, tra spesa e chiacchiere varie, impiego più tempo del previsto. Devo tornare a casa alla svelta per riuscire a preparare il pranzo e, magari, mettere in forno una crostata per la colazione di domattina. Le torte per il bar di Rosa potrei farle nel pomeriggio con più calma mentre Elisa si dedica ai compiti; è al primo anno di scuola e ne è entusiasta come il primo giorno perché ha ancora tanti amici con i quali giocare e invitare ai picnic favolosi della nonna! Cioè io.

    A nulla vale ripetere ai figli, alla nuora, al genero e ai nipoti che mi stanco a fare dolci e pizzette, apparecchiare sotto la quercia antica, quando la stagione lo permette, controllare che le altalene siano perfettamente funzionanti, eccetera. Magari ci pensasse qualche volta Gilberto! Devo comunque ammettere che, quando non è impegnato nella sua attività di geometra, non disdegna di aiutarmi nelle faccende domestiche o in qualsiasi altra cosa gli chieda.

    Nonna Arianna è vecchia!

    Elisa lo ripete con aria compunta, ma la famiglia intera ride ogni volta perché è proprio buffa con quel suo modo di gonfiare le guance a palloncino per poi fare uscire l’aria adagio e guardare in giro se c’è qualcun’altro bravo come lei.

    Ma dai! Smettila. È che la vorresti sempre a tua disposizione a rimpinzarti di torte al cioccolato e pizzette! scherza Gilberto. Lei mostra linguacce più o meno prominenti e termina con un finto broncio: Con te non gioco più!

    Nonna sprint mi chiamano in realtà un po’ tutti per quel mio immutabile andare quasi di corsa, per la velocità con cui preparo le torte che, quando il tempo me lo permette, cuocio nell’antico forno a legna riattato da Gilberto.

    Ma questa volta dovrò accontentarmi di quello elettrico.

    Talvolta il tempo è davvero tiranno! penso con rammarico.

    Le torte! urla la Rosa che si è affacciata alla porta del bar.

    Te le preparo nel pomeriggio tardi. Passi tu a prenderle?

    Ti mando mio marito, deve parlare con Gilberto per un certo affare!

    Bene allora. Ciao. Scappo, davvero si è fatto tardi e devo darmi da fare!

    Oltre a Rosa, saluto il salumiere, il fornaio, il macellaio e ogni altra persona incrociata lungo il cammino fino a quando arrivo quasi all’imbocco la stretta viuzza che porta alla mia casa.

    Una villetta costruita da mio marito e da mio suocero secondo i miei desideri perché, a loro parere, a me che sembravo destinata non al matrimonio ma ad una vita monastica senza mai avere avuto la vocazione, era quasi doveroso donare in ogni occasione tutto l’amore e la felicità che non avevo mai avuto.

    È sempre stata brava l’Arianna! dicevano le suore e me lo aveva ripetuto spesso anche mio padre, lo aveva fatto fino a quando aveva esalato l’ultimo respiro assieme ad altre tre parole: Io non volevo!.

    Anche mia madre ci aveva provato, perché era ciò che pensava di me, ma quell’antico rancore assieme ad un grande dolore dentro, tante punture di spillo, non erano mai scomparsi completamente; restava, nel parlarle, un accento di ruvidezza che si era alleggerita solo quando la sua malattia aveva richiesto cure e assistenza da parte mia. Mia madre Stefana è deceduta poco più di un anno fa, la malattia l’aveva stremata; una sera si è addormentata e io non ho potuto dirle addio, magari parlare un poco, come facevamo quando eravamo una famiglia unita e felice. Piena di problemi e di fatica di vivere, ma c’era tanto amore anche se a mio padre Ezio bastava mezzo bicchiere di vino perché la lingua cominciasse a farfugliare frasi senza senso. Mia madre allora lo chiudeva in camera da letto impedendogli qualsiasi contatto con il mondo esterno. Non capivo il motivo di tanta rigidità, e glielo chiesi. Rispose che era per il suo bene, che avrebbe iniziato a farfugliare di anni trascorsi in un campo di concentramento; difficile capire cosa stesse dicendo, serviva solo a rinverdire i brutti ricordi. Non andava bene, doveva guardare avanti, pensare alle sue figlie. Poi si colpevolizzava perché lui riusciva sempre a trovare la bottiglia di vino che lei aveva nascosto con cura. Non abbastanza evidentemente, diceva. Con il tempo, la pazienza e l’amore di mia madre e un nuovo lavoro riuscì ad uscire in parte dalle sue problematiche; soffriva infatti di depressione e aiutarlo era più complicato. Di quegli anni in realtà ha sempre raccontato poco, almeno così ha sempre detto mia madre. Deve essere stato comunque qualcosa di tremendo, visto gli incubi che lo perseguitavano come demoni.

    Di Leda ho smesso di parlare, di chiedere come e perché fosse successo. I miei genitori sono sempre stati piuttosto evasivi in proposito; allora abitavamo ancora nel convento di suore e tutti mi trattavano come fossi una bambina piccola nonostante i miei tredici anni. Studiai e studiai per avere il diploma di maestra, per andarmene da lì, per allontanarmi da quel perché senza risposta oramai diventato un tarlo.

    Avevo voltato pagina, ma non avevo mai dimenticato Leda, la mia sorellina perduta, volata via all’improvviso per una brutta malattia. Così mi avevano detto. Leda, la bimba che accudivo come fosse mia figlia e non la sorellina destinata a dare un senso alla mia famiglia, finalmente riunita sotto un unico tetto dopo il calvario del periodo bellico e post.

    I tavoli, nella piazzetta in angolo dove si affacciava il bar di Ernesto, sono al solito quasi tutti occupati. A volte mi fermo pure io per un caffè con qualche amica, ma questa mattina proprio non posso.

    Ciao Arianna, ti stanno cercando!

    Mi sono girata verso il barista che mi stava indicando un elegante signore. Sorseggiava un caffè e pareva non fare caso a nessuno.

    Ernesto ha continuato a raccogliere le tazzine sporche e piene di tovagliolini stropicciati. Io mi sono fermata, meditabonda, a pochi passi dallo sconosciuto. Chi mai poteva essere quell’uomo che aveva preso a sfogliare delle carte estratte da una cartella nera? Cosa poteva volere da me? Avevo la sensazione che il mondo intorno si fosse tramutato in pietra. Il cuore aveva accelerato i battiti. Le premonizioni! Le chiamo così quando il mio istinto, senza ragione alcuna, ‘entra’ in stato di allarme. E il mio istinto non sbaglia mai.

    Ho avuto l’impulso di scappare. Non l’ho fatto per la semplice ragione che il distinto signore ha alzato gli occhi dalle sue carte e mi ha chiamato. O, meglio, ha pronunciato il mio nome come fosse inserito in una normale conversazione. Poi ha aggiunto il cognome, Merisi, e io mi sono avvicinata mettendo un piede davanti all’altro come un automa. Ferma davanti a lui, ho aspettato una parola o un qualsiasi gesto che mi svelasse la sua identità.

    L’uomo si è alzato. È alto, ha i capelli brizzolati e l’aria distinta. Circa sui settant’anni. Mi sorride con cordialità, l’espressione distesa e, dopo, una stretta di mano che ho avvertito amica:

    Sono il Notaio Massimo Morandini, Imola. Le spiace se la chiamo Arianna? Mi scuso per non averla contattata per chiederle un appuntamento, ma desideravo rivedere questo paese che appartiene alla mia infanzia e ho colto l’occasione di venirla ad incontrare personalmente, visto anche la delicatezza di ciò che devo comunicarle.

    Il cuore accelera di nuovo i battiti. Nessuno che io conosca, e che avrebbe potuto lasciarmi un’eredità anche minima, è morto di recente. Perché a questo servono i notai. Cioè anche a questo. Mi sto agitando lo so. Un paio di mesi fa se n’è andata Suor Giuseppa; novantasei anni portati splendidamente. Una mente lucidissima, da parte sua l’antico affetto mai mancato, da parte mia più reticenza perché avevo avuto, e mantenuto, il sospetto che lei sapesse molto di più di quanto voleva farmi credere sulla morte di Leda. Ma quello era un argomento tabù.

    Mi chiedo se sia il caso di invitare il notaio a casa mia. Il tremito dentro non accenna a diminuire così mi concentro sulla torta che non avrei potuto fare e aspetto.

    È il notaio stesso a togliermi dall’imbarazzo invitandomi a seguirlo nella saletta riservata

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