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Andata e ritorno senza biglietto
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Andata e ritorno senza biglietto

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About this ebook

Un giorno d'inverno, Paolo De Lucia, un giovane laureato, clamorosamente intelligente ma disperato, approfittando dell'assenza dei suoi due coinquilini sale sul davanzale della finestra per farla finita, ma qualcosa non va per il verso giusto. In ospedale Paolo fa un incontro "strano" con un'infermiera e da lì in avanti la sua vita cambia. Forse.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 29, 2019
ISBN9788831611879
Andata e ritorno senza biglietto

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    Andata e ritorno senza biglietto - Antonio de Gennaro

    633/1941.

    Uno

    Mi svegliai sul divano. Non ricordavo nulla della notte appena trascorsa. Dal lettore cd mi arrivavano le note di Crime of century dei Supertramp. Aprii gli occhi ancora stordito, lo stomaco sottosopra. Provai ad alzarmi ma un capogiro mi rimise giù. Urtai con la mano una bottiglia di birra che tintinnò sul pavimento prima di ruzzolare via. Cercai di prenderla e invece ne feci cadere un’altra che si mise a inseguire la prima. Mi voltai e guardai meglio. Un esercito di Leffe bionde stazionava sul pavimento tra il tavolino di vetro e il divano su cui ero sdraiato a pancia sotto. Le contai. Undici. O forse dodici. Ricontai. Sì, dodici.

    Possibile? Ho bevuto dodici birre ieri sera? Io che a stento arrivo a tre?

    Le guardai ancora. Si muovevano, ballavano tutte assieme. Ora in circolo ora in coppia. Con movimenti sinuosi e conturbanti. Mi stropicciai gli occhi e una fitta alla tempia mi annunciò l’arrivo di un terribile mal di testa. Mi alzai piano, mi misi a sedere e reclinai la testa all’indietro. Fissai il soffitto. Cominciò a vorticare. Richiusi gli occhi e l’ottundimento dei sensi mi sembrò evidente. Mi pareva d’esser precipitato in una dimensione vischiosa, densa, in un tunnel dal quale percepivo in differita suoni, colori e immagini. Pensai al suicidio. Fu un attimo. Mi alzai dal divano e con difficoltà, inciampai prima in un tappeto e sbattei poi violentemente il ginocchio destro in una sedia, raggiunsi la finestra. Un bel volo e l’avrei fatta finita con quella vita di merda. Una volta e per tutte. E me ne sarei andato diritto diritto in Paradiso. Sì perché Diosanto me lo meritavo il Paradiso dopo tutto quello che avevo sopportato sulla terra. Tirai su le tapparelle. Spalancai le imposte. Pioveva a dirotto. Guardai giù. Volevo essere certo che non passasse nessuno: volevo morire con la coscienza a posto, non volevo correre il rischio di schiacciare qualcuno e portarlo con me dal Creatore o far schiantare di infarto una povera vecchina che passava di lì dopo aver comprato mele e cavoli dall’ortolano sotto il palazzo. La strada era deserta. Il momento era propizio. Alzai la testa verso il cielo poi diedi uno sguardo intorno. L’ultimo. Tutto era grigio e distante. Tutto era così tremendamente anonimo e impersonale. Il mondo se ne fregava bellamente del suicidio di un trentenne avvilito e sconfitto. In quel momento il mondo era fuori da quella finestra e andava avanti, lavorava, chiacchierava, giocava, scopava, mangiava e beveva, cagava e si puliva il culo, forse. E l’indomani? L’indomani si sarebbe stupito di fronte a quel gesto inconsulto di quel ragazzo così perbene. Già li vedevo quegli avvoltoi dei cronisti delle tv locali che si sarebbero fiondati sul posto per raccogliere qualche testimonianza, qualche notizia sul disgraziato che si era buttato dal sesto piano riducendosi a una poltiglia sull’asfalto. E già le immaginavo le espressioni affrante e le risposte della gente del quartiere, di persone che nemmeno mi conoscevano: 

    Era così carino ed educato, persino timido. Quando lo incrociavi ti salutava sempre con cordialità e spesso si fermava a fare due chiacchiere. Era proprio un bravo ragazzo, come non ce ne sono più.

    Ma andate a fare in culo…sai cosa me ne faccio della vostra ipocrisia…del vostro perbenismo. Io mi sto suicidando e voi ve ne state là fuori. E non cercate nemmeno di fermarmi… biascicai a denti stretti.

    Il lettore cd suonava ora Money for nothing dei Dire Straits. Lo conoscevo a memoria quel cd. L’avevo fatto io scaricando le canzoni da internet. Era il mio preferito. Si sarebbero succedute nell’ordine: Tunnel of love sempre dei Dire Straits, Child of vision e Take the long way home dei Supertramp, Shape of my heart di Sting, Baby what else can i do? e Coochi coochi coo di Ella Fitzgerald, La vie en rose di Edith Piaf, Valentine di Maurice Chevalier, Melancolie di Jean Sablon, Saradonga di Compay Segundo, The girl from Ipanema di Antonio Carlos Jobim, Bamboleo eseguita da Josè Feliciano, Purple Haze di Jimi Hendrix e, dulcis in fundo, Natural Mystic e Guiltiness di Bob Marley e tre pezzi di George Benson: Off Broadway, Moody’s Mood e New Day.

    Che grande cd. Da intenditori. Quando i carabinieri entreranno in casa non avranno la forza, ammaliati da queste note, di spegnere il lettore. E allora il mio fantasma danzerà per la stanza alla facciaccia di quegli agenti che nemmeno conoscono questi cantanti. E in quel preciso momento arriverà un commissario coi capelli bianchi più curioso e impertinente degli altri, cercherà e troverà la custodia del mio cd e leggerà i nomi delle canzoni e degli artisti. Anche lui non ne conoscerà nemmeno uno, ma fingerà di saperne più dei suoi uomini e con aria annoiata poserà la custodia dove l’avrà trovata. Poi comincerà a gironzolare per la stanza prima di decidersi a chiamare la scientifica per capire se mi sono buttato o se mi hanno buttato. E quando uscirà dal palazzo i cronisti della carta stampata lo attenderanno con una sfilza di domande: Allora cosa è successo?, Omicidio o suicidio?, Il ragazzo che tipo era? Ha trovato qualcosa su di lui? Nel quartiere si dice che fosse una brava persona, un tipo un po’ introverso ma a posto, anche se alcune voci parlano di problemi di droga…. Lui filerà diritto avvolto nel suo cappotto e se ne uscirà con una battuta a effetto, stile telefilm americani: Non sappiamo ancora nulla. La scientifica sta facendo i suoi rilevamenti. Posso solo dire che era un grande esperto di musica. Così il giorno dopo, in prima pagina sul quotidiano locale, si leggerà: Trentenne precipita dal sesto piano: omicidio o suicidio? Si indaga E nell’articolo tutta una serie di cazzate madornali, non ultima l’indiscrezione secondo la quale si trattasse di un musicista con problemi di droga. L’ennesima beffa. Così neanche la morte direbbe davvero chi sono. Ma perché? Chi sono?

    Fantasticavo questi ragionamenti quando a un tratto, da lontano, mi arrivò distinto il suono di un clacson inferocito. E poi un altro e un altro e un altro ancora. A comporre un’orchestra il cui suono infernale copriva la mia meravigliosa musica. Immaginai la città allagata, il traffico paralizzato e gli automobilisti incazzati neri. Li vidi soli, nelle loro utilitarie. Tristi. Magari diretti da qualche parte dove non avevano voglia di andare.

    Se ci fosse più gente con la testa il numero di suicidi si moltiplicherebbe. E con questo che vorresti dire, che tu hai testa? E bravo il presuntuoso! Ma quale presuntuoso, è la verità. Sono intelligente. Clamorosamente intelligente e per questo mi ammazzo.

    Con questo pensiero in testa misi il piede sinistro sul termosifone, scavalcai col destro il davanzale e mi ci sedetti sopra. Ora avevo una gamba fuori dalla finestra e un’altra dentro. Stessa cosa valeva per le braccia.

    Chicchi grossi come acini d’uva lasciavano la loro orma sui miei jeans e in pochi secondi mi inzupparono tutto il lato destro. Dalla scarpa alla spalla. Allora tirai la testa un po’ più fuori e lasciai che la pioggia facesse lo stesso lavoro anche con i capelli e il viso. Appoggiai il dorso al marmo laterale della finestra, mi agganciai col piede sinistro nello spazio tra il termosifone e la parete retrostante e mi sporsi per bagnarmi come volevo. Guardai giù. Ebbi un capogiro, avevo sempre sofferto di vertigini, ma riuscii a rimanere in quella posizione. Non passava un’anima. Il cielo s’era fatto nero. Livido. La pioggia era diventata grandine e l’acquazzone una tempesta con tutti i crismi. Ero contento. Soddisfatto della mia decisione.

    Ho scelto la giornata ideale per morire.

    Cominciai a sudare, ma non ebbi paura. Sentii il sudore mischiarsi all’acqua nella parte destra del corpo. Una sensazione strana. Pensai a mia madre. Alla faccia che avrebbe fatto quando le avrebbero dato la notizia.

    Fanculo pure tu. Basta. Ora o mai più.

    Feci per gettarmi di sotto ma in quel preciso momento un fulmine saettò vicinissimo e violentò i miei occhi. Li chiusi e per la paura mi ritrassi. Mi ritrovai disteso sul pavimento del mio salotto. Col piede sinistro agganciato ancora al termosifone e torto in una posizione innaturale. Il dolore era allucinante. Liberai la gamba e quando la rimisi giù mi accorsi che non riuscivo a muovere il piede. Era come addormentato. Toccai la caviglia. Mille spilli vi si conficcarono all’istante. Gettai un urlo disumano, mi rovesciai sul pavimento e vomitai per il dolore. S’era rotto qualcosa. Dovevo andare all’ospedale. Ma come? Non potevo guidare in quello stato.

    Mi alzai a fatica e su una gamba raggiunsi il freezer. Misi una decina di cubetti di ghiaccio in un panno da cucina, mi sedetti sul divano, mi tolsi la scarpa e applicai l’impacco sulla caviglia. Poi pensai di chiamare mio padre. Mi allungai sulla cassettiera che era di fianco al divano e presi il telefono. Composi il numero ma qualcosa mi fermò. Il solito fastidio che provavo ogni volta che dovevo ricorrere a mio padre per risolvere un problema. Riattaccai. Non potevo chiedergli di portarmi all’ospedale. Sarebbe arrivato con quella sua aria spocchiosa, col suo fisico asciutto, coi capelli curati e l’immancabile abbronzatura anche in pieno inverno e col solito sorriso irridente mi avrebbe detto: Guarda qua io sessanta e tu trenta e sono ancora io che devo sorreggerti. Quando imparerai a camminare da solo?. Dopo la punzecchiatura iniziale alla quale non avrei abboccato mi avrebbe guardato con disprezzo e avrebbe continuato: Ma perché non ti curi un po’. Sei sempre trasandato. Fatti sta barba. Mettiti una camicia ogni tanto. Vestiti meglio. Stai sempre con questi jeans e ste t-shirt da mercatino. Sembri uno di questi comunistelli alcolizzati e cannaioli…. Al che l’avrei interrotto dopo aver sbuffato: Ma pensa a te, che sembri un manichino della standa, un  poliziotto da quattro soldi che si sente Dio solo perché sta con una con quindici anni di meno, molto culo e poco altro. A quel punto lui avrebbe fatto finta di non sentire e, guardandosi intorno, avrebbe cambiato bersaglio dicendomi: E guarda qua in che razza di porcilaia vivi. Tu e quegli altri due falliti dei tuoi amici. Tre depressi senza uno straccio di donna…. Al che mi sarei avventato su di lui per colpirlo come era già successo altre volte. Lui avrebbe schivato il colpo e dopo avermi immobilizzato a terra con una mossa imparata in uno di quei corsi di difesa personale che si organizzavano nella palestra che lui frequentava quando ancora stava con mamma, mi avrebbe detto: Non ci provare più, perché ora ti sei rotto la zampa, la prossima volta ti spezzo io le braccine.

    Negli ultimi dieci anni troppe volte avevo vissuto scene simili e il giorno in cui ero andato a vivere per conto mio mi ero ripromesso che mai avrei chiesto un favore a mio padre. Mai. Ma poi, parliamoci chiaramente: non gliel’avrei mai data la soddisfazione di vedermi conciato in quel modo. E quando mi avrebbe chiesto, perché me l’avrebbe sicuramente chiesto, in che modo mi fossi procurato quella caviglia gonfia come una zampogna, cosa avrei risposto? Volevo suicidarmi ma qualcosa non ha funzionato ? Sai che risate si sarebbe fatto. No, non l’avrei mai chiamato. Buttai il telefono sul divano e decisi di aspettare che tornassero Piero e Fulvio. I miei due coinquilini.

    Andai in bagno a prendere un po’ di carta per pulire il vomito. Zampettando su una gamba sola. Quando arrivai di fronte allo specchio fui bloccato dalla mia immagine riflessa. Una figura surreale. Il lato destro era bagnato fradicio e quello sinistro era completamente asciutto. La gamba destra del jeans blu scuro, quella sinistra blu chiaro. La manica destra della maglia inzuppata e  attaccata al corpo, quella sinistra più gonfia e libera. I capelli poi! Mamma mia che spavento! A destra la pioggia li aveva afflosciati e piegati in avanti. A sinistra invece i soliti riccioli crespi. Un mostro. Sembravo un mostro mitologico o qualcosa del genere. Rimasi scosso. Pensai all’ambivalenza di tutte le cose. Pensai a quanto siamo ambigui, duplici, ma interi allo stesso tempo. C’era un mondo in quella immagine che mi stava di fronte estranea e immobile, familiare e viva. Mossi un braccio, quello destro. Sollevai la mano verso il viso, chiusi gli occhi e mi toccai la faccia poi feci la stessa cosa con la mano sinistra. Era diverso. La sensazione al tatto era diversa. Aprii gli occhi e fissai le mani. Una tutta raggrinzita, spugnata. L’altra candida e asciutta. Erano le mie mani. Erano uguali, ma ora così diverse. Una avrebbe provocato ribrezzo, fredda e rattrappita com’era. Dall’altra, liscia come quella di un pianista, si sarebbe fatto accarezzare volentieri chiunque.

    Sono questo dunque. Sono anche questo. Sono tutto questo.

    Guardavo le mie mani. Ora l’una, ora l’altra e mi ripetevo sottovoce: Sono questa. Sì, ma sono anche questa. Sono tutte e due. Ora sono l’una, ora l’altra ma sono tutte e due. Ci sono sempre tutte e due. A volte agisce una, a volte l’altra. In alcuni casi persino insieme.

    Le rimisi giù e cominciai a fissare il viso. Metà faccia piangeva. L’altra pareva serena. Accennai un sorriso a mezza faccia tenendo ferma quella che piangeva. Ci riuscii. Mi sorpresi. Anche nella sofferenza dunque avrei potuto trovare uno spazio di felicità. Mi parve una cosa straordinaria. E quell’immagine un capolavoro ai limiti dell’umano. Quasi come La Gioconda di Leonardo.

    Sono questo dunque. Sono anche questo. Sono tutto questo. E altro ancora. Chissà quante cose di me non so. Chissà quante e quali facce mi restano ancora sconosciute. Sono bene e male. Sono tutto. Ma questo il mondo non lo sa.

    Mi sentii forte, ma nel momento in cui spostai tutto il peso sul piede sinistro per tornare di là in salotto mi piegai su me stesso e cacciai fuori un altro urlo. Presi lo sgabello e mi ci sedetti sopra. Piansi. Un pianto forte e disperato. Con la testa appoggiata al lavandino. Poi mi ricordai del vomito. Mi alzai, srotolai un po’ di carta igienica, pulii il pavimento, poi tornai in bagno e mi asciugai col fon. Vidi la mia faccia tornare quella di sempre, ma ora sapevo che c’era anche l’altra, quella che nessuno poteva vedere. Poi asciugai i panni e andai a buttarmi sul divano esausto. Qui, con lo stomaco in subbuglio, scoprii il motivo della sbornia della notte precedente.

    Due

    Le motivazioni di quella notte da tregenda mi stavano di fronte, sul tavolino di vetro, e mi fissavano con due occhi grandi e azzurri e un sorriso così solare da abbronzarti se avevi la fortuna di starci davanti. Era una foto di lei. L’avevo scattata a Montepulciano, un venerdì di giugno in cui era salita da Napoli per stare tre giorni con me. A quel tempo facevo un Master post-laurea a Firenze e per via della lontananza ci vedevamo davvero poco. Di solito scendevo io una volta al mese. Preferivo così perché ne approfittavo per rivedere gli amici e soprattutto per fare qualche partitella di calcetto che a Firenze mi era difficile organizzare.

    Di lei, quella era decisamente la foto più bella che avevo. La ritraeva distesa su un muretto, con una mano a reggersi la testa e l’altra lungo la curva dei fianchi. I capelli neri tagliati corti come le avevo chiesto io e un ciuffo più lungo sulla fronte, vezzo che aveva scelto lei e che non mi dispiaceva affatto, soprattutto quando facevamo l’amore e le scendeva sul viso trasfigurato dal piacere. In dosso aveva un paio di scarpette da ginnastica, un blue jeans aderente e una maglietta colorata dove prevalevano il giallo, l’arancione e il rosso. Quella foto era lei. Me la restituiva fedelmente. Tutto mi parlava della sua semplicità, di quell’armonia naturale che mi aveva colpito sin dal primo giorno, quando l’avevo incrociata sulle scale della Federico II a Napoli. Che quella foto mi parlasse di lei meglio di qualsiasi altra cosa l’avevo capito il ventuno dicembre di due anni prima quando Francesca se ne andò per sempre. Quel giorno, non lo potrò più dimenticare, squillò il cellulare. La suoneria diversa, che lei aveva imposto perché a ragione riteneva di essere differente dagli altri e che lei stessa aveva registrato per la mia atavica avversione verso i cellulari nonché per la mia proverbiale incapacità a maneggiarli, mi annunciò che era Francesca. Balzai dal letto come morso da una tarantola e mi diressi verso la scrivania. Il cellulare non c’era ma continuava a squillare e più squillava più cresceva in me l’ansia di trovarlo in fretta perché quello poteva essere l’ultimo treno per la felicità. Sì, perché Francesca mi aveva lasciato ormai da un anno. Avevo fatto di tutto per riconquistarla. Le avevo spedito a casa un mazzo di centouno rose con centouno bigliettini diversi. Le avevo fatto recapitare un dvd con tutte le nostre foto e un mio soliloquio finale in cui, col viso afflitto e un groppo in gola, la supplicavo di tornare. Mi ero presentato sotto casa sua con un’orchestrina per una serenata. Un giorno più cupo e triste di altri ero andato dai condomini che abitavano proprio di fronte casa sua, al terzo piano, a dieci metri dalla finestra della sua cameretta, e avevo chiesto il permesso di appendere uno striscione ai loro balconi. Quelli, gentilissimi, me lo accordarono e anzi, quando il mattino seguente mi presentai con lo striscione, gli uomini mi aiutarono a metterlo e le donne provarono a consolarmi dicendomi che se non fosse tornata dopo una cosa del genere tanto valeva lasciar perdere perché voleva dire che quella ragazza non capiva la fortuna (io?) che gli era capitata. Sullo striscione c’era scritto: Francy, torna da me. Sei la mia vita. Ma neanche questo servì. Ogni volta che avevo un’idea nuova mi sembrava quella giusta. Mi sentivo ringalluzzito e pieno di speranze, sicuro che quel gesto avrebbe abbattuto il suo muro. Allora mi mettevo al lavoro per realizzare l’idea, lavoravo notte e giorno e, impegnato, trascorrevo qualche ora più lieta, ma ogni fallimento mi faceva sprofondare di qualche metro. Dopo lo striscione mi incattivii e cominciai a pensare che ci fosse un altro. Come faceva a rimanere insensibile a tutto quello che stavo facendo per lei? C’era una sola spiegazione: un altro uomo. E fu allora che feci tutta una serie di clamorosi errori che ebbero come risultato quello di allontanarla definitivamente. Cominciai a pedinarla. Mi presentavo davanti all’università. Cercavo il suo motorino e mi ci sedevo sopra in attesa che finisse di seguire le lezioni e quando arrivava la tempestavo di domande su quell’altro, quello che era entrato nella sua vita di soppiatto, come un ladro, dalla finestra quando probabilmente c’ero ancora io in casa. Quello che, forse era più bello di me? Più alto, più magro? E cosa faceva questo bastardo figlio di puttana? Andava in giro a consolare le donne deluse?

    Altre volte invece aspettavo in macchina sotto casa sua. Ore e ore senza far nulla. Con la speranza di beccarla con quell’altro, di vederlo in faccia quello schifo d’uomo. E invece scendeva sempre dalla stessa auto. Quella di Miriam, la sua migliore amica. Tutte le volte che mi sono appostato davanti casa l’ho vista scendere dalla seicento blu di Miriam. Allora come un pazzo scendevo dalla mia macchina e la fermavo prima che entrasse nel palazzo. E anche qui la solita sfilza di domande che non riuscivo a trattenere e alle quali lei rispondeva sempre nella stessa maniera e con tono pacato: Paolo, non c’è nessuno, come te lo devo dire. Non vedo nessuno. Non mi piace nessuno, ma non voglio stare più con te. E’ finita, mettitelo in testa. Sono stata troppo male. Ora mi sento meglio. Perché fai così? Non capisci che mi fai solo del male? Sto meglio quando non ti vedo. E’ finita. Rassegnati.

    Mi guardava negli occhi e capivo che diceva la verità. Allora tornavo a casa più sconfitto di prima e non riuscivo a trovare soluzioni. Mi sentivo in trappola. Così, decisi di smetterla. Mi rasai i capelli a zero, mi scrissi in palestra, cambiai locali e zone di uscite serali. Cominciai a frequentare gente nuova e conobbi qualche ragazza. Decisi di combattere insomma. Ma durò poco. Tre mesi. Una sera infatti, riconobbi la sua macchina nel parcheggio di un cinema. Mi appostai in modo che da qualunque parte fosse arrivata non avrebbe potuto vedermi e aspettai. Incuriosito ma con una strana e brutta sensazione in fondo allo stomaco. Dopo un’ora la vidi arrivare mano nella mano con un ragazzo. Era alto e moro, con

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