L'Ospedale Fantasma.: La realtà non esiste. Romanzo.
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Book preview
L'Ospedale Fantasma. - Federico Berti
Indice
L'OSPEDALE FANTASMA
Premessa
Prologo
Ne uccide più la penna
Un uomo in cenere
L'angelo della robotica
L'imperatrice dei ragni
Il castello dei sogni proibiti
Topi di laboratorio
Steampunk guitar
Mistero in biblioteca
L'archivio dei pazzi
La pineta brucia
L'uomo con la balestra
Un teatro in soffitta
La morte in vacanza
Una festa crudele
La macchina dei sogni
Le foglie morte
La cospirazione del tortellino
Vita di San Precario
Donkey Kong
Una ferita al cuore
Angeli prendono il volo
La visita del sindaco
Flower Power
L'invincibile armata
Un criminale a comizio
La fuga dell'assassino
Il mestiere del giornalista
L'occupazione dell'ospedale
Cyberpunk!
La rivolta degli aquiloni
Le leggi della robotica
L'androide e la donna
L'imperatrice è guarita
L'angelo caduto
Saluti e baci
Epilogo
L'OSPEDALE FANTASMA
LA REALTA' NON ESISTE
Romanzo di Federico Berti
Monghidoro, 2018
Questo è un romanzo di fantasia.
Ogni riferimento a fatti, personaggi
o cose reali è puramente casuale
Prologo
A vederla da qui sembra una gigantesca pentola di panna montata, vien voglia di mangiarsela questa valle affogandovi dentro come un cane col muso nella ciotola. Pensare che son solo nuvole basse. Paese arroccato sul nulla, un centro disabitato in cui l’aria s’infila sotto i piedi sollevando il corpo dei residenti più in alto di quanto loro stessi vorrebbero, talvolta si ha la sensazione di vagare sperduti nel castello del mago Atlante, con le sue stanze piene d’illusioni ora benevole e carezzevoli, ora tremende e vendicatrici. Sospiro innanzi a una vetrata sporca da cui il vento s’infila urlando, penso alla fatalità che m’ha scaraventato qui dentro. Ma andiamo con ordine, il luogo in cui mi trovo merita considerazione.
E’ stato per cent’anni un glorioso ospedale. Quando il marchese delle Fontanelle Alderico Barbacani si rese conto che nella tomba l’avrebbero infilato ignudo come un lombrico, pensò vomitando bile e rotolandosi nel capezzale che poteva se non altro andarsene con dignità: non appena sentì che il fiato gli sarebbe venuto a mancare mandò a chiamare prima il prete, poi il notaio. Lasciò quindi le sue sostanze a una fondazione religiosa per l’istituzione d’un sanatorio, luogo di cura per poveri e infermi ospitato nei locali d’un convento; non durò a lungo, sette anni più tardi la storia fece il suo corso e l’Unità d’Italia calò come una ghigliottina sul capitolato del clero, si pervenne allora a un’istituto laico pur con l’apporto delle suore che oltre a soccorrere gli ammalati allevavano una temibile armata di gatti per scongiurare la minaccia dei roditori. Fu solo mezzo secolo più tardi che l’opera venne sganciata dal convento e nazionalizzata costruendo il palazzo in cui mi trovo adesso, grazie alle rendite dell’ormai defunto mecenate si acquistarono attrezzature d’avanguardia, venne realizzato un collegamento all’acquedotto pubblico, alla rete elettrica e il riscaldamento a caloriferi che allora non potevano permettersi in molti. Intere genealogie di montanari hanno attraversato queste pareti. Venne poi la modernità portandovi sofisticate apparecchiature, per un po’ s’ebbe l’illusione che il progresso avrebbe allungato la vita umana fino all’età dei giganti. Non durò a lungo nemmeno quello, neanche mezzo secolo più tardi la nazione prese a sfaldarsi come un castello di sabbia, il sistema sanitario finì col decomporsi come aveva fatto molto prima il cadavere del vecchio Barbacani. Al quale non restava che rivoltarsi nella tomba, frantumandosi le ossa polverizzate da un secolo e mezzo di decadenza civile.
Provo a radermi in un lavandino lercio di muffa scrutando il mio volto attraverso un labirinto di aloni sullo specchio incrinato. Fa freddo. Non è più un ospedale il Barbacani di Lolliano, si direbbe piuttosto un manicomio criminale; vi tengono dimora malviventi indagati in custodia cautelare o condannati a pene di second’ordine, qualche assegno falso, ladruncoli da quattro soldi, teppisti di periferia, dipendenze varie, malati di mente, vagabondi e disperati senza fissa dimora convivono tra queste sudicie mura con la povera gente che non può permettersi una clinica privata. E’ un lazzaretto fantasma, dove il personale medico s’avventura malvolentieri. Di tanto in tanto avverto un suono metallico alle mie spalle, una voce inespressiva recita il suo formulario da burocrate senz’anima. Ricordati… Di prendere… Le medicine
. E’ un piccolo automa progettato dall’Istituto di Domotica alla Normale di Pisa per l’assistenza agli infermi, viene a ricordarmi delle pillole; è armato, meglio non contrariarlo. Le nuove tecnologie han prodotto una generazione d’infermieri disoccupati, non più un dottore ma un’associazione di volontari istruiti dalle dispense dei video-corsi. La medicina ridotta a protocollo militare. L’uomo rottama sé stesso creando un simulacro della propria volontà, le macchine sostituiscono il personale sanitario nei luoghi meno fortunati, dove una mano in carne e ossa che venga a infilarti una siringa nel culo è lusso per benestanti.
Siamo soli qui dentro, abbandonati a noi stessi. Una volta alla settimana ignoti fornitori vengono a scaricare nell’atrio l’indispensabile alla sopravvivenza, nessuno degli ospiti l’ha mai visti negli occhi, sono come la fatina dei denti. Quelli tra noi in condizioni di relativa autosufficienza accudiscono i più malconci osservando turni in cucina, corvé alle pulizie, nel magazzino. L’assistente meccanico prende nota dei nostri valori, procura le diagnosi da inviare a una schiera di volontari che sulla base delle loro annotazioni prescrivono farmaci osservando non so che normative. Niente di personale. L’ipotesi della fuga non sfiora alcuno dei ricoverati, sebbene in verità le porte siano aperte non v’è allarme né sentinella a sorvegliare l’uscio, ma un sistema di telecamere a circuito chiuso controllate da una rete di satelliti al sicuro in chissà quale remota orbita nel firmamento, che giorno e notte inquadrano a telecamera fissa ogni palmo dell’edificio; ogni istante della nostra esistenza viene registrato, catalogato, in novanta secondi il servizio d’ordine può circondare la villa con un esercito di mille uomini, cani molecolari, elicotteri e artiglieri armati fino ai denti. Sono consentite le visite dei parenti, per quanto si verifichino solo in rare occasioni. Nella colonia penale sanitaria Alderico Barbacani non esiste il tempo, passato e futuro dissolvono in un eterno presente e lo spazio è disintegrato in un vago nulla del quale non giunge notizia fuori da queste mura. Tale il risultato della pubblica indolenza, vista da qui la realtà non esiste; ma nel parlarvi del fabbricato in cui da qualche giorno risiedo ho dimenticato di spiegare il vero motivo del mio internamento, è tema delicato del quale intendo parlarvi quanto prima.
Ne uccide più la penna
L’ignorante non ha mai dubbi, beato lui penso tra me osservando l’androide fermo sulla porta della mia stanza, in attesa che gli vada incontro per il prelievo del sangue. Un normale controllo, non temo di dovermi preoccupare ma è programmato per seguirmi in capo al mondo se necessario. Non rinuncerà al suo campione. Non si pone domande il calcolatore, segue leggi formulate da un romanziere, mica da uno scienziato. Lui fa quel che è scritto. M’attardo ancora un poco alla finestra scrutando l’orizzonte delle montagne in fiore, dietro le cui vette arrotondate il sole annega lentamente. L’edificio sembra cadere in pezzi ma il corpo della macchina è lucente, pulito come un gatto. Posso essere… Utile?
. Domanda freddo, impersonale. L’ignoranza lo protegge. Pensavo fossero un prodotto dell’immaginazione moderna, quei giocattoli per adulti li incontravo nei libri d’avventura protagonisti di vicende surreali, in un futuro lontano che vaticinava le sorti di un’umanità prigioniera del proprio stesso ingegno.
Cuor di silicio ripeto fra me, pensando ai pirati di Conrad. E’ in dotazione a diverse strutture sanitarie e aziende ospedaliere, ne fan largo impiego anche per l’assistenza a domicilio. Sotto banco si producono esemplari da combattimento, droni per lo spionaggio militare e industriale, oltre alle famose macchine del sesso per benestanti mangiati dalla solitudine, che si possono acquistare a un prezzo ragionevole sul mercato nero. Ognuno di loro ha un nome indicato sul petto, dove gli ufficiali dell’esercito esibiscono di solito le stellette. Aspettami in sala, non tarderò
lo rassicuro. Il manufatto inchinando appena il mento fa cenno d’aver capito, gira su sé stesso e mi lascia solo con i miei pensieri. Un tempo a quest’ora del pomeriggio nei corridoi dell’ospedale Alderico Barbacani si aggiravano premurose le assistenti di servizio recando con sé il carrello con la cena, seguito di lì a poco dall’infermiera per le medicine.
Avevano la cucina nel seminterrato, si mangiava discretamente; poi dovettero appaltare la mensa e qualche volta il brodo insipido non arrivava caldo come l’avresti voluto, ma il sorriso con cui lo servivano ti ripagava dall’obbligata astinenza. Con la nuova gestione tutto è cambiato, ora sono gli ammalati stessi a doversi preparare la cena in accordo col menu compilato dai volontari della croce rossa, sorvegliati da un uomo di latta che preleva sempre un campione del cibo per analizzarne la composizione prima della consegna; se la preparazione è fuori norma il detenuto ai fornelli deve rifarla da capo, tirandosi dietro le bestemmie dei compagni. Il futuro è qui penso tra me, mentre sciupavamo il nostro tempo a filosofare sul corso della storia e sulle ombre della cronaca, lui ci ha aggredito alle spalle.
E’ tempo di spiegarvi come son finito qui, lo avevo promesso. Ultimo discendente da un ramo secondario d’un casato che vanta illustri accademici in prestigiose università europee, i miei antenati facevano appena in tempo a figliare che un’implacabile vicenda giudiziaria li portava a consumare le loro esistenze in galera o sul patibolo a causa di pubblicazioni giudicate pericolose per la salute pubblica. Mi son fatto ricostruire l’albero genealogico da un ebreo del mio quartiere, è una famiglia avventurosa quella da cui provengo; destino tracciato prima ancora che nascessi, al contrario dei miei predecessori le congiure di popolo non fan per me; negli anni ’80 del secolo XX non avevi scelta, se volevi campare nell’editoria non era coi libelli della propaganda che potevi sbarcare il lunario; la politica era venuta noia non solo a me, nello stesso anno in cui a Berlino la gente saltava sui muri col piccone in mano, io m’affermavo con un certo orgoglio nell’editoria spazzatura. Ho pubblicato di tutto, dalle figurine dei calciatori alle riviste scandalistiche, dai finti rotocalchi ai fumetti per ragazzi, dalle cartoline turistiche alle carte da gioco.
Un editore di successo, nel mio settore s’intende; non chiedevo altro alla vita che un bel vestito e una donna di poche parole al mio fianco. Del resto gli scrittori pensano d’esser nati con la penna di Santa Lucia in mano, il consiglio paterno dell’editore viene accolto con durezza. Non ha senso investire in pubblicità per un giovanotto presuntuoso che appena può se ne va per la sua strada e ti lascia in mutande proprio quando stavi per iniziare a guadagnarci qualcosa, per questo in genere scelgo gli autori in misura inversamente proporzionale al loro ingegno, mi basta siano veloci sulla tastiera e non abbiano altra ambizione che riempire dei format predisposti. Insomma, la mia vita correva tranquilla finché uno di loro non ci ha lasciato la pelle: l’han trovato morto nel sotterraneo d’una biblioteca. Il guaio è che aveva descritto in un suo romanzo la scena del delitto, tale e quale a come poi gli s’è rivoltata contro.
Ho avuto la sventura di pubblicare quel libro. Non saprei dire come sia accaduto, di