Morte di una colf
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Morte di una colf - Vito G. Cassano
Vito G. Cassano
MORTE DI UNA COLF
romanzo
Morte di una colf
Copyright ©2019 Vito G. Cassano
All rights reserved
hsl.edizioni@gmail.com
Prima edizione digitale: aprile 2019
In copertina: foto di Filip Mroz/Unsplash
Progetto grafico: Studio HSL Edizioni
Indice
Morte di una colf
I personaggi di questo libro
Un giovedì di marzo del 2004
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Venerdì, fino a dopo mezzanotte
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Sabato, fin dalle prime ore
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Domenica, quando il caso si chiude
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Nota
MORTE DI UNA COLF
L’importante è averli, i soldi. Io sono stata ricca e povera, è molto meglio essere ricca.
Fritz Lang
The Big Heat (1953)
I personaggi di questo libro
Giovanni Anselmi, commissario della Polizia di Stato
Domenico Cacace, ispettore
Andreina Pericoli, agente
Paolo Di Carlo, agente (quello che parla albanese)
Castelli, medico legale
Guido Spadaro, della Polizia Scientifica
Ispettore Caracciolo, della Polizia di frontiera marittima
Teresa Ricci, la vedova
Caterina Ricci, la figlia
Luigino Ricci, il figlio
Francesco Ricci, il defunto marito di Teresa
Gaetano Todisco, amico di Francesco, anche lui defunto
Vincenzo Aricò, avvocato, vivente, amico dei due
Angelina Di Stefano, domestica in casa Ricci
Antonio Ammendola, giardiniere (per farla breve)
Triglia, informatore di polizia
Mario, ristoratore della Marina
Milos Bàlata, aiuto giardiniere (in nero)
Vasil Kopeca, amico di Milos
Anja Vlasic, una bionda spaventata
Lina Ammendola, figlia del giardiniere
Celeste Coviello, baby sitter in casa Cacace
Aida Coviello, sorella di Celeste e amica di Angelina
Primo giorno
Un giovedì di marzo del 2004
1.
Aveva dormito male pensando alla montagna di carte da firmare che quel mattino l’attendeva in ufficio. Così, quando il telefono squillò, sperò che fosse successo finalmente qualcosa, un furto in un supermercato o una cosa così, uno scippo almeno.
«Anselmi», disse sollevando il telefono.
«La signora Ricci per lei, commissario», disse l’agente al centralino.
Niente, non succede mai niente, pensò con delusione Giovanni Anselmi, certo che quella telefonata non potesse in alcun modo rappresentare alibi sufficiente a rimandare oltre il lavoro di stilografica. Guardò con fastidio la pila di documenti che ancora, a metà mattina, non s’era deciso a toccare e strinse gli occhi premendosi una mano appena sopra l’ombelico.
«Sì, grazie», rispose meccanicamente.
Si appoggiò allo schienale e puntò i gomiti sui braccioli. Firmare carte era, fra tutte le incombenze d’ufficio, la cosa che più detestava. Per questo cercava di rimandarla fino a quando l’insistenza di Cacace, e i sensi di colpa suoi propri, non diventavano insopportabili almeno quanto il malessere che quel genere d’attività gli procurava. Solo a pensarci, sentiva come un vuoto alla bocca dello stomaco, ma quello, forse, era anche perché aveva mandato giù solo un caffè da quando s’era svegliato, già in preda a quella specie di panico da burocrazia.
«Buongiorno, commissario», disse quasi subito la vedova Ricci, «la disturbo?»
«Buongiorno, signora. Non mi disturba affatto», disse Anselmi, «anzi…»
Anzi, stava a significare, male che vada, conoscendola, che sarebbero stati dai cinque ai dieci minuti di chiacchiere più o meno inutili alle quali, per cortesia, non poteva sottrarsi.
«Volevo chiederle se in casa è tutto a posto, se c’è qualche problema…»
La vedova Ricci, per intercessione del sindaco, gli aveva affittato, a un canone più che equo e dopo averlo rimesso in ordine e arredato a nuovo, l’appartamento in cui si era trasferito da qualche settimana: una bella casa nel cuore del borgo antico, con il portoncino d’ingresso in una piazzetta nascosta e un’infilata di stanze con grandi finestre luminose da cui si vedeva il mare come dal ponte di comando di una nave. Sdraiato nel suo letto, tutte le mattine, vedeva il sole alzarsi sul filo blu dell’orizzonte.
«È gentile», disse Anselmi, «grazie. In casa va tutto bene…»
«Oh, meno male…» disse la vedova.
«Proprio nessun problema…» aggiunse Giovanni Anselmi che comunque non sapeva proprio cos’altro aggiungere e già temeva, per quanto improbabile, che neanche la vedova avesse altro da dirgli.
«Senta, commissario…»
Infatti. Non poteva essere che fosse tutto finito in meno di dieci secondi.
«Sì…» disse Anselmi trattenendo il fiato.
«È qualche giorno che volevo dirglielo. Perché non viene a cena da noi, una di queste sere? Magari anche stasera se non ha altri impegni…»
«Non vorrei disturbarla troppo…» Anselmi disse indeciso, ma avrebbe voluto dire, invece, per innata diffidenza e abitudine a star solo, che no, grazie, che aveva troppo lavoro in ufficio.
«Nessun disturbo, commissario. L’aspettiamo alle otto», concluse decisa la vedova.
Anselmi tacque un attimo.
«Beh… Allora, grazie, signora. Ci sarò», disse subito dopo chiedendosi, nello stesso tempo, perché s’era arreso così facilmente e perché, soprattutto, avesse alla fine anche aggiunto: «Con piacere.»
Ma probabilmente era perché il noi comprendeva Caterina, primogenita della vedova, che Anselmi a volte incrociava sulla piazza, al mattino, mentre lui, a piedi, andava in commissariato e la donna verso il liceo in cui insegnava. Capelli raccolti, piccoli occhiali da miope, vestita immancabilmente di grigio, la ragazza mostrava certamente più anni di quanti in realtà ne avesse.
«Gran bella donna», s’era lasciato sfuggire, un mattino, l’ispettore Cacace, confermando, in fatto di donne, una profondità d’osservazione che trascendeva le apparenze.
«Ti pare, Cacace?»
«Non mi sbaglio, commissario, mi permetta. Quello che non si capisce è perché non si è sposata. Avrà più di trent’anni, veste come una suora, non ha un amico…»
«Non si può mai dire, Cacace…»
«No, commissario, per il momento si può dire. Qui, le cose, se si fanno si sanno…»
Una noia mortale, indescrivibile, questi compiti in classe. Caterina guardò l’orologio. Neanche mezz’ora da quando aveva dettato il tema. Guardò gli alberi del giardino attraverso i vetri opachi della finestra chiusa.
«Apritela quella finestra, per favore, ragazzi. Solo qualche minuto per lasciare entrare un po’ d’aria. È primavera, non sentite già il profumo del mare?»
C’era da immaginarselo che no. Guardò ancora l’orologio.
Che idea chiamarla a quell’ora per dirle della cena con Anselmi. Lei che il telefonino, quand’era a scuola, lo lasciava acceso solo per le emergenze.
«Solo se ti senti male, se Angelina non c’è, se hai davvero bisogno di qualcosa d’urgente», erano le raccomandazioni per sua madre.
«Solo in punto di morte.»
«Non esagerare, mamma.»
Visto che c’era Angelina che pensava a tutto, sarebbe bastato dirglielo a casa, a ora di pranzo, quella cosa della cena con il commissario Anselmi.
«Mi sembrava importante.»
«Importante una cosa così?»
«Non volevo che prendessi altri impegni.»
Ma se passava in casa trecentosessantacinque sere l’anno, Pasqua, Natale e Capodanno compresi!
«Va bene. Hai sempre ragione tu. Comunque ci sarà anche Vincenzo.»
Anche Aricò. Andava benissimo. Certo che andava bene. Che problema poteva esserci. Comunque sarebbe stata a casa tra un paio d’ore e avrebbero avuto tutto il tempo per parlarne, lista degli invitati, menu, e tutto quanto. Adesso aveva un compito in classe.
«Sembra che sia tu a doverlo fare questo compito.»
«Adesso devo proprio andare, mamma», tagliò corto Caterina.
Poi era rientrata in classe chiedendo scusa ai ragazzi, era tornata alla cattedra e s’era seduta accavallando le gambe. Qualche testa s’era alzata.
«Non vi distraete», aveva detto e mentre lo diceva un leggero rossore le aveva colorato le guance.
Nenn’è cosa, dice fra sé Giovanni Anselmi aprendo l’ultimo fascicolo del grande mucchio che, sulla scrivania, ha spostato con fatica, foglio dopo foglio, da sinistra a destra. Nenn’è cosa de passa’ accussì e’ mmatine, pensa ancora, approssimando al meglio delle sue conoscenze la lingua dei nativi.
Gratta la stilografica sull’ultimo foglio e preme il pulsante dell’interfono.
L’ispettore Cacace si affaccia sulla porta.
«Comandi.»
«Cacace», dice Anselmi indicando il mucchio di carte sulla scrivania, «per qualche giorno, adesso, lasciatemi in pace.»
«Comandi», dice ancora l’ispettore che d’esperienza ha imparato quanto Anselmi sia intrattabile dopo appena un paio d’ore passate a firmare documenti.
Così, senza aggiungere altro, afferra a due mani la pila dei fascicoli e si avvia verso la porta chiusa.
Anselmi intuisce il problema, ma fa appena in tempo a sollevarsi sulla sedia per andargli in aiuto che tutto è già successo. L’ispettore trattiene le carte con il mento e con la mano appena liberata cerca di spingere in giù la maniglia della porta. Ma il delicato equilibrio di forze che costringe il mucchio di carte tra il suo avambraccio e il mento, si rompe all’istante e il mazzo si scompone: il primo fascicolo sputa fuori una manciata di fogli e dietro quello, tutti gli altri. Un attimo dopo, quaranta centimetri di documenti sono sparsi sul pavimento alla rinfusa.
«Cacace…» dice serio Anselmi, faccia costernata, ma che invece vorrebbe ridere.
«Scusi, commissario», balbetta quello già in ginocchio, «rimetto tutto a posto io…»
«E vorrei ben vedere, Cacace…»
«Non so come è successo…»
«Io lo so», dice Anselmi, tanto per sdrammatizzare. «È che queste carte le firmo tutte insieme all’ultimo momento…»
«Sì», dice subito Cacace senza pensarci.
«Sì?»
«Cioè no. Non lo so… Scusi, commissario…»
Che cazzo, pensa Domenico Cacace, guarda se ti riesce di stare zitto una volta.
«Non s’é salvato un fascicolo…» infierisce Anselmi.
Certo che se davvero li firmasse uno per volta, pensa ancora Cacace. Ma questa volta sta bene attento che non gli sfugga niente.
2.
«Senti, Teresa, non insistere. È meglio così. Non ho nessuna voglia di conoscere questo commissario, né tanto meno di cenare con lui…»
«È una brava persona…»
«Vorrei ben vedere che fosse anche un delinquente…»
«Certe volte non ti capisco. Cominci ad essere noioso. Stai invecchiando.»
«Scusami, Teresa», disse l’uomo, «non voglio dispiacerti, ma stasera ho tante cose da fare…»
«Le farai domani. E poi anche a Caterina fa bene vedere qualcuno ogni tanto», insistette la vedova Ricci.
L’uomo sospirò: «Va bene, ci sarò», disse alzandosi, «ma solo per farti piacere, Teresa.»
La vedova Ricci sorrise. Riusciva sempre a fargli cambiare idea, povero Aricò.
«Adesso è meglio che vada, è già tardi.»
«Alle otto, sii puntuale…»
«Sarò puntuale, Teresa, non temere…»
«…e, per piacere», aggiunse la vedova, «prima di uscire, di’ ad Angelina di venire qui un momento. Dovrebbe essere in cucina o da qualche parte.»
«Sì, Teresa», disse uscendo, rassegnato, Vincenzo Aricò.
A piccoli passi, l’avvocato percorse il lungo corridoio in penombra ai due lati del quale si apriva una moltitudine di stanze. Tutte le porte erano chiuse e la sola luce arrivava da una finestra che a metà del corridoio si affacciava sul giardino, dove, come uno di famiglia, anziché in strada, parcheggiava la sua macchina.
Arrivato sulla porta della grande cucina, a un’estremità del corridoio, l’avvocato chiamò la ragazza: «Angelina, va’ dalla signora, per piacere.»
Nessuna risposta. Ma dove accidenti finisce ogni volta, disse fra sé.
«Angelina!» chiamò ancora entrando in cucina.
La stanza era invasa dal fumo e da un fortissimo odore di arrosto bruciato.
«Che disastro questa ragazza…» disse Aricò affrettandosi verso il forno e aprendo lo sportello, «qui va tutto a fuoco…»
Andò alla finestra e l’aprì, poi tornò alla cucina, armeggiò attorno a una manopola rossa che sperò servisse a spegnere il forno e poi, aiutandosi con uno strofinaccio, tirò fuori una teglia rovente con i resti carbonizzati di quello che sarebbe dovuto essere un arrosto.
«Che cazzo…» si lasciò ancora sfuggire al limite della sopportazione.
Tornò indietro nel corridoio e chiamò di nuovo a voce alta: «Angelina, per favore…»
«Se non è in cucina deve essere in giardino», gridò Teresa dal salotto in fondo al corridoio nel quale l’aveva lasciata.
«Teresa, il tuo arrosto è bruciato. Io vado. Se Angelina non è in giardino, non so che farci. È tardi, Teresa…» urlò a sua volta Vincenzo Aricò.
Teresa non rispose. Non le piacevano questi schiamazzi per casa. Comunque, pensò stizzita, quando serve non c’è mai, questa ragazza.
L’avvocato entrò di nuovo in cucina e andò direttamente alla scala di servizio che scendeva in giardino.
«Angelina!» chiamò ancora quando fu di sotto, mentre andava verso la sua macchina. «In cucina sta bruciando tutto, Angelina!»
E fu in quel momento che si accorse della porta del capanno socchiusa e, quasi nello stesso istante, udì un gran rovinio provenire dall’interno.
«Che cazzo stamattina…» imprecò ancora.
Corse verso il capanno e spalancò la porta. La ragazza si era tirata addosso una scaffalatura metallica e sembrava svenuta. Tutt’attorno c’era una gran quantità di vasi, barattoli, attrezzi e bottiglie in frantumi.
«Gesù, Angelina, che disastro. Aspetta che ti tiro fuori di lì.»
La ragazza non si mosse.
«Stai bene, ragazza?» chiese l’avvocato sollevando a fatica lo scaffale. «Sei ferita?»
Si chinò su di lei e fu allora che vide tutto il sangue che le inzuppava il grembiule bianco da cucina.
«Gesù», mormorò, «che t’hanno fatto, Angelina?»
La ragazza mosse appena