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Le cronache dei regni perduti: Le regine dei regni perduti
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Le cronache dei regni perduti: Le regine dei regni perduti

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About this ebook

Eric sta frequentando l’ultimo anno di liceo e la sua quotidianità si divide tra la scuola e gli amici. Ha talento e passione per la fotografia ma deve fare i conti con le pretese del padre, che vede per lui un futuro in medicina. I suoi sono, tutto sommato, i tipici problemi di un adolescente responsabile, riflessivo e idealista. La sua vita subisce una drastica inversione di rotta quando incontra Gin: la trova su un marciapiede, sotto la pioggia, ha i capelli rosa e sembra molto sola. Gli dice soltanto: “Aiutami”. Da quel momento Eric precipita in una spirale immaginifica e apprende dell’esistenza di vampiri, licantropi, di angeli e demoni, di antiche divinità e miti che si credevano perduti, di un’Armonia tra le Dimensioni che rischia di essere messa a repentaglio da una forza oscura e pericolosa pronta a tutto per seminare distruzione. E si ritrova, quasi per caso, a essere una pedina fondamentale nel riassestare l’equilibrio tra i mondi. Perché i più antichi segreti dell’umanità stanno per essere svelati e la guerra è alle porte. Le potenti Regine dei Regni Perduti hanno messo in campo le loro fazioni e nulla è più certo, nulla è più al sicuro.
Ilaria Arpella, al suo esordio, trascina il lettore in un fantasy dal ritmo travolgente e impetuoso, popolato da personaggi femminili straordinari, che affrontano i pericoli con coraggio senza, però, rinunciare all’amore.
LanguageItaliano
Release dateApr 15, 2019
ISBN9788868673772
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    Le cronache dei regni perduti - Ilaria Arpella

    voi.

    Siamo fatti per poche persone

    Non era niente di più che una mattina come tante. Il sole pallido batteva sulla città che si stava pian piano svegliando.

    C’era la panetteria all’angolo che stava già lavorando, le prime macchine che lasciavano i parcheggi, le madri svegliavano i figli, un certo aroma di caffè aleggiava nell’aria.

    In una delle tante villette del quartiere residenziale, una ragazza canticchiava spensierata mentre preparava la colazione.

    Dal piano superiore, un telefonino squillò all’improvviso e una canzone metal ruppe quella pace apparente.

    Il ragazzo che dormiva sobbalzò sul letto. Con gli occhi ancora chiusi, alzò un braccio e rispose alla telefonata con voce assonnata: Pronto…? Ah, sì, ciao… Sì, sì, tranquilla… Va bene, dai… A dopo… Ciao….

    Spense, grattandosi i capelli scompigliati e sedendosi sul bordo del letto, tra uno sbadiglio e l’altro.

    Stronza borbottò, prima di alzarsi definitivamente.

    Indossò una maglietta e scese in cucina, dove sua sorella non la smetteva di intonare un pezzo di Madonna, mentre strapazzava le uova e teneva sotto controllo il bacon.

    Buongiorno, Eric gli disse allegra.

    Il ragazzo rispose con un cenno del capo, non ancora del tutto sveglio, e lei gli riempì il piatto, inarcando il sopracciglio mentre lui iniziava a mangiare lentamente.

    Dove sei stato ieri sera? Non ti ho sentito rientrare, perché fai questi orari se la mattina poi devi andare a scuola?

    Il giovane continuò a mangiare e rispose sommessamente: Ero con Bryce e Matt, abbiamo fatto solo una maratona su Netflix.

    Sua sorella alzò gli occhi al cielo, indispettita, e si sedette per mangiare. Eric notò il suo nervosismo, quando le sentì la voce tremare. Ma non disse nulla e lasciò che la sua mente iniziasse a viaggiare a briga sciolta, perdendosi con essa.

    Stamattina ti accompagno io, devo andare in università, quindi vedi di non perdere tre ore in bagno, va bene?

    Per tutta risposta, il ragazzo annuì. A dir la verità non stava più ascoltando una parola di ciò che diceva. Pensava a Jessica e a cosa fare con lei.

    La ragazza si alzò e andò allo specchio nell’atrio, dove sistemò i lunghi capelli ramati e lisci, raccogliendoli in una coda.

    Eric, ti ho detto di sbrigarti stamattina, quanto tempo ci metti a finire?

    Eric allora posò il piatto irritato e, alzandosi di botto, sgattaiolò sopra.

    Probabilmente aveva un appuntamento con qualcuno, era fin troppo agitata, più del solito.

    Ma non erano problemi suoi, indi per cui accese il lettore musicale dello smartphone, appoggiò le cuffie nelle orecchie e alzò il volume.

    Appena la canzone iniziò, un sorriso gli comparve sul viso. Adesso andava decisamente meglio.

    E anche quella mattina la solita routine poteva avere inizio: lavarsi, vestirsi, i soldi per le sigarette, riempire lo zaino di scuola con i libri.

    Sentirsi i rimproveri della sorella, l’auto che faceva a fatica a partire, vedere il vicino di casa che portava fuori il suo cagnolino puntualmente alle otto meno dieci, e poi la solita strada, il vialetto alberato, la scuola dietro il piccolo supermarket.

    Solite facce, soliti saluti, soliti falsi sorrisi.

    Eric fece un cenno alla sorella, che gli stava raccomandando qualcosa e, senza ascoltarla, aprì la portiera e scese dalla macchina.

    Estrasse dal pacchetto l’ultima sigaretta rimasta dal giorno prima e accese, prima di guardarsi bene attorno. Era tutto come sempre, ogni gesto che faceva, ogni movimento, quasi meccanico. E la cosa lo annoiava non poco. Aveva l’impressione di vivere come un automa, circondato da mille altri come lui.

    Diede un’occhiata ai vari gruppetti sparsi nel cortile del suo liceo. Riconobbe Joe e i suoi compari, già di prima mattina con in mano uno spinello. E i suoi vecchi compagni di classe, prima che perdesse un anno, che si stavano preparando per entrare. Lo salutarono quasi di malavoglia e lui rispose nella stessa maniera. Vide la bella Isabelle che civettava con un ragazzo di quinta, nella divisa da cheerleader. E il gruppetto della squadra di football di Stephan, a cui rispose alla pacca sulla spalla.

    Vieni alla partita questo venerdì, ci conto!

    Eric rise scuotendo il capo e tirò dritto.

    Vicino ai gradini i suoi amici, che lo stavano aspettando. Il primo sorriso sincero della giornata. Si avvicinò a loro, ma una voce femminile lo bloccò, facendogli salire un brivido lungo la schiena.

    Stronzetto, hai da accendere?

    Si voltò, sapendo già chi avrebbe trovato, e osservò la ragazza che si poneva davanti a lui con aria arrogante e un sorriso malizioso sulle labbra lucide per il troppo rossetto.

    Jessica, quando mi hai chiamata stavi fumando, questa sarà come minimo la terza che ti fai e non sono nemmeno le otto di mattina.

    La ragazza schioccò la lingua e agitò i lunghi capelli biondi e ossigenati: Che tesoro a preoccuparti per me, davvero, lo apprezzo. Gli rubò l’accendino dalle mani e appiccò la sigaretta.

    Ma non ne ho bisogno.

    Eric scrollò le spalle e sorrise: Buongiorno anche a te.

    Jessica si avvicinò e gli stampò un bacio sulla guancia, lasciandogliela umida. I loro amici li guardavano quasi divertiti, e qualcuno sibilò anche qualche battuta su loro due, che Eric ignorò. Sapeva che quell’atteggiamento di Jessica era solo una recita per mettersi in mostra e non aveva troppo intenzione di dargliela vinta. Era chiaro che Jessica provasse dei sentimenti per lui. E lui era quasi certo di ricambiare. Anzi, a dir la verità, aveva la sensazione che si stessero frequentando, anche se non si erano dichiarati mai nulla.

    La conosceva da quattro anni, ormai, era stata una delle prime persone con cui aveva legato quando si era trasferito in quella città nuova.

    Dal vedersi un pomeriggio di tanto in tanto e parlare del più e del meno erano passati a confidarsi l’una con l’altro i loro problemi e lei si sfogava con lui, raccontandogli della sua famiglia o di suo padre con cui aveva pessimi rapporti, della madre assente, dei problemi economici.

    Era diventato un suo punto di appoggio, e la cosa gli faceva piacere. Era la sua ancora di salvezza.

    Lei lo aveva trascinato con sé infine, e si erano a trovati a frequentare gli stessi giri, da cui poi lui si era allontanato, non perdendo però di vista lei.

    E una sera, qualche settimana prima, durante una festa, era successo il prevedibile, quello che entrambi avevano aspettato. Complice l’alcol, complici i sentimenti celati di entrambi per troppo tempo, complice l’atmosfera.

    Il sesso con lei era stato come se l’era sempre immaginato, per niente romantico, ma divertente.

    Jessica le piaceva, era una gran bella ragazza, la classica che si faceva notare in giro, ma aveva dei modi che a volte gli davano i nervi.

    E da quando il loro rapporto si era intensificato, quel lato di lei era peggiorato. Era diventata più arrogante, più possessiva. Quella mattina si ritrovò a pentirsi di averla baciata la prima volta.

    Eric, bisogna entrare. Muoviti.

    Consumò la sigaretta con gli ultimi tiri e la spense sotto la suola, per poi issarsi lo zaino in spalla e varcare la soglia.

    °°°

    La professoressa Humphry era già con il registro in mano che faceva l’appello, quando i tre ragazzi entrarono in classe. Jessica li aveva abbandonati al piano inferiore per correre nella sua classe nell’aula di scienze ed Eric aveva tirato un sospiro di sollievo appena l’aveva vista girare l’angolo.

    Brutto segno, pensò mentre si accomodava con delle velate scuse per il ritardo.

    Ma in quel momento il suo pensiero doveva spostarsi dalla ragazza alle equazioni di algebra, argomento in cui era particolarmente bravo.

    Gli piaceva matematica. Era sempre stato bravo con i ragionamenti di logica e le verifiche gli venivano semplici. Forse era per questo che la professoressa lo ammirava. Il suo aspetto, i suoi tatuaggi, il suo modo di porsi ingannavano, e i suoi docenti erano sempre stupiti quando dimostrava di essere ben altro.

    Douglas, vuoi iniziare tu a correggere gli esercizi che vi ho assegnato?

    Ma qualcuno piombò in classe prima che potesse aggiungere altro.

    Eric alzò la testa dai libri quando sentì pronunciare il suo cognome.

    Anderson, in presidenza.

    La voce della bidella era difficile da non riconoscere. Con quel suo accento sudamericano per nulla nascosto, squillante, era abbastanza buffa e il modo in cui nominava il cognome di Eric, faceva sempre sorridere il ragazzo. Tranne che in quel caso.

    Se il preside lo voleva vedere, doveva essere per qualcosa su cui non c’era tanto da scherzare. E forse aveva perfino intuito cosa. Sentì le mani iniziare a sudargli.

    Sospirando, si alzò in piedi e raggiunse la donnina, che era tanto bassa da non arrivargli alle spalle, per poi seguirla fino alla porta verdone su cui splendeva, quasi fosse al neon, la targhetta dorata con la scritta presidenza .

    La bidella bussò e lasciò entrare Eric, che subito si sentì gelare il sangue nelle vene quando vide l’espressione severa nascosta dietro alle spesse lenti del professor Mitchell. Teneva le braccia conserte e le sopracciglia corrugate.

    Puoi andare Ines, grazie. Eric, siediti, voglio fare quattro chiacchiere con te.

    Chiusa la porta, il ragazzo ubbidì immediatamente, schiarendosi la gola, pronto a difendersi da qualsiasi accusa.

    Il preside lo squadrò un’ultima volta, poi tirò fuori da un cassettino della scrivania, una cartelletta giallognola con la scritta stampata riservato.

    Eric deglutì. Tutti conoscevano la cartelletta gialla. Era quella dedita alle emergenze, sapeva bene che se il suo nome era scritto tra quei fogli, allora aveva poche speranze di evitare una sospensione. E una sospensione significava perdere l’anno.

    Il solo pensiero gli creava una morsa alla bocca dello stomaco. Era già stato rimandato una volta, e anche allora non era stata colpa sua. A lui piaceva andare bene a scuola, era soddisfatto dei suoi bei voti e si sentiva orgoglioso quando suo padre gli firmava i compiti in classe con il sorriso stampato in faccia.

    Eppure era lì, davanti alla fantomatica cartelletta gialla, con il preside che cercava con calma l’articolo che lo riguardasse.

    Ingiustizia.

    Allora Eric, partiamo dal principio… Immagino che la notizia dell’arresto di Dalton non ti sia sfuggita.

    Eric scosse il capo: No, ho saputo.

    Il preside alzò un foglio: Spaccio di cocaina nei bagni dell’istituto è una cosa seria, ragazzo, spero tu capisca la delicatezza della situazione.

    Eric annuì di nuovo. Era dall’inizio dell’anno scolastico che Dalton spacciava quella roba ai ragazzi più grandi, arrivando a dover portare buste a scuola anche per gente fuori, amici di amici, finendo in un giro da cui poi diventava difficile uscire.

    Se lo ricordava così sballato a volte che gli faceva quasi pena, ma nonostante avesse provato a parlargli, lui ribatteva che non erano affari suoi, e alla fine gli aveva dato ragione e aveva iniziato a lavarsene le mani. In fondo non erano più amici da un po’.

    Bene Eric… Dalton alla polizia ha fatto anche il tuo nome. Ha detto che avete provato insieme le prime volte e che alcuni agganci glieli hai trovati tu…

    Eric alzò di scatto la voce, interrompendolo bruscamente: Sono tutte cazzate! Non è assolutamente vero!.

    Il preside alzò la mano notando l’agitazione improvvisa nel giovane: Rilassati, quello che diremo oggi non andrà in nessun fascicolo. Ma io devo sapere se è vero o no, perché se ho la certezza che tu non c’entri nulla, allora potrò dimostrare che in questa storia sono coinvolti anche i ragazzi del quinto, a partire da Butler fino ad arrivare a Leon.

    Eric non aprì bocca ma probabilmente la sua espressione lo tradì. Il preside aveva fatto i nomi giusti. Erano stati loro, e il gruppetto di amici che li seguivano, a spronare Dalton a fare quel che aveva fatto, e lo sapeva perché ci avevano provato anche con lui in passato. Ma se parlava, e metteva nei casini quella gente, si sarebbe trovato nei guai seri in futuro.

    Non che avesse paura. Ma tutti sapevano che Leon era schizzato, che la droga gli aveva sfracellato il cervello e la sua famiglia non era da meno. Era meglio non scherzare troppo con tipi del genere.

    Il preside l’osservava con attenzione, scrutandolo in ogni piccolo particolare. Stava notando il tremolio mentre si passava nervosamente le mani sui jeans, gli occhi dilatati, forse sentiva perfino il battito accelerato di colpo.

    Eric, tu sei un ragazzo a posto, lo so. A scuola vai bene e i professori in generale sono contenti di te. E le tue burle non sono nulla di strano alla fine… Ma qui si tratta di galera. Siete tutti maggiorenni, non ci sarebbe alcuna pietà. Se dovessi finire dentro, allora sappi che la tua vita sarebbe rovinata. Niente più scuola, niente più università, niente più lavoro, niente. Tra dieci anni sarai uno dei tanti barboni per strada, lo capisci? Quindi se devi dire qualcosa, dilla ora, perché quando la polizia verrà a bussare alla tua porta, credimi, allora sarà davvero difficile tirarti fuori da questa storia pulito.

    A Eric bastò quell’ultimo discorso per decidere. Non aveva molta scelta e non avrebbe permesso di certo a gentaglia di quel livello di distruggergli tutto quel che si stava creando dopo quello che gli avevano fatto.

    Ho iniziato insieme a Dalton, lo ammetto. Abbiamo provato quella roba insieme i primi tempi, al terzo anno. Ci trovavamo ogni tanto e ci facevamo. Ce la procurava Leon stesso, era stato lui a dirci cosa fare e noi lo ascoltavamo, uscivamo spesso con lui e i suoi amici. Io ho smesso dopo un anno, mi sono reso conto della stupidata che stavo commettendo quando ho rischiato l’anno, e mi sono fermato prima che fosse troppo tardi, ho cambiato compagnia, ho cambiato ambiente. Dalton no. Lui in mezzo a quegli idioti ci stava a pennello, e ha continuato finché Leon non gli ha passato il compito di venderla. Hanno iniziato a far girare parecchia roba tra queste mura, e anche fuori. Ci ho rinunciato a parlarci, non mi ascoltava e alla fine la vita era sua, non potevo fare assolutamente nulla a mio parere. Se lo hanno beccato mi dispiace, ma io lo avevo avvisato.

    Il preside lo ascoltò con attenzione e quando finì, annuì e basta: Io ti credo. Ho visto con che ragazzi esci, so che in questi affari tu non c’entri, ma volevo sentirtelo dire. Bene, non ti preoccupare ora, torna in classe e stai sereno. Per il momento questa faccenda è chiusa per quanto riguarda te, nel caso sarai il primo a saperlo.

    Gli porse la mano, che Eric strinse con un sorriso.

    Quando uscì dalla presidenza, diretto ai giardinetti per una sigaretta, si sentì improvvisamente più leggero.

    °°°

    Eric era un ragazzo che non passava inosservato. Era indubbiamente un bel diciottenne, con lineamenti quasi da bambino, molto delicati per essere un ragazzo. I suoi occhi erano eterocromatici e mentre uno era color nocciola, l’iride di quello destro era di un verde brillante, su cui cadevano ciocche ribelli di capelli biondi, che poi scivolavano dietro il collo e finivano sulle spalle larghe. E poi, aveva la passione per i tatuaggi. Sul braccio destro c’era un lavoro in corso, un veliero da definire, con il volto di una donna dai capelli neri raccolti con una rosa, e più in basso, sull’avambraccio, il muso di una volpe che teneva tra le zanne una lanterna. Sul braccio sinistro un cuore realistico con un corvo in bianco e nero, sui polsi si poteva leggere il verso di una delle sue canzoni preferite e sul petto una rondine, il primo tatuaggio che aveva fatto.

    Si stava dirigendo proprio da Stefan, uno dei suoi più cari amici, nonché suo tatuatore.

    Lui e Stefan avevano solo qualche anno di differenza, eppure a volte gli sembrava di avere a che fare con un uomo già fatto e definito.

    Forse era stata la morte dei genitori, forse era stato ritrovarsi a dover badare a sé stesso, ma nello sguardo di Stefan, c’era qualcosa che non aveva mai visto in nessun altro.

    Era uno dei pochi su cui sapeva di poter contare davvero, era una delle persone che gli erano stati vicine nei momenti dove aveva avuto davvero bisogno, era quasi come un fratello per lui.

    E se necessitava, lo aveva perfino preso a sberle in alcune situazioni.

    Quando entrò nel suo studio, il rumore della macchinetta gli arrivò subito alle orecchie. Probabilmente stava lavorando, e infatti lo vide all’opera con una ragazza, che stringeva i denti mentre il ragazzo di colore gli disegnava una farfalla sulla spalla.

    Eric aspettò pazientemente il suo turno, e mentre sfogliava una rivista dedicata al new traditional gli vibrò il telefono dalla tasca del giubbotto di pelle.

    Jessica.

    Fammi sapere cosa ti ha detto il preside. Stasera vediamoci, se vuoi puoi venire a casa mia, mio padre torna domattina e mio fratello è a dormire da una. Abbiamo casa tutta per noi ;)

    Eric rimise il telefono in tasca e chiuse gli occhi, sospirando.

    Non che l’idea di passare un paio d’ore con Jessica da solo in casa non gli suscitasse qualche emozione.

    Sapeva bene che quella ragazza ci sapeva fare.

    Ma in quel momento, il sesso non gli importava granché. Forse non aveva la testa, forse non aveva voglia, non sapeva spiegarsi il perché, ma non gliene importava nulla.

    Eppure, molti ragazzi avrebbero pagato oro colato per ricevere un’offerta del genere.

    Forse era gay.

    Ridacchiò da solo del suo stesso pensiero.

    Cos’hai da sorridere come un ebete?

    Alzò lo sguardo e vide Stefan pulirsi le mani sotto un getto d’acqua, mentre la ragazza si rivestiva e osservava compiaciuta il suo nuovo lavoro.

    Sono cento dollari, dolcezza.

    Contate le banconote salutò, diede le solite indicazioni su come prendersi cura del tatuaggio e l’accompagnò alla porta. Una volta rimasti soli, Stefan raggiunse il suo amico.

    Allora, sei qui per finire il braccio?

    Eric fece spallucce: Se hai tempo….

    La risata di Stefan era una cosa che invidiava molto. Era limpida ma potente, e i denti bianchissimi si accendevano tutti insieme.

    Dai, levati sta camicia da boscaiolo fallito e seguimi, entro un paio d’ore voglio farti tutto bello!

    In dieci minuti era seduto sul lettino, con l’ago che gli pungeva la pelle.

    Stefan era un professionista, lavorava con precisione, facendo attenzione a ogni singolo particolare. Si cambiava spesso i guanti e trattava gli aghi con cure precise, assicurando sicurezza e igiene.

    Mentre colorava i dettagli della donna, gli chiese come andassero le cose e, quasi fosse uno psicologo, Eric gli raccontò tutto, sfogandosi. Della situazione di Dalton e della droga, di Jessica, di cosa gli frullasse per la mente.

    Stefan ascoltava, senza distaccare gli occhi dal tatuaggio, e iniziando a tracciare le linee delle rose ai lati del disegno commentò: Stai attento a sti bastardi, sono gente marcia. Pure sta Jessica, alla fine se la fa anche con loro, sbaglio o quel Leon se la passava?.

    Eric annuì.

    Sì, è il suo ex o qualcosa del genere…

    A Jessica non piacevano i suoi, di amici. Non le piacevano perché si vestivano in modo diverso dagli altri, ascoltavano musica diversa dagli altri, avevano interessi diversi dagli altri.

    No, preferiva stare con quelli più grandi, quelli che si facevano e che gli passavano qualcosa ogni tanto, quelli che gli altri consideravano dei ragazzacci, dei duri. Avevano iniziato insieme a uscire con il gruppo di Leon, ma poi lei si era messa con lui ed Eric aveva preso la sua strada. Lei no. Anche dopo che era finita con Leon, aveva continuato a frequentarli.

    Più ci pensava, e più capiva che lui e Jessica non erano fatti per stare l’uno con l’altra.

    Siamo fatti per poche persone.

    Da qualche parte aveva letto sta frase e accidenti se era vera.

    No, lui e Jessica non avrebbero mai potuto costruire una relazione.

    Lui le piaceva solo per il suo aspetto, per i dilatatori e i tatuaggi e perché in passato aveva fatto qualcosa di cui non andava fiero, ma non vedeva nient’altro in lui.

    No, più ci pensava e più capiva quale fosse il problema.

    E quella sera stessa gliene avrebbe parlato. Stefan gli confermò ogni cosa quando espresse i suoi pensieri ad alta voce.

    Superficiale, tu hai bisogno di altro.

    Sì, ma di cosa?

    Come promesso, il tatuaggio fu finito verso le sette e mezza. Indolenzito, si alzò e si diresse allo specchio, guardandosi. Stefan aveva dato il meglio di sé e ora il suo braccio era completo. Fece cenno all’amico.

    Dai, vieni che ci fumiamo una paglia. Non so te, ma io ne ho una voglia assurda.

    Gli porse il pacchetto di Chesterfield blu e lasciò che ne prendesse una per poi accendergliela.

    Fuori era già buio, e Eric immaginò che suo padre era atterrato da poco all’aeroporto, tornando da un viaggio di lavoro.

    Sapeva bene quanto fosse irascibile dopo quei meeting, e preferiva non farlo alterare troppo arrivando tardi.

    Bene, allora quanto ti devo per il…

    Stefan parve quasi riluttante all’idea di chiedergli soldi ma alla fine borbottò: Dai, facciamo cinquanta, giusto per pagarmi gli aghi e il colore….

    Eric gli schiaffò in mano una banconota da cento e senza aspettare il resto, si tirò su la cerniera della giacca e fece per andarsene.

    L’ultima cosa che udì fu Stefan che gli urlò: Non cacciarti in altri guai o mi toccherà venire a salvarti le chiappe!.

    Ridendo e accendendo il lettore musicale, affrettò il passo verso la metropolitana per raggiungere la sua zona quando cominciò a piovere, e dall’acqua leggera che era divenne un acquazzone.

    Lamentandosi di quanto odiasse l’inverno, si spostò in fretta sotto una tettoia di un palazzo. Era bagnato fradicio.

    Stava tentando di asciugare il cappellino scuotendolo per la visiera piatta, ma un movimento fulmineo all’interno di un parcheggio attirò la sua attenzione.

    Alzò lo sguardo.

    Gli era parso di vedere una ragazza cadere a terra.

    Strizzò gli occhi per individuare la figura tra le due macchine, e quasi urlò quando riconobbe effettivamente una ragazza.

    Subito si mise a correre nella sua direzione, raggiungendola in un attimo.

    Hey!

    Era seduta a terra, la schiena appoggiata alla portiera di una monovolume, le gambe strette al petto.

    Tremava dal freddo mentre le braccia nude si inzuppavano e aveva lo sguardo perso nel vuoto.

    Eric si chinò su di lei e sobbalzò quando si voltò di scatto verso di lui.

    Rimase un attimo immobile, a bocca aperta.

    Aveva qualcosa di inspiegabilmente magnetico, due occhi verde smeraldo e labbra carnose come poche.

    Un viso a dir poco bellissimo.

    Ma non stava bene, lo si vedeva chiaramente. Senza pensarci troppo, si tolse la giacca e l’avvolse, chiedendole velocemente e in preda al panico chi fosse e cosa le fosse successo.

    La ragazza sembrava non capire, continuava a fissarlo, tremolante, i capelli zuppi appiccicati agli zigomi. Poi si accasciò, semplicemente.

    Gli cadde tra le braccia, ma prima di perdere i sensi, si aggrappò alla sua spalla e affondò le unghie

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