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Il gioco dei giorni futuri
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Il gioco dei giorni futuri

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Valentina è seduta al bar dell’aeroporto di Milano in attesa di proseguire per New York. Da sempre impegnata per la difesa dei diritti dei bambini, è stata convocata dall’Onu per far parte di una commissione che dovrà mettere a punto un piano di aiuti internazionale. Per lei si tratta di un grande riconoscimento, e fino al momento in cui trova in borsa un biglietto affettuoso del marito è convinta non solo di godersi appieno ma anche e soprattutto di meritarsi quei tre mesi lontana da casa, dalla sua città, Trieste, e dal momento difficile che la sua famiglia sta attraversando. Invece poche parole rimettono tutto in discussione e allora Valentina, come fa di solito quando qualcosa la preoccupa, rievoca i fantasmi dei suoi familiari: la nonna Emma che fantasticava immersa nei romanzi, il severo nonno Umberto, mamma Matilde devota e sempre pronta al sacrificio, l’amato papà Pietro, gli zii Giuseppe, poeta angosciato ed errabondo, e Gigino, amante delle belle cose e un po’ narciso, la zia Laura, sempre allegra e disponibile. Tutti loro ritornano con i loro ricordi in quel bar dell’aeroporto. Ma cosa vogliono dirle, Valentina non lo sa. Sa solo che il desiderio di proseguire è perlomeno pari a quello di tornare indietro.
Un romanzo al contempo intimo e corale, sulle contraddizioni, più spesso di sapore dolceamaro, di un mondo che cambia senza sosta, trascinando con sé chiunque ne faccia parte.
LanguageItaliano
Release dateApr 1, 2019
ISBN9788832924237
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    Il gioco dei giorni futuri - Carla Carloni Mocavero

    Prologo

    La voce del comandante annuncia che tra poco l’aereo atterrerà a Milano e la riporta alla realtà. Già, per andare da Trieste a New York bisogna cambiare aereo, pensa Valentina, e mentre si infila la giacca si ritrova tra le mani il biglietto del marito. Che questo sia l’inizio del tuo tempo migliore, Giovanni. E improvvisamente una tristezza la invade.

    Suo figlio Matteo, l’unico ancora a casa quando aveva ricevuto la telefonata di Arturo che la invitava a partecipare ai lavori indetti dall’Onu per progettare un piano internazionale a favore dell’infanzia, le aveva subito detto: Ma mamma come fai a lasciare papà adesso che non sta bene, dopo tutto quello che ha passato? Non aveva risposto a Matteo. I discorsi di Giovanni che la incoraggiavano, la spronavano ad andare, il suo sorriso soddisfatto come se fosse lui ad avere ricevuto l’invito, quasi una rivincita nei confronti delle sue disavventure, le avevano fatto scordare quelle parole, o forse lei stessa le aveva volute dimenticare.

    Era stato lungo e difficile decidere se accettare o meno quell’invito dell’Onu di far parte della Commissione per i Diritti dei Bambini e in un primo momento aveva preferito rinunciare. Ma l’argomento l’interessa e la coinvolge da sempre, lo ha scelto come tema per la sua tesi di laurea che ha ottenuto molti consensi e la pubblicazione e ora che glielo ripropongono ne sente tutta l’importanza.

    Nel 1874, per proteggere la piccola Mary Ellen Wilson dai soprusi dei genitori, un giudice finì con l’applicare una legge per la difesa degli animali. Valentina ricordava benissimo quanto la sconvolse studiare quella sentenza. Ma a quei tempi altro non c’era, i bambini non avevano diritti. Molta strada è stata fatta, tuttavia i gravi momenti che il mondo sta vivendo colpiscono in particolare i piccoli, che essendo i più deboli, vanno protetti. Sapeva benissimo che addirittura il settanta percento dei bambini africani alla nascita non vengono neppure registrati, non hanno alcun diritto, non esistono. Dal tempo della sua tesi di laurea ha continuato con articoli, con trasmissioni a occuparsi dell’argomento, ed è riuscita a farsi un nome anche in campo internazionale per le sue competenze sull’argomento. Forse potrebbe essere utile. Malgrado ciò da subito i suoi dubbi non le danno pace. Da sempre si è sentita insicura, incapace di imporsi, bisognosa di affetto, e si chiede se sarà in grado di stare tre mesi a New York, affrontando una lingua che non conosce e persone mai viste. Ce la farà a essere utile? In fin dei conti quel riconoscimento viene a rassicurarla e a darle fiducia. Dopo il primo rifiuto e dopo giorni passati a vagliare l’opportunità e a consultare amici, con fatica si era decisa: sarebbe andata a New York.

    Già l’aereo sta per atterrare a Milano, la prima tappa del suo viaggio.

    Anche lei aveva pensato, dopo riflessioni di giorni, che quella sarebbe stato l’inizio del suo tempo migliore, si ripete mentre raccoglie da terra il foulard scivolato sotto il sedile. Per Giovanni, però, non è sicuramente il tempo migliore. Cosa avrebbe fatto dopo il grosso infarto, dopo tutte le battaglie perse che aveva sostenuto? Chi gli avrebbe ricordato che in realtà molto presto, Valentina ne era sicura, lui avrebbe vinto perché le terapie da lui volute per lenire il dolore sarebbero entrate a pieno diritto negli ospedali? Forse aveva sbagliato la tattica, non certo le finalità. L’idea di lasciarlo, di tornarsene a Perugia, a ben pensarci, anche se non consapevolmente, si era già affacciata alla sua mente quando Giovanni si dedicava così interamente al lavoro, con una sicurezza e determinazione tali, almeno all’apparenza, da rendere il dialogo difficile e non solo con i suoi colleghi. Non l’aveva fatto allora. Eppure lo stava facendo, anche se per poco tempo, proprio adesso che lui non era più a combattere il dolore, ma era lui nel dolore, questo mistero umano che colpisce seguendo regole incomprensibili per la mente umana. Non si può abbandonare una persona che soffre, glielo aveva sempre ripetuto sua madre Matilde.

    È vero, continua a dirsi, si tratta di tre mesi, ma il tempo ha peso diverso e quello di Giovanni, ne è ben consapevole, non è molto. Quello avrebbe dovuto essere il loro tempo libero, il loro tempo insieme per fare le piccole cose che avevano sempre rimandato, per leggere quei libri che riempiono la biblioteca e aspettano da molto, per passeggiare sul lungo mare di Barcola, insieme al cane Paco, o per i sentieri tormentati del Carso. Magari tornare in Puglia tra gli ulivi, i filari d’uva, i fichi d’India che arrivano al mare e rivedere la città di Giovanni splendente di pietre bianche, la magnifica Lecce. E anche incontrare più spesso quella sua amica e i due colleghi che nei momenti difficili si sono esposti aiutando Giovanni. E magari fare un bel viaggio insieme ai due figli, forse un po’ trascurati dal padre immerso nel suo lavoro e forse anche da lei con i suoi impegni umanitari, con le sue associazioni da seguire.

    Mentre l’aereo tocca terra, e si sentono i rumori delle cinture di sicurezza che si staccano e i suoni dei cellulari che vengono riaccesi, proprio allora, dopo averci tanto riflettuto, l’assalgono mille dubbi. È la voce della Valentina educata dalla madre al sacrificio, alla sofferenza a farsi in lei sempre più forte. Ma come può pensare di piantare marito, figli, casa in quel momento? Quante volte sua madre le ha ripetuto l’importanza del sacrificio? La sofferenza fa parte della vita è meglio prepararsi, imparare a viverla. Nell’ultimo periodo era rimasta silente, almeno in apparenza d’accordo, ma quella mattina si fa sentire con forza e la invade. Probabilmente, non volendo, è stato il generoso biglietto di Giovanni a risvegliarla, a riaccendere quella lotta tra le due Valentine che da sempre la perseguita. L’altra Valentina è quella che ricorda Pietro, il padre sempre pieno di idee, curioso di tutto e di tutti, pronto a intraprendere strade nuove. Con i suoi giochi di prestigio, con le sue idee innovative era stato il suo idolo, purtroppo era morto troppo presto, un tradimento che forse non aveva ancora superato. Matilde amava ugualmente il bello e il buono, sacrificarsi per qualcuno o ascoltare una bella musica in lei accendeva lo stesso godimento. Pietro, generoso sorridente, era stato un ottimo imprenditore, favorito anche da quell’immediato dopo guerra che aveva fornito notevoli possibilità e i suoi progetti l’avevano sempre affascinata. I genitori avevano creato due Valentine che non sempre trovavano l’accordo e spesso la bloccavano, le impedivano di vivere.

    E poi cosa avrebbe aggiunto la sua presenza all’Onu? Avrebbe appreso e dato conoscenze, altre parole, quando il mondo si tormenta e sta per esplodere. Altre parole e il tutto improvvisamente le sembra sterile, come quella sua tesi di laurea letta, riletta mille volte. Si può benissimo aiutare i bambini a Trieste, se la ricorda ancora la sua visita all’orfanotrofio dove i piccoli, tutti, volevano essere presi in collo. Non si chiamano più orfanotrofi in Italia, si chiamano case-famiglia, e non sono sufficienti perché tanti sono i piccoli soli, in fuga dalle guerre e dalla povertà che stanno arrivando. Chi li protegge?

    Mentre avanza nella fila dei passeggeri che si inoltra all’interno dell’aeroporto, ritornano e si affollano nella sua mente tutte le domande e le risposte che l’hanno occupata durante le ultime settimane passate a interrogarsi e a informarsi per decidere cosa fare.

    Il biglietto trovato nella tasca della sua giacca parla con la voce di Giovanni Che questo sia per te l’inizio del tuo tempo migliore. Quelle parole che probabilmente volevano solo incoraggiarla, spronarla a vivere, le risuonano in mente e vengono a sconvolgere di nuovo la situazione.

    Valentina avanza per i corridoi dell’aeroporto, con una mano trascina il trolley e con l’altra stringe il biglietto. È un fiume di gente, ma tutti sono soli, chiusi nei loro mondi. L’aereo per New York parte tra tre ore, si siede per bere e forse mangiare qualcosa.

    Cosa deve, cosa vuol fare? Adesso occorre più coraggio per tornare indietro che per proseguire e Valentina non è coraggiosa. Per lo meno ha sempre pensato di non esserlo. Non è il momento di tornare indietro: cosa diranno le amiche, i colleghi del marito, i professionisti che aveva interpellato, tutte le persone che le volevano bene e la pensavano già a New York? Cosa avrebbero pensato? Non arrivano neanche i suoi fantasmi: la madre, i nonni, gli zii, quelli che normalmente sempre la consolano e la rincuorano, neppure loro evidentemente sanno cosa dire e l’abbandonano quando più ne ha bisogno. O più semplicemente hanno deciso che la vita è la sua e deve essere lei a viverla. Forse per questo suo padre non è mai più tornato.

    1

    I due fratelli

    Valentina seduta in un anonimo bar non sa più cosa deve, soprattutto cosa vuole fare, e nel tentativo di chiarirsi le idee ripercorre i giorni che l’hanno portata a quella partenza mentre personaggi, avvenimenti della sua infanzia la inondano con i loro ricordi. L’unico modo per capire chi è, e quale sia la sua strada.

    Veramente lei viveva spesso con i morti, lo faceva quando era in difficoltà, quando la realtà le diveniva intollerabile, quando aveva paura e loro sempre l’accoglievano, ma poi finivano per trattenerla. Senza volere le rubavano i giorni, le ore, la vita.

    Quando era arrivata sulla scena della vita ovviamente si era trovata in una rappresentazione iniziata, dove gli attori già presenti le avevano indicato quali erano le parti che lei poteva interpretare. E questo non per un’eredità biologica, ma soprattutto perché le culture nelle quali si era trovata ad agire e che avevano plasmato la sua vita e la sua mente erano quelle, forti, dei suoi parenti. E lei una debole, anzi, quella mattina si corregge: troppo recettiva. Forse comincia ad ascoltare anche se stessa.

    Tra gli attori del suo mondo infantile spiccavano i due fratelli di sua madre, così diversi, così particolari da condizionarle l’esistenza; infatti ogni uomo che poi aveva incontrato, magari inconsapevolmente, l’aveva paragonato a loro e giudicato secondo somiglianze o diversità.

    Valentina era molto affezionata ai due zii, con loro aveva vissuto anche alcuni mesi, con Giuseppe e sua moglie Beatrice all’estero, quando lui era addetto stampa a Città del Messico e a Beirut, con Luigi d’estate in Romagna, dove andava dai nonni a trascorrere le vacanze.

    Quando i due nascono, agli inizi del Novecento, uno o due anni di differenza, nella famiglia c’è già una bambina, Matilde, la mamma di Valentina. I fratelli si presentano subito diversi, Giuseppe, detto Peppino, bruno, occhi marroni, otto chili alla nascita (almeno così sostenevano), il secondo, Luigi, occhi azzurri, rossastro, detto appunto Pelorosso.

    Il padre, Giacomo, che insegnava ad Ascoli Piceno con una cattedra ambulante di agraria, aveva gli stessi colori dell’ultimo figlio. Ma in lui, ormai più che adulto, erano ed erano sempre stati tranquilli e seri, nel figlio, invece, avevano toni conturbanti.

    Luigi, Pelorosso, crebbe alto, sorridente, naturalmente elegante, insomma non si poteva non notarlo.

    Forse questo turbò il fratello Peppino che era un bel ragazzo, ma si faceva ogni giorno più robusto, troppo robusto, e soprattutto era sempre in disordine e poco curato. Passava ore sotto il grande noce a mangiarne i frutti ancora verdi di mallo, ma amava anche l’uva appena colta, i fichi, le fave con il formaggio, le uova con la pancetta, i ciccioli, e questi si potevano trovare conservati nelle sue tasche, anche da adulto, anche quando si aggirava per uffici importanti o lavorava nelle varie ambasciate. Probabilmente Peppino avrebbe voluto tenersi la madre, Emma, tutta per sé ancora qualche anno, senza la presenza così invadente di quel fratello che a lui sembrò subito il prediletto. Il primo era un vorace, bisognoso di affetto, di attenzione, per placare tutta quell’ansia che sin da piccolo lo attanagliava. E così mangiava, si disperava, si ingrassava senza poter controllare la sua angoscia. Molto piccoli ad Ascoli, quando il padre e la madre uscivano, i due ragazzi si mettevano a fare un gran baccano con i coperchi dei tegami, una specie di banda, allora c’erano pochi giochi e quelli elettronici erano inimmaginabili. Altro gioco che piaceva molto a Peppino era celebrare in casa le funzioni religiose intorno a un altarino improvvisato con l’incenso, il campanello e suo fratello per chierichetto. Ma a Gigino non piaceva questo gioco e smisero presto. Peppino era molto bravo a scuola, leggeva tantissimo e gli piaceva scrivere, soprattutto poesie.

    Luigi se la cavò al liceo con qualche esame a ottobre, frequentò Medicina, prima a Bologna, poi a Perugia dove lo mandarono per allontanarlo dalla vita troppo tentacolare della grande città. Le donne, sostenevano i genitori con un po’ d’orgoglio, erano la sua perdizione; le amava molto, ma erano soprattutto loro ad amare lui. Aveva grande successo con italiane e straniere, tutte raffinate e possibilmente più vecchie di lui. Lasciò qualche ferita, qualcuna si consolò, altre non lo scordarono più. Una giovanissima, in particolare, un’amica di sua sorella Matilde, allegra, vivacissima, si fece sempre più silenziosa e appartata e improvvisamente prese i voti di suora di clausura; nessuno la vide più, nessuno capì il perché. Forse solo lui o neanche lui comprese il motivo, preso come era dallo specchio sul quale, di frequente, si interrogava. Scambiava con se stesso lunghi sguardi per rassicurarsi, per capire come aumentare il proprio fascino, forse semplicemente per vedersi.

    Quando Gigino – così lo chiamavano in famiglia e gli amici – si trasferì per gli studi

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