I figli delle tenebre
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Fantasy - racconto lungo (39 pagine) - Gli orrori di Buda attendono il principe di Valacchia
Principe senza terra e schiavo. Eroe e spietato assassino. Prigioniero, ma non delle catene che lo tengono legato alle segrete di Visegrad. Vlad Dracula, voivoda di Valacchia, sa bene che quel ferro arrugginito non potrà vincolarlo ancora a lungo. Ben più temibili sono gli incubi che lo perseguitano e le visioni del suo futuro fuori dalla fortezza, a Buda. Lì dove un orrore senza tempo si è risvegliato e lo attende celato nelle tenebre, protetto da milioni di ratti famelici e dai suoi figli corrotti e deformi.
Giuseppe Recchia è nato nel 1987 a Terracina, dove vive e lavora come archivista storico. Adora le vecchie carte e le pergamene ammuffite, ma le sue passioni più profonde sono il fantasy e la scrittura. Ha pubblicato il suo primo romanzo, Maledetti dalle fiamme, nel 2017, partecipando nel frattempo a varie antologie e sperimentando i più svariati sottogeneri, dal dark fantasy al weird, passando per il grimdark e il grottesco.
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Book preview
I figli delle tenebre - Giuseppe Recchia
grottesco.
1
Stava sognando, ne era consapevole. In quell’infinito mondo di tenebre non poteva succedergli alcunché, nulla poteva arrecargli del dolore. Lo sapeva, lo sentiva. Era al sicuro, cullato da ombre soffici come il velluto, dal silenzio di una tomba millenaria, da una pace che mai aveva conosciuto durante la veglia.
Ciononostante, provava una paura profonda, perché quel sogno non gli lasciava vie di scampo. Quelle ombre erano delicate, sì, ma lo circondavano senza pietà, lo legavano come catene indistruttibili, lo soffocavano. Il silenzio era assordante come il lamento di un milione di moribondi. La pace era fasulla, una promessa beffarda fattagli da un dio senza nome. Quella tomba ancestrale era la sua. Era lui il morto, e non poteva scappare.
Dannato per l'eternità.
Con il terrore che gli attanagliava l'animo corrotto, si mise a correre nell'oscurità, alla ricerca di una luce che sapeva di aver perso molto, molto tempo fa. Quanto era passato dalla prima volta che il suo volto era stato lordato dal sangue delle sue vittime? Non poteva ricordare, gli anni non avevano senso in quel luogo. Nulla ne aveva. Restava solo l’orrore, e l'istinto di fuggire verso altre tenebre, verso ombre diverse.
Non erano realmente le sue gambe a sorreggerlo, non avrebbero potuto così a lungo. Niente dolore, né fatica: non provava niente. Allora corse senza più fermarsi, imprigionato nella cella più grande dell'intero Cosmo. Una cella le cui sbarre avevano la stessa sostanza del peccato più tremendo.
L’incubo cambiò così all’improvviso che il fuggito neanche se ne accorse. Saettò ancora a lungo nel vuoto prima di rendersi conto che adesso i suoi piedi poggiavano su qualcosa di più solido della semplice oscurità e che le ombre ora si muovevano languide in uno spazio angusto. Una galleria. Pareti umide tutt'intorno, una fievole luminescenza da un punto sconosciuto, lì in fondo. E un suono a rompere il silenzio: acqua. Uno stillicidio che colpiva incessante, lontano, e uno scorrere sotterraneo che gli arrivava alle orecchie come il gorgoglio di uno stomaco gigantesco.
La paura continuava a crescere. Forse però c’era una speranza, quella luce doveva pur avere una fonte. Possibile che il suo carceriere volesse dargli una quella nuova possibilità? Non si illuse, ma riprese a muoversi in quel budello che pareva scavato dall'uomo, sempre più in profondità.
Era pur sempre freddo quello che sentiva sulla pelle. Era il suo respiro a dar forma alle nuvole di vapore davanti alla bocca. Tutte cose impossibile in un sogno. L'uomo non fu più tanto convinto di essere al sicuro. Forse poteva scappare, ma adesso potevano fargli del male. Sentì quindi il bisogno di stringere una spada. Una spada, sì. Lui era un guerriero. Insieme al gelo arrivarono i ricordi, la confusione. Era sveglio?
Era vivo?
Gli mancava però ancora il suo nome. Aveva viaggiato sperduto nel buio troppo a lungo, non riusciva a ricordare. Si sforzò, ma niente. Poi un suono nuovo giunse a distrarlo dai suoi pensieri tormentati. Un verso alle sue spalle, qualcosa di sibilante, acuto. Richiami animaleschi, squittii inquietanti.
Il primo giunse da solo, come un'avanguardia coraggiosa. Un ratto nero, magro e malato, gli occhi come due perle nere che brillavano affamati al fievole bagliore del tunnel. Lo fissava in piedi sulle zampe posteriori. La bocca era aperta, i denti marci sguainati. Sembrava sorridere. Felice di aver trovato una preda.
Saltò fulmineo mirando alla gola del fuggitivo e lo colse alla sprovvista. L'uomo non usava il suo corpo da secoli, da millenni forse, i suoi riflessi di un tempo erano un vago ricordo, come il suo nome. Il ratto lo azzannò feroce al collo, ringhiò, affondò gli incisivi nella sua carne e lo portò a terra con sé, più forte di qualsiasi grande fiera.
Il grido che risuonò nella galleria non poteva appartenere alla dimensione onirica, né