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La mia vita per la libertà (Tradotto)
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La mia vita per la libertà (Tradotto)
Ebook624 pages13 hours

La mia vita per la libertà (Tradotto)

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About this ebook

Il nome di Gandhi è ormai divenuto sinonimo di pace e forse mai come oggi è importante conoscerne il messaggio. In queste bellissime pagine il Mahatma analizza minuziosamente e offre al lettore la sua umile, operosa, quotidiana ricerca della verità, dalla quale emerge la grandiosa lezione morale che la sua presenza rappresenta nella storia contemporanea. L'autobiografia del profeta della non-violenza alla ricerca di una via per la verità: la via della pace e della fratellanza fra gli uomini.
LanguageItaliano
PublisherStargatebook
Release dateMay 2, 2019
ISBN9788832597400
La mia vita per la libertà (Tradotto)

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    La mia vita per la libertà (Tradotto) - Mohandas Karamchand Gandhi

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    INTRODUZIONE

    Quattro o cinque anni la, dietro sollecitazione di alcuni fra i miei più stretti collaboratori, accettai di scrivere la mia autobiografia. Mi misi all'opera, ma non avevo nemmeno riempito il primo foglio che scoppiarono i moti di Bombay e dovetti interrompere il mio lavoro. Seguirono una serie di avvenimenti che culminarono con la mia incarcerazione a Yeravda. Il Sjt.- Jeramdas, mio compagno di prigionia, mi chiese di accantonare tutto il resto e di finire la stesura della mia autobiografia; gli risposi che mi ero prefisso un programma di studi al quale volevo attenermi, e che prima di averlo terminato non mi potevo dedicare ad altro. In verità, se avessi scontato tutta la condanna a Yeravda, la mia autobiografia l'avrei terminata lì; fui rilasciato, infatti, quando mi mancava ancora un anno per completàre il lavoro. Lo Swami - Ananda mi ha rinnovato ora la proposta di scrivere un'autobiografia e, dato che ho terminato la storia del Satyagraha-  in Sud Africa, potrei scriverla e darla al Navajivan. Lo Swami voleva che la tenessi da parte per farne un libro, ma io ho poco tempo; avrei potuto scriverne solo un capitolo alla settimana, e mi ero impegnato a consegnare ogni settimana qualche cosa al Navajivan; perché non fare pubblicare da loro l'autobiografia? Lo Swami accettò, e così mi sono messo al lavoro. Un mio amico timorato di Dio nutriva però dei dubbi, che mi comunicò durante il mio giorno di ritiro: Cosa ti ha spinto a scrivere?., mi chiese. Un'autobiografia è una cosa da occidentali; e io non so di nessun orientale che ne abbia scritta una, salvo alcuni di quelli che hanno subito l'influenza dell'occidente. E cosa scriverai? Se domani dovessi ripudiare le cose che per te oggi sono verità, o dovessi mutare le tue idee, non ne verranno tratti in inganno coloro che si basano sull'autorità del tuo verbo, della tua parola e della tua scrittura? Non credi che faresti meglio a non scrivere nulla di simile a un'autobiografia, per ora?. Queste parole, in parte mi convinsero; comunque io non intendo scrivere una vera e propria autobiografia, voglio solamente narrare i miei numerosi esperimenti con la verità e dato che la mia esistenza è tutta imperniata su tali esperimenti, la storia assumerà effettivamente l'aspetto di un'autobiografia; ma a me non importa anche se ogni pagina sarà piena solo dei miei esperimenti perché credo, o meglio, mi cullo nell'illusione, che un resoconto dettagliato di tutti i miei tentativi non potrà non essere utile al lettore. Quelli che ho compiuto in campo politico sono ora notissimi non solo in India, ma anche nel mondo civilizzato, anche se per me non valgono molto; e ancora meno stimo perciò il titolo di Mahatma che mi hanno procurato; spesso questo appellativo mi ha profondamente addolorato e non ricordo che mi abbia mai rallegrato. Mi piacerebbe certamente molto narrare i miei esperimenti in campo spirituale, che sono noti solo a me e dai quali ho tratto la forza necessaria per operare nella sfera politica: se tali esperimenti hanno realmente un valore spirituale, non c'è ragione di compiacersene, anzi devono accrescere la mia umiltà, dato che più rifletto e ripenso al passato, più chiaramente avverto i miei limiti. Ciò che voglio raggiungere -- è che faticando e soffrendo ricerco da trent'anni – è l’auto-percezione, trovarmi faccia a faccia con Dio, arrivare al Moksha. Io vivo e agisco e sono a questo scopo, tutto ciò che dico e che scrivo, tutti i miei sforzi in campo politico, hanno questo fine ultimo. Ma avendo sempre sostenuto che quello che è possibile a uno, è possibile a tutti, i miei esperimenti non li ho effettuati in segreto, ma apertamente, e non credo che questo diminuisca in alcun modo il loro valore spirituale; certe cose le sappiamo solo noi ed il nostro Creatore, sono assolutamente incomunicabili, ma gli esperimenti che sto per narrare, no. Essi sono spirituali, anzi morali; perché l'essenza della religione è moralità. Racconterò solo di esperienze religiose che possano essere capite sia dai bambini che dagli adulti e se riesco a narrarle in modo spassionato e umile, molti altri ricercatori ne trarranno aiuto per proseguire il cammino. Lungi da me il voler pretendere che tali esperimenti siano perfetti, non attribuisco loro più valore di quanto farebbe uno scienziato, il quale, pur lavorando con la massima accuratezza, premeditazione e minuzia, non considera mai definitivi i risultati ottenuti, ma li ritiene passibili di nuovi sviluppi. Ho fatto molto lavoro di introspezione, mi sono auto-criticato a fondo e ho esaminato e analizzato tutte le situazioni psicologiche, eppure non asserisco che le conclusioni da me raggiunte siano definitive o infallibili, ma sostengo una cosa, ed è questa: che a me sembrano del tutto giuste o, oggi come oggi, anche definitive, perché se così non fosse non le prenderei a modello. Comunque, ad ogni passo ho fatto la prova dell'accettazione e del rifiuto e ho agito in modo conforme, e finché le mie azioni soddisfano la mia ragione ed il mio cuore, devo rimanere scrupolosamente fedele alle conclusioni che ho raggiunto in origine. Se avessi da esaminare solo principi accademici, non mi metterei certo a scrivere un'autobiografia, ma dato che mio scopo è fare un resoconto delle varie applicazioni pratiche di questi principi, ho intitolato i capitoli che sto per buttare giù Storia dei miei esperimenti con la verità. Descriverò naturalmente esperimenti che trattano di non violenza, celibato e di altre regole di condotta che sembra non abbiano nessun rapporto con la verità, perché secondo me la verità è il principio supremo che ne sottintende molti altri: la verità non è solo verità di parola, ma anche di pensiero e non è solo la verità relativa che noi concepiamo, ma la Verità Assoluta, il Principio Eterno, che è Dio. Vi sono innumerevoli definizioni di Dio, perché Egli si manifesta in modi innumerevoli, che mi riempiono di meraviglia e di riverenza e sul momento mi sconcertano. Ma io adoro Dio solo come Verità. Non l'ho ancora trovato, ma continuo a cercarlo, a questa ricerca sono disposto a sacrificare le cose che mi sono più care; e se anche si trattasse di dare la vita, spero che saprei accettare. Ma finché non avrò raggiunto la Verità Assoluta, mi dovrò accontentare della verità relativa così come l'ho afferrata. Intanto questa verità parziale sarà il mio faro, il mio scudo, la mia protezione e benché il cammino sia arduo e faticoso e pericoloso come il filo del rasoio, a me è apparso spedito e facile. Anche i miei errori cosiddetti Himalayani mi sono sembrati poca cosa, perché ho proceduto sempre sulla retta via, regola che mi ha salvato dalle sventure, e ho ascoltato la voce della mia coscienza. Cammin facendo ho intravisto spesso la Verità Assoluta, cioè Dio, e ogni giorno sono maggiormente convinto che solo Lui è verità e che tutto il resto è illusione. Che coloro che vi si interessano afferrino come sono giunto a queste conclusioni; che mi seguano nelle mie esperienze e condividano anche i miei principi se ci riescono; mi sono convinto inoltre, e non a caso, che ciò che posso fare io lo può fare, anche un bambino: i sistemi per raggiungere la verità sono semplici e ardui nel contempo, possono sembrare difficilissimi ad una persona arrogante e facilissimi invece ad un innocente. Colui che ricerca la verità dovrebbe essere meno che polvere, la gente calpesta la polvere, ma l'umiltà di colui che ricerca la verità dovrebbe essere tale da indùrlo d lasciarsi schiacciare anche dalla polvere. Allora e non prima riuscirà a scorgere la verità. Il dialogo fra Vasishtha - e Vishvamitra 8- lo dimostra chiaramente e ne sono prova anche il Cristianesimo e l'Islam. Se secondo il lettore certe cose che scrivo peccano di immodestia, egli supporrà allora che sono in errore e che la mia saggezza altro non è che illusione: ebbene, periscano a centinaia coloro che sono simili a me, purché trionfi la verità; non travisiamo nemmeno in infima parte la verità nella sua essenza per giudicare dei mortali fallaci come sono io. Spero e mi auguro che nessuno trovi presuntuosi i consigli che dispenso nelle pagine seguenti. Gli esperimenti che cito vogliono essere esempi, ognuno potrà poi fare esperienze personali secondo le proprie tendenze e capacità, e spero che la mia guida possa servire almeno a questo; perché mi propongo di non nascondere o sminuire nessuna nefandezza che va rivelata. Spero di riuscire a dare al lettore un'immagine completà degli sbagli ed errori da me commessi. Il mio scopo è descrivere esperimenti fatti in osservanza del Satyagraha, non di mettere in luce le mie virtù. Nel giudicare me stesso cercherò di essere inflessibile come lo è la verità, e voglio che gli altri seguano il mio esempio. Conformandomi a questo modello devo esclamare, come è scritto nella Surda: Dove trovare un mascalzone iniquo e odioso quanto me? Ho rinnegato il mio Creatore,     questo è stato il mio tradimento. Perché per me l'essere ancora tanto lontano da Colui il quale, lo so bene, guida ogni mia azione, e di cui sono la creatura, è una tortura incessante. So che a tenermi lontano da Lui sono le passioni malvage che mi travagliano, eppure non riesco a liberarmi. Ma devo concludere. Nel capitolo che segue inizierò il racconto. Nell'Ashram, Sabarmati, 26 novembre 1925.

    PARTE PRIMA

    1. NASCITA E FAMIGLIA

    I Gandhi appartengono alla casta dei Banja ed in origine sembra fossero speziali. Ma per tre generazioni, cominciando con mio nonno, essi furono Primi Ministri in vari Stati del Kathiawad. Utamchand Gandhi, alias Ota Gandhi, mio nonno, deve essere stato un uomo tutto d'un pezzo: per intrighi di Stato fu costretto a lasciare Porbandar dove era Diwan per rifugiàrsi a Junagadh; quando li egli saluto il Nawab con la mano sinistra, qualcuno, rilevando l'apparente scortesia, gli chiese una spiegazione, che fu la seguente: La mano destra l'ho già impegnata a Porbandar. Ota Gandhi si risposo una seconda volta, essendogli morta la prima moglie, ed ebbe quattro figli dalla prima moglie e due dalla seconda. Durante la mia infanzia non credo di aver mai sospettato o saputo che i figli di Ota Gandhi non fossero tutti figli della stessa madre. Il quinto dei sei fratelli era Karamchand Gandhi, alias Kaba Gandhi, ed il sesto Tulsidas Gandhi. Ambedue questi fratelli furono Primi Ministri a Porbandar, in successione; Kaba Gandhi era mio padre. Faceva parte del Rajasthanik, che ora non esiste più, ma a quei tempi era un organismo molto autorevole nel comporre dispute fra i capi e la loro gente. Kaba Gandhi fu per qualche tempo primo Ministro a Rajkot e poi a Vakaner; mori pensionato dello Stato di Rajkot. Si sposo quattro volte essendogli sempre deceduta la moglie, ebbe due figli dal primo e dal secondo matrimonio. L'ultima moglie, Putlibai, gli diede una figlia e tre maschi, di cui il più giovane ero io. Mio padre amava la sua gente, era onesto, coraggioso e generoso, ma facile alla collera; entro i dovuti limiti, deve aver apprezzato i piaceri della carne, infatti si risposo per la quarta volta a più di quarant'anni. Ma era incorruttibile ed era noto per la sua scrupolosa imparzialità sia nell'ambito della famiglia che fuori. La sua fedeltà allo Stato era risaputa: quando un assistente politico inglese parlo in maniera offensiva del Thakore Sabeb di Rajkot, suo capo, mio padre lo affronto coraggiosamente, il funzionario si arrabbio e gli disse di chiedere scusa, mio padre si rifiuto e fu perciò messo agli arresti per qualche ora. Ma quando il funzionario constato che Kaba Gandhi non si piegava, ordino che venisse rilasciato. Mio padre non ebbe l'ambizione di arricchirsi e ci lascio molto poco. Non aveva educazione, se non quella dettata dall'esperienza, al massimo sarà arrivato fino alla quinta classe gujarati; di storia e geografia era digiuno, ma la sua vastissima esperienza di cose pratiche gli fu di grande aiuto per risolvere le questioni più complesse e per guidare centinaia di uomini. Disciplina religiosa ne aveva pochissima, aveva quel tipo di istruzione basata su frequenti visite ai templi e sull'ascolto di dibattiti sacri, comune a molti indù. L'impressione predominante che mi ha lasciato nella memoria mia madre e quella della sua santita. Era profondamente religiosa, non le sarebbe venuto in mente di sedersi a tavola senza aver prima recitato le preghiere quotidiane, e recarsi all’avheli - il tempio Vaishnava - era un suo rito giornaliero. Per quanto io possa sforzarmi di tornare indietro con la memoria, non mi ricordo che essa abbia mai mancato al Cbaturmas `. Faceva i voti più severi e li manteneva senza vacillare, la malattia non essendo considerata una scusa sufficiente per mitigarli. Ricordo che una volta si ammalo mentre osservava il "Chandrayan", (Un digiuno durante il quale la quantita quotidiana di cibo ingerita viene limitata o diminuita a seconda del crescere decrescere della luna) ma non interruppe l'osservanza; per lei rispettare due o tre digiuni consecutivi era cosa da nulla, fare un solo pasto al giorno durante il Cbaturmas le era abituale, e non paga, durante un Cbaturmas digiuno a giorni alterni. Durante un altro Cbaturmas fece voto di non nutrirsi se non dopo aver visto il sole. Noi bambini durante quei giorni fissavamo intenti il cielo, ansiosi di annunciare a nostra madre l'apparizione dell'astro, ma tutti sanno che in piena stagione delle piogge il sole spesso non si degna di far capolino; ricordo certi giorni quando, alla sua improvvisa apparizione, ci precipitavamo ad annunciarla a mia madre: lei correva a constatare con i suoi occhi, ma già il fuggitivo era sparito, privandola così del suo pasto. Non fa niente, diceva allegra, oggi Dio non ha voluto che mangiassi. E tornava alle sue solite occupazioni. Mia madre aveva un gran buon senso, era al corrente di tutti gli affari di Stato e le dame di corte stimavano molto la sua intelligenza. Spesso andavo in giro con lei, grazie ai privilegi concessi ai bambini, e ricordo ancora le numerose vivaci discussioni che faceva con la madre, rimasta vedova, dei Thakore Saheb. Da questi genitori io nacqui a Porbandar, altrimenti chiamato Sudamapuri, il 2 ottobre 1869. Trascorsi la mia infanzia a Porbandar, ricordo che mi mandarono a scuola, e che non senza difficolta imparai a fare le moltiplicazioni. Che di quei giorni io non rammenti niente, se non che imparai, in compagnia degli altri ragazzi, ad affibbiare ogni sorta di appellativi ai nostri insegnanti, fa seriamente supporre che la mia mente fosse indolente e la mia memoria immatura.

    2. INFANZIA

    Avrò avuto sette anni quando mio padre lascio Porbandar per andare a Rajkot alla Corte del Rajasthanik. Fui mandato alle elementari e ricordo bene quel periodo, anche i nomi dei miei maestri e altri particolari che li riguardano; anche qui, come per Porbandar, sui i miei studi non c’è da dire quasi niente, devo essere stato uno scolaro proprio mediocre. Da questa scuola passai ad una scuola periferica e poi alle medie, avendo già compiuto i dodici anni; non ricordo di aver mai detto una bugia, durante quel breve periodo, ne ai miei insegnamenti ne ai miei compagni; ero molto timido ed evitavo tutti. Il mio solo interesse erano i miei libri e le lezioni, ed avevo l'abitudine d'arrivare a scuola con la massima puntualità e di tornare a casa di corsa appena terminava la scuola, tornavo a casa proprio correndo, per evitare di dover parlare con qualcuno; avevo anche paura che mi prendessero in giro. Capito un episodio durante l'esame alla fine del mio primo anno alle medie che vale la pena ricordare. Il signor Giles, Ispettore agli Studi, era venuto a fare una visita di ispezione, e come prova di ortografia, ci aveva dato da scrivere cinque parole, fra le quali pentola, che io scrissi sbagliata. Il maestro cerco di attirare la mia attenzione toccandomi con la punta della scarpa, ma io non gli badai, non riuscivo proprio a capire che mi voleva far copiare l'ortografia dalla lavagnetta dei miei vicie perché ritenevo che il maestro fosse li per controllare che non copiassimo. Risulto che tutti i ragazzi, eccettuato me, avevano scritto giuste le parole, dunque l'unico scemo era stato io. più tardi il maestro cerco di spiegarmi quanto ero stato stupido, ma fu inutile, non riuscii mai ad imparare l'arte di copiare. Tuttavia l'incidente non diminuì affatto il rispetto che nutrivo per il maestro, gli sbagli commessi dagli adulti mi rendevano naturalmente cieco; venni a sapere dopo anche di molte altre debolezze di questo maestro, ma la mia considerazione per lui non ne fu scossa, perché avevo imparato ad ubbidire agli ordini dei miei superiori, non a vagliarne il comportamento. Mi Sono sempre rimasti impressi altri due episodi occorsi nello stesso Periodo. In genere avevo visto già qualsiasi lettura al di fuori di quella dei libri di testo; i compiti giornalieri bisognava farli perché non mi piaceva farmi rimproverare dall'insegnante così come non mi piaceva ingannarlo, perciò i compiti li facevo, ma spesso con mente distratta. Non riuscendo dunque a far bene nemmeno i compiti, non era proprio il caso che mi mettessi a leggere altri libri, ma gli occhi mi caddero per caso su un volume acquistato da mio padre, Shravana Pitribhakti Nataka (una commedia sulla dedizione di Shravana ai suoi genitori), che lessi con enorme interesse. più o meno in quel periodo vennero dalle nostre parti degli attori ambulanti, e in una delle scene alle quali assistetti, Shravana portava in pellegrinaggio i suoi genitori ciechi reggendoli sulle spalle con delle cinghie: il libro e la scena mi lasciarono un'impressione incancellabile nella mente. Ecco un esempio che devi seguire, dissi a me stesso, e mi risuonano ancora oggi nelle orecchie i lamenti atroci dei genitori, quando muore Shravana; anche la melodia struggente mi commosse profondamente, la suonavo su una piccola fisarmonica che mio padre aveva comperato per me. Dopo un'altra rappresentazione successe un fatto simile. Pressappoco in quel periodo avevo ottenuto da mio padre il permesso di assistere ad uno spettacolo recitato da una compagnia drammatica, e quella rappresentazione - Harishchandra - mi prese il cuore, non mi stancavo mai di rivederla. Ma quante volte mi avrebbero permesso di tornarci? Ne ero ossessionato e devo aver recitato l’ Harishchandra per conto mio un'infinita di volte. Perché tutto non può essere verità, come nell’ Harishchandra?" mi chiedevo giorno e notte; ricercare la verità e subire tutte le prove che aveva subito Harishchandra divento il mio ideale supremo, credevo letteralmente alla storia di Harishchandra, quando ci ripensavo spesso scoppiavo in lacrime. Oggi il mio buonsenso mi dice che Harishchandra non sarà stato un personaggio storico, eppure sia Harishchandra che Shravana sono per me esseri realmente esistiti, e sono certo che mi commuoverei come allora se rileggessi quelle storie.

    3. SPOSO BAMBINO

    Vorrei tanto poter fare a meno di scrivere questo capitolo, ma so bene che in questo racconto avrò da ingoiare molti altri bocconi amari, e non posso esimermene; se affermo di essere un adoratore della verità e mio penoso obbligo, a questo punto, parlare del mio matrimonio all'età di tredici anni. Quando mi vedo intorno i giovanetti della stessa mia età che mi sono affidati, e ripenso al mio matrimonio, sono portato ad impietosirmi su me stesso ed a rallegrarmi con loro per essere sfuggiti alla mia sorte, dato che non esiste secondo me nessuna ragione morale che giustifichi delle nozze così assurdamente premature. Che il lettore non mi fraintenda: io fui sposato, non fidanzato, perché nel Kathiawad ci sono due diversi riti, il fidanzamento ed il matrimonio. Il fidanzamento e la promessa preliminare fatta dai genitori del ragazzo e della ragazza di unirli in matrimonio, e non e inviolabile: la morte del ragazzo non impone alla ragazza la vedovanza, si tratta solamente di un accordo stipulato fra i genitori, e non impegna i figli, i quali spesso non ne sono nemmeno informati. Pare che io sia stato fidanzato tre volte, anche se non ne oh saputo niente, ma mi hanno detto che due ragazze scelte per me erano morte una dopo l'altra, ne deduco dunque di essere stato promesso tre volte. Ricordo pero vagamente che il terzo fidanzamento avvenne durante il mio settimo anno, ma non rammento di esserne stato informato. In questo capitolo parlerò del mio matrimonio, del quale oh un ricordo nettissimo. Come oh detto, eravamo tre fratelli. Il primo era già sposato, gli anziani decisero dunque di accasare il mio secondo fratello, maggiore di me di due o tre anni, un nostro cugino, che aveva forse un anno più di me, e me, tutti insieme, così facendo, non preoccupandosi del nostro benessere e ancora meno dei nostri Il matrimonio per gli indù non e cosa semplice. Spesso i genitori della sposa e dello sposo per farvi fronte si rovinano. Sprecano tempo e denaro. I preparativi durano mesi, si confezionano vestiti e ornamenti e si stanziano somme per i ricevimenti, si cerca di superarsi a vicenda nella quantità e diversità delle pietanze; le donne, che siano intonate o no, cantano fino a sgolarsi, fino ad ammalarsi, e disturbano la tranquillità dei vicini, i quali pero sopportano pazientemente l'agitazione, lo scompiglio e lo spreco ed il disordine che rimangono dopo la festa, perché sanno che verrà un giorno in cui anche loro si comporteranno così desideri essendo in gioco solo i loro comodi e le loro finanze. Era meglio, pensarono i miei, affrontare tutte queste seccature in un’unica e sola volta, meno spese e più écalt. I soldi si sarebbero potuti spendere più allegramente se si trattava di tirarli fuori una volta sola, invece di tre. Mio padre e mio zio erano vecchi tutti e due, eravamo gli ultimi figli rimasti da accasare: probabilmente volevano l'ultima, più bella festa di tutta la vita. Per queste ragioni si decise per un matrimonio triplo, e come oh detto, i preparativi durarono per mesi. Fu solo da questi preparativi che capimmo quale avvenimento-si stava avvicinando; non credo che per me significasse altro che la prospettiva di indossare bei vestiti, e i suoni di tamburi, le processioni nuziali, i pasti succulenti e una ragazza sconosciuta con la quale giocare. Il desiderio carnale sopravvenne dopo. E' mia intenzione gettare tin pietoso velo sulla mia onta, se non per alcuni dettagli che meritano di essere ricordati e ai quali arriverò in seguito, ma anche quelli c’entrano poco con l'idea fondamentale che e argomento di questa storia. Così mio fratello ed io fummo condotti da Rajkot a Porbandar. Dai preliminari al dramma finale avvennero alcuni episodi divertenti - per esempio il fatto di spalmare completamente i nostri corpi di pomata alla curcuma ma li devo omettere. Mio padre era un Diwan, ma era pur sempre un dipendente, tanto più che godeva dei favori del Thakore Saheb, il quale non volle lasciarlo partire fino all'ultimo istante, e quando si decise, ordino per mio padre delle speciali diligenze, che ci mettevano due giorni di meno. Ma il destino aveva deciso altrimenti: Porbandar si trova a 120 miglia da Rajkot - in carrozza un viaggio di cinque giorni mio padre percorse la distanza in tre giorni, ma durante la terza tappa la vettura si rovescio, ed egli subì gravi lesioni. Arrivo tutto bendato. Il suo ed il nostro entusiasmo per l'avvenimento in programma subì un duro colpo, ma ormai la cerimonia doveva aver luogo. Infatti come sarebbe stato possibile cambiare la data del matrimonio? Comunque, nella mia gioia infantile per le nozze dimenticai il mio dolore per le ferite di mio padre. Ero attaccatissimo ai miei genitori, ma ero anche schiavo delle passioni che suscita la carne, non avevo ancora imparato che al rispettoso servizio dei propri genitori bisognerebbe sacrificare la felicita ed il piacere. Ebbene, quasi a punirmi per il mio desiderio di piaceri, capito un fatto che da allora non cessa di turbarmi la memoria e che narrerò più avanti. Canta Nishkulanand: Rinunciare alle cose, se non si rinuncia anche al desiderio di esse, e cosa vana, per quanto si tenti di riuscirvi, e ogni volta che canto questa canzone o la sento cantare, mi torna alla memoria quell'amaro infausto incidente che mi riempie di vergogna. Malgrado le sue ferite mio padre si fece forza e partecipo in pieno alle nozze. Se ci ripenso, riesco anche oggi a rivedere con gli occhi della memoria i posti dove si mise a sedere mentre prendeva parte alle diverse fasi della cerimonia: ero ben lontano allora dall'immaginare che un giorno avrei severamente criticato mio padre per avermi sposato bambino, tutto mi sembrava giusto e ben fatto e piacevole. lo stesso ero impaziente di sposarmi, e dato che allora tutto ciò che faceva mio padre mi sembrava al di sopra di ogni critica, il ricordo di quelle cose mi e rimasto fresco nella memoria: ancora oggi ci rivedo, quando sedemmo sul trono matrimoniale, quando eseguimmo il Saptapadi (- I sette passi che una sposa ed uno sposo indù fanno insieme scambiandosi nel contempo promesse di mutua fedeltà e devozione, dopo di che il matrimonio diventa irrevocabile). Quando noi, i novelli marito e moglie, ci ponemmo in bocca a vicenda il dolce Kansar (Un impasto a base di grano che gli sposi mangiano insieme a cerimonia ultimata). E quando cominciammo a vivere insieme, e oh! quella prima notte, due bambini innocenti si tuffavano del tutto ignari nell'oceano della vita. La moglie di mio fratello mi aveva istruito esaurientemente su come mi dovevo comportare la prima notte, non so chi avesse istruito mia moglie, non gliel'oh mai chiesto, ne oh voglia di farlo ora, il lettore sia pur certo che il nervosismo ci impediva di affrontarci, eravamo sicuramente troppo timidi. Come le dovevo parlare, e cosa le dovevo dire? I consigli non mi aiutavano molto. Ma in realtà in queste cose le istruzioni non servono, le impressioni lasciateci dalla esistenza precedente sono abbastanza potenti da renderle inutili. Cominciammo a conoscerci a poco a poco, e a parlarci liberamente; dopotutto avevamo la stessa età. Ma ben presto assunsi l’autorità del marito.

    4. GIOCARE A FARE IL MARITO

    Intorno all'epoca del mio matrimonio, circolavano piccoli opuscoli che costavano un pice (Monetà anglo-indiana dei valore di un quarto di anna), o un pie (ora non ricordo esattamente), nei quali si parlava di amore coniugale, di economia, di nozze fra bambini e di altri argomenti del genere. Ogni volta che mi capitava in mano uno di questi opuscoli, lo leggevo da capo a fondo, ed era mia abitudine dimenticare ciò che non mi garbava e mettere in pratica quello che approvavo: la fedeltà per la vita alla moglie, che era, inculcavano gli opuscoli, dovere del marito, mi rimase impressa per sempre nel cuore; oltretutto la passione della verità era innata in me, il tradirla sarebbe stato perciò fuori questione, e poi a quella tenera età avevo ben poche occasioni di esserle infedele. Ma la lezione di fedeltà ebbe anche un effetto malefico. Se io devo impegnarmi ad essere fedele a mia moglie, anche lei deve impegnarsi ad essermi fedele, dissi a me stesso, e questo pensiero mi rese un marito geloso, in men che non si dica trasformai il suo dovere nel mio diritto di esigere fedeltà da lei, e per poter esigere, dovevo difendere tenacemente le mie prerogative. Non avevo assolutamente nessun motivo di sospettare della fedeltà di mia moglie, ma la gelosia non ha bisogno di motivi, mi sentivo in dovere di stare sempre all'erta a sorvegliare i suoi movimenti, perciò lei non poteva andare in nessun luogo senza il mio permesso. Ne nacque un'acerba lite, in realtà la mia sorveglianza si traduceva virtualmente in una specie di reclusione, e Kasturbai non era tipo da sopportare una cosa simile, ci teneva ad andare dove le pareva e quando le pareva. Appena esercitai un controllo ancora più severo, lei si prese ancora maggiori liberta, e io mi arrabbiai sempre di più. Il rifiuto di parlarci divento perciò una cosa normale per noi sposi bambini. Credo che fosse in tutta innocenza che Kasturbai infrangeva le mie proibizioni: infatti come poteva una ragazza senza colpa sopportare che venissero limitate le sue visite al tempio o agli amici? Se avevo il diritto di imporle restrizioni, non godeva di uguale diritto anche lei? Oggi tutto questo mi appare evidente, ma a quei tempi ci tenevo a far valere la mia autorità di marito. Comunque, il lettore non creda che la nostra fosse una vita di continue amarezze, perché le mie severità erano sempre ispirate all'amore, io volevo fare di mia moglie una moglie ideale, il mio scopo era di obbligarla a vivere una vita pura, di insegnarle quello che imparavo io e di fondere le nostre vite ed i nostri pensieri. Io non so se Kasturbai condividesse queste mie ambizioni: era analfabeta, di natura semplice, indipendente, perseverante e, almeno con me, reticente; la sua ignoranza non le pesava e non ricordo che i miei studi l'abbiano mai spinta a tentare anche lei una simile avventura, perciò immagino che la mia ambizione non fosse condivisa. Ma siccome la mia passione era completamente concentrata su di lei, volevo essere corrisposto - anche se non vi era reciprocità, non poteva esservi solo monotona infelicità, dato che almeno da una parte vi era un amore vivo. Devo dire che l'amavo appassionatamente, pensavo a lei anche quando ero a scuola, e il pensiero della sera e del nostro prossimo incontro non cessava di ossessionarmi. La separazione mi era insopportabile, poi la tenevo sveglia fino a notte alta con le mie chiacchiere. Se oltre a questa passione divorante non avessi avuto anche un fortissimo senso del dovere, sarei caduto in preda alla malattia e alla morte prematura, o sarei sprofondato in una triste vita. Ma ogni mattina c’erano da sbrigare le consuete mansioni, ed esimermene con delle bugie mi era impensabile. Fu il mio amore della verità che mi salvo da molti guai. Oh già detto che Kasturbai era analfabeta; io ero molto desideroso di istruirla, ma il mio amore sensuale non mi dava requie. E poi dovevo impartirle gli insegnamenti suo malgrado, e per giunta di notte; non osavo incontrarmi con lei* in presenza degli anziani, e ancora meno parlarle, dato che allora vigeva nel Kathiawad, e entro certi limiti e così ancora oggi, una speciale, bizzarra, inutile e barbara forma di Purdah. Dunque, le circostanze ci erano avverse. Devo confessare che la maggior parte degli sforzi da me compiuti durante la nostra gioventu per istruire Kasturbai finirono nel nulla, e quando mi destai dal sonno concupiscente mi ero già lanciato nella vita pubblica e non mi rimaneva molto tempo libero. Non sono neanche riuscito a farla istruire da insegnanti privati, perciò Kasturbai oggi riesce a mala pena a scrivere una modesta letterina e a capire il gujarati parlato semplicemente. Sono certo che se il mio amore per lei non fosse stato macchiato di sensualità, sarebbe oggi una signora istruita; perché allora sarei riuscito a vincere la sua avversione per gli studi: so che nulla e impossibile a chi ama d'amore puro. Oh accennato ad una circostanza che mi salvo più o meno dai pericoli dell'amore passionale. Ve n'e un'altra degna di nota, e i molti esempi mi hanno convinto della verità che Iddio redime in definitiva colui che persegue la purezza. Oltre alla crudele usanza delle nozze fra bambini, la società indù ha un'altra usanza che un po' attenua i danni della precedente: i genitori non permettono alle giovani coppie di rimanere insieme a lungo, la sposa bambina passa più della metà del suo tempo a casa del padre, e così succedeva anche a noi. Cioè, durante i primi cinque anni di vita matrimoniale (dall'età di 13 a quella di 18 anni) certamente non abbiamo vissuto insieme per un periodo complessivo di oltre tre anni. Coabitavamo da non più di sei mesi, quando mia moglie veniva richiamata dai suoi genitori; a quei tempi questi richiami ci erano molto sgraditi, ma ci salvarono entrambi. All'età di diciotto anni io andai in Inghilterra, e ci fu allora un periodo di separazione lungo e salutare, e anche dopo il mio ritorno dall'Inghilterra era raro che rimanessimo insieme per più di sei mesi, perché io dovevo andare su e giù da Rajkot a Bombay. Poi arrivo la chiamata dal Sud Africa, che mi trovo già abbastanza libero dagli appetiti carnali.

    5. LA SCUOLA MEDIA

    Ho già detto che quando mi sposai frequentavo le medie. Noi tre fratelli andavamo alla stessa scuola, mio fratello maggiore era molto più avanti, e il fratello che si era sposato insieme a me era più avanti di me di un anno. Per colpa del nostro matrimonio perdemmo tutti e due un anno, anzi il risultato fu ancora più grave per mio fratello, perché egli abbandono gli studi completamente, e Dio solo sa quanti giovani si sono trovati nel suo stesso frangente. Succede solo nella nostra società indù attuale che gli studi e il matrimonio procedano così di pari passo. Proseguii i miei studi. Alle medie non mi ritenevano un asino, e i miei insegnanti mi hanno sempre trattato con affetto. Ai genitori venivano spedite una volta all'anno pagelle che li informavano sugli studi e la condotta e io non ebbi mai brutte pagelle, anzi quando terminai la seconda vinsi dei premi. Durante il quinto e sesto anno ottenni borse di studio di quattro e dieci rupie rispettivamente, un risultato che attribuisco più alla mia buona stella che alle mie capacita, perché le borse di studio non erano accessibili a tutti, ma solo ai migliori alunni scelti fra quelli della Divisione Sorath del Kathiawad, e a quei tempi non ci saranno stati molti ragazzi di Sorath in una classe di quaranta a cinquanta alunni. Mi ricordo che non tenevo in gran conto la mia bravura ogni qualvolta vincevo premi e borse di studio cadevo dalle nuvole, ma difendevo molto gelosamente la mia reputazione. Il minimo fallo che commettevo mi faceva venire le lacrime agli occhi; se meritavo un rimprovero, o almeno così pareva al maestro, questo mi era insopportabile. Una volta ricordo di aver subito una punizione corporale; non fu tanto la punizione che mi dispiacque, quanto il fatto di averla meritata, e piansi amaramente. Fu quando ero in prima o in seconda; un altro incidente simile capito l'anno in cui ero in settima. Il direttore di allora era Dorabji Edulji Gimi, che era amato dai ragazzi perché sapeva imporre la disciplina, ed era un uomo metodico e un buon insegnante. Aveva stabilito che per i ragazzi delle classi superiori ginnastica e cricket fossero obbligatori; a me non piacevano ne l'uno ne altro, e prima che fosse reso obbligatorio non partecipai mai a nessuno sport, cricket o pallone che fosse. Una delle ragioni di questo mio disinteresse era la mia timidezza, e ora mi render conto che sbagliavo. Ma allora ero erroneamente convinto che la ginnastica non c’èntrasse affatto con l'educazione mentre oggi so che nel programma di studi l'esercizio fisico dovrebbe andare di pari passo con lo sviluppo intellettuale. Devo aggiungere tuttavia che l'astensione dagli sport non mi aveva danneggiato: avendo letto libri che parlavano dell'effetto salutare delle lunghe passeggiate all'aria aperta e essendomi piaciuta l'idea, avevo preso l'abitudine di camminare, che mi e rimasta, e grazie a queste passeggiate oh una costituzione abbastanza robusta. . Alla base della mia avversione per la ginnastica vi era il mio vivo desiderio di fare da infermiere a mio padre, e appena terminava la scuola, mi precipitavo a casa e incominciavo a servirlo. Per forza di cose questo servizio richiedeva esercizio fisico; chiesi al signor Gimi di dispensarmi dalla ginnastica in modo da essere più libero di assistere mio padre, ma non ci voleva sentire. Accadde che un sabato, quando avevamo scuola di mattina, dovetti poi da casa tornare a scuola per la ginnastica alle quattro di pomeriggio. Non avevo orologio e le nuvole mi ingannarono, quando arrivai a scuola i ragazzi se ne erano già andati tutti. Il giorno dopo, esaminando il foglio di presenze, Gimi vide che risultavo assente, e io, interrogato sul motivo della mia assenza, gli dissi cosa era accaduto, ma non volle credermi e mi ordino di pagare un'ammenda di una o due anna (ora non ricordo con esattezza). Mi si accusava di mentire! Ne fui addoloratissimo. Come dimostrare la mia innocenza? Era impossibile, e piansi, profondamente sconfortato. Capii che un uomo sincero deve saper anche essere scaltro. Fu la prima ed ultima volta che commisi una negligenza a scuola, e ricordo vagamente che alla fine riuscii a farmi condonare l'ammenda. Naturalmente fu ottenuta anche l'esenzione dalla ginnastica, perché mio padre stesso scrisse al direttore dicendogli che mi voleva a casa dopo la scuola. Mentre l'aver trascurato lo sport non mi ha danneggiato, sto ancora scontando un'altra trascuratezza. Non so come mai, mi ero messo in testa che la bella calligrafia non fosse parte integrale dell'educazione, e finche non andai in Inghilterra non cambiai idea. Poi quando più tardi, specialmente in Sud Africa, vidi come scrivevano bene gli avvocati ed i giovani nati ed educati li, mi vergognai e mi pentii della mia sbadataggine, capii che la brutta calligrafia dovrebbe essere considerata indice di scarsa educazione, cercai di migliorare la mia, ma era troppo tardi, non riuscii mai a riparare la stoltezza commessa in gioventù. Che il mio esempio serva ai giovani, uomini e donne, affinché capiscano che una bella calligrafia e parte integrante dell'educazione;. oggi sono del parere che bisognerebbe insegnare ai bambini l'arte di disegnare prima che imparino a scrivere. Che il bambino impari a scrivere le lettere dell'alfabeto dopo averle osservate come osserva altre cose, per esempio i fiori, gli uccelli, ecc. e gli si faccia imparare a scrivere solo quando avrà imparato a disegnare le cose: allora scriverà benissimo. Altri due ricordi del mio periodo scolastico vale la pena di raccontare. Avevo perso un anno a seguito del mio matrimonio, e il maestro voleva che rimediassi facendo due classi in una - privilegio concesso abitualmente ai ragazzi studiosi; perciò rimasi solo sei mesi in terza e passai in quarta dopo gli esami che precedono le vacanze estive. A partire dalla quarta la maggior parte delle materie veniva insegnata in inglese, mi trovai completamente in alto mare: per esempio la geometria era una materia nuova per la quale non ero molto portato e il doverla studiare in inglese me la rendeva ancora più difficile. Il maestro spiegava la materia molto bene, ma non riuscivo a seguirlo, spesso mi scoraggiavo e pensavo di tornare in terza, ritenendo che il voler concentrare in un solo anno lo studio di due era voler troppo, ma avrei non soltanto fatto una brutta figura io, l'avrei fatta fare anche al maestro, dato che egli fidandosi della mia diligenza, aveva caldeggiato la mia promozione. Per paura del doppio disonore rimasi perciò al mio posto. Quando, con grande sforzo, arrivai al tredicesimo teorema di Euclide, improvvisamente capii quanto fosse estremamente semplice la materia: un soggetto che imponeva puramente e semplicemente di fare uso delle proprie capacita di ragionamento non poteva essere difficile. Da quella volta oh trovato la geometria facile ed interessante. Invece il sanscrito si rivelo un osso più duro; in geometria non c’era niente da imparare a memoria, mentre mi sembrava che il sanscrito fosse tutto da mandare a mente. Anche questa materia si iniziava in quarta. Arrivando in sesta mi scoraggiài: l'insegnante ci metteva a dura prova, nell'intento, secondo me, di spremere il massimo dagli scolari; c’era una specie di rivalità fra i maestri di sanscrito e di persiano, ma il maestro di persiano era indulgente. Fra loro i ragazzi si raccontavano che la lingua persiana era molto facile e che il maestro di persiano era buono e gentile con gli studenti. La facilita mi fece gola ed un giorno assistetti alla lezione di persiano. il maestro di sanscrito si dispiacque, mi chiamo a se e mi disse: Come puoi dimenticare di essere il figlio di un padre Vaishnava? Non vuoi imparare la lingua della tua religione? Se ti trovi in difficolta, perché non vieni da me? lo voglio insegnare a voi studenti il sanscrito come meglio posso. Procedendo, vi troverai cose di grande interesse, non dovresti scoraggiarti, torna a frequentare le lezioni di sanscrito. La sua gentilezza mi imbarazzo, non potevo non tener conto dell'affetto che egli mi dimostrava, e oggi non posso non ricordarmi con riconoscenza di Krisbnashankar Pandya, perché se non sapessi quel poco di sanscrito che oh imparato allora, mi sarebbe stato difficile interessarmi ai nostri sacri testi. Mi dispiace anzi enormemente di non essere riuscito a imparare la lingua più a fondo, perché da allora oh capito che tutti i ragazzi e le ragazze indù dovrebbero avere una buona conoscenza del sanscrito. Oggi sostengo che l'indù, il sanscrito, il persiano, l'arabo, l'inglese, oltre naturalmente ai dialetti, dovrebbero essere inclusi nei programmi di studi superiori indiani, e questa lunga lista non deve spaventare. Se il nostro metodo di insegnamento fosse più sistematico, e se i ragazzi non avessero il fastidio di dover imparare le materie in una lingua straniera, sono certo che l'apprendimento di tutte queste lingue non sarebbe più un'impresa molesta ma una vera gioia, dato che la conoscenza scientifica di una lingua facilita lo studio delle altre. Veramente l'indù, il gujarati ed il sanscrito sono praticamente una lingua sola, e anche il persiano e l'arabo sono uguali. Anche se il persiano appartiene alla famiglia linguistica ariana, e l'arabo a quella semitica, il persiano e l'arabo sono parenti stretti, perché ambedue fanno risalire il loro pieno sviluppo all'ascesa dell'Islam. Non oh considerato l'urdu una lingua a se, perché ha adottato la grammatica indù e ha un vocabolario soprattutto persiano e arabo, tanto e vero che per imparare bene l'indù bisogna sapere il persiano e l'arabo, così come per imparare bene il gujarati, l'indù, il bengali e il marathi bisogna sapere il sanscrito.

    6. UNA TRAGEDIA - (1)

    Tra i Pochi amici che avevo alle medie ne ebbi due in diversi Periodi, che potrei definire in timi. Una di queste amicizie non duro a lungo anche se non oh mai tradito il mio amico, fu lui a lasciare me perché strinsi amicizia con l'altro. Quest'ultima amicizia la considero una tragedia nella mia vita; duro a lungo la coltivai con intenti riformatori. Il compagno era un amico di mio fratello maggiore, erano in classe insieme. Conoscevo le sue debolezze, ma lo ritenevo un amico fedele, mentre mia madre, mio fratello maggiore e mia moglie Mi avvertirono che era un cattivo compagno. Ero troppo orgoglioso per dar retta alle parole di mia moglie ma non osavo andar contro al parere di mia madre e di mio fratello maggiore, feci pero valere le mie ragioni dicendo loro: So che ha i difetti di cui lo accusate ma non conoscete le sue virtù; egli non può traviarmi, io sto insieme a lui allo scopo di migliorarlo, perché sono certo che se cambia abitudini diventerà una bravissima persona. Vi prego di non preoccuparvi per me. Non credo che li convinsi, ma accettarono le mie spiegazioni e mi lasciarono fare quello che volevo. Adesso so che mi sbagliavo, un riformatore non può permettersi di fare amicizia con colui che intende riformare, la vera amicizia scaturisce da una identità di sentimenti difficile da raggiungere in questo mondo. Solo l'amicizia tra nature simili può essere giusta e duratura. Gli amici si influenzano a vicenda, perciò fra amici e difficile riuscire a migliorarsi. lo sono del parere che bisogna evitare le intimità esclusive; perché l'uomo impara i vizi molto prima delle virtù, e colui che vuole essere amico di Dio deve restare solo, o fare amicizia con il mondo intero. Forse mi sbaglio, ma il mio tentativo di coltivare una amicizia intima si dimostro un fallimento. Un vento di riforma soffiava sii Rajkot quando incontrai questo amico per la prima volta. Mi informo che segretamente molti nostri insegnanti mangiavano carne e bevevano vino, cito molte persone note di Rajkot come aderenti alla stessa compagnia, mi disse che vi erano anche ragazzi delle medie. Ne fui sorpreso ed addolorato, chiesi al mio amico una spiegazione ed egli mi disse: Siamo un popolo debole perché non mangiamo carne, ali inglesi sono in grido di dominarci, perché seno carnivori. Tu sai quanto io sia forte, e come corro veloce, e perché sono carnivoro. I carnivori non hanno foruncoli o tumori, e anche se a volte gli vengono, poi guariscono rapidamente. I nostri insegnanti e le altre insigni persone che mangiano carne non sono dei pazzi ne conoscono le virtù Dovresti seguirne l'esempio; l'unica e provare, prova e vedrai che forza ti viene. Queste argomentazioni in favore della carne non mi furono esposte in una sola volta, sono il succo di un discorso lungo ed elaborato che il mio amico tentava ripetutamente di farmi accettare. Mio fratello maggiore aveva già capitolato, perciò sosteneva la tesi del mio amico: vicino a mio fratello ed al mio amico apparivo indubbiamente gracilino, erano entrambi più resistenti, fisicamente più robusti e più arditi. Le imprese del mio amico mi affascinavano, egli riusciva a correre a lungo a velocita sorprendente, era bravo nel salto in alto e in lungo, resisteva a qualsiasi punizione corporale. Spesso ostentava davanti a me le sue prodezze e dato che sempre ci stupiamo nel ravvisare negli altri le virtù di cui siamo privi, io stupivo davanti alle prodezze del mio amico. Ne risulto una gran voglia di somigliargli. Saltavo e correvo a stento, perché non potevo diventare anch'io forte come lui? Inoltre, ero vigliacco. Ero ossessionato dalla paura di ladri, spettri e serpenti, di notte non osavo arrischiarmi fuori della porta di casa, l'oscurità mi terrorizzava, mi era quasi impossibile riuscire a dormire al buio, incominciavo ad immaginare che da una parte arrivassero gli spettri, da un'altra i ladri e da un'altra ancora i serpenti, perciò non sopportavo di dormire senza un lume in camera. Come confessare queste paure a mia moglie, non più bambina, ma già quasi fanciulla, che mi dormiva accanto? Sapevo che era più coraggiosa di me, e mi vergognavo. Lei non aveva paura dei serpenti e degli spettri, andava ovunque anche al buio. Il mio amico conosceva tutte queste mie debolezze. Mi diceva che sapeva stringere in mano serpenti vivi, sfidare i ladri e che agli spiriti non ci credeva, tutto, naturalmente perché mangiava carne. Fra noi scolari era in voga una filastrocca composta dal poeta gujarati Narmad, che faceva così: Guardate il Potente inglese, Domina il Piccolo indiano, Perché essendo carnivoro, E’ alto cinque cubiti. Gli effetti non tardarono a farsi sentire. Ero vinto, finii per convincermi che il mangiare carne era giusto, che sarei diventato forte e coraggioso, e che se l'intero Paese fosse diventato carnivoro si sarebbero potuti dominare gli inglesi. Fu dunque fissato un giorno per iniziare l'esperimento, che doveva avere luogo segretamente. I Gandhi erano Vaishnava, i miei genitori erano particolarmente osservanti, si recavano regolarmente al Haveli, in famiglia avevamo persino i templi nostri. Nel Gujarat anche il jainismo era forte, la sua influenza si faceva sentire sempre e ovunque. In nessun altro luogo dell'India o di altri Paesi esisteva una opposizione e un'avversione così estrema contro l'alimentazione a base di carne da potersi paragonare a quella che regnava nel Gujarat fra i Jain e i Vaishnava. All'ombra di queste tradizioni nacqui e fui allevato; ero estremamente attaccato ai miei genitori, mi rendevo conto che se fossero venuti a sapere che avevo mangiàto carne, sarebbe stato per loro un colpo mortale. Data la mia passione per la verità, ero prudentissimo. Non posso negare che sapevo che se incominciavo a mangiare carne dovevo ingannare i miei genitori, ma la mia mente era avida di riforme: non si trattava di golosità, ignoravo che la carne fosse particolarmente appetitosa. Desideravo essere forte e coraggioso e volevo che lo fossero anche i miei connazionali, tanto da sconfiggere gli inglesi e liberare l'India. Non avevo ancora mai udito la parola Swaraj, ma sapevo cosa era la liberta. Ero dominato dalla frenesia della riforma, e

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