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Non Uccidete i Miei Sogni
Non Uccidete i Miei Sogni
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Ebook122 pages1 hour

Non Uccidete i Miei Sogni

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About this ebook

È un racconto che potrebbe rifarsi a una storia realmente accaduta. La protagonista dopo una violenza sessuale decide di scappare dalla sua città ed approda a Firenze dove, con pochi soldi in tasca, deve decidere che fare della propria vita.

È una storia che si evolve rapidamente, tra colpi di scena, nuovi incontri e fantasmi del passato.

***L’AUTRICE

Adriana Cioci è nata a Firenze, vive a Scandicci e ha tre figli. Ama leggere, viaggiare e scrivere. Nessuno avrebbe scommesso sulla sua storia d'amore con colui che è diventato suo marito, per motivi di estrazione sociale , ma lei dice sempre che l'amore può tutto.

È alla sua prima pubblicazione.
LanguageItaliano
PublisherAdriana Cioci
Release dateMay 2, 2019
ISBN9788832597615
Non Uccidete i Miei Sogni

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    Book preview

    Non Uccidete i Miei Sogni - Adriana Cioci

    Cioci

    CAPITOLO I

    La stanchezza era piombata all'improvviso insieme a una gran voglia di piangere, ma non poteva adesso, non certamente ora. Aprì l'armadio e prese due paia di jeans, quattro magliette, due maglioni e un po' di biancheria. Poteva bastare per il momento. Infilò tutto in un borsone e aspettò che i suoi si addormentassero.

    Li sentiva ancora parlare, e l'argomento era lei, la loro figlia che inaspettatamente li aveva delusi.

    No, non era stata una bella serata, ma soprattutto quel magone che aveva in mezzo al petto, non si decideva ad andar via, anche se sentiva di aver ragione le dispiaceva di aver causato un terremoto nel modo dei suoi genitori di concepire e vivere la vita.

    Eh sì, l'aveva fatta proprio grossa, anche se la responsabilità non era proprio tutta sua.

    Lei era Cristina, una ragazza normale, non bella ma nemmeno brutta, con due occhi scuri che davano espressione a quel viso anonimo. A sedici anni aveva smesso di studiare, non aveva più voglia di andare a scuola e tanto meno di restare in collegio a fare la sguattera alle suore.

    Già il fatto che suo padre l'avesse fatta viaggiare in diversi Paesi del mondo era una colpa da espiare per suor Agata, suor Giuseppina e suor Teresa. Bastava un niente per essere punita. Niente di grave, ma per qualsiasi piccola infrazione Cristina doveva lavare i piatti, così non faceva la ricreazione.

    Dopo le lezioni pomeridiane puliva i gabinetti, che, caso strano, toccavano sempre a lei. Anche la mattina c'era suor Giuseppina che non trovava mai il letto rifatto nel modo giusto, e lo disfaceva fino a quando Cristina non era in ritardo alla messa mattutina, e allora suor Teresa la obbligava a prendere la colazione in piedi, a sparecchiare tutti i tavoli della mensa e portare tutto in cucina velocemente per non far tardi alle lezioni.

    La sofferenza era tanta, non tanto per le punizioni, ma per l'ingiustizia. La rabbia saliva alla sera quando pensava ai suoi fratelli a casa e lei no, lì in quell'istituto per studiare cose che non le piacevano nemmeno, ma che piacevano ai suoi e questo era sufficiente.

    Aveva tentato un paio di volte di dirlo a sua madre ma lei replicava che non poteva essere vero, con quello che pagavano! Al secondo anno delle superiori disse basta, si rifiutò di studiare e la bocciarono, e allora suo padre, imprenditore, la prese a lavorare con lui.

    Passarono gli anni tranquilli, non chiedeva niente di più che la sua indipendenza economica che le permetteva di essere autonoma in alcune scelte, talvolta criticate in famiglia, in fatto di abbigliamento e letture, l'unico svago, visto che di amicizie non ne aveva, e anche nell'ambito del lavoro le era difficile socializzare perché tutti i colleghi erano in fondo dipendenti di suo padre e il rapporto non poteva quindi dirsi alla pari.

    In casa dava la metà dello stipendio alla mamma per le spese di vitto, ovviamente, ed era una cosa che faceva volentieri perché lo riteneva giusto.

    Cristina si riscosse dai suoi pensieri a causa di un fortissimo tuono: si stava avvicinando un temporale e non sapeva se fosse una fortuna o no. Tuttavia decise di alzarsi, prese il borsone e cercando di non fare rumore arrivò fino al portone. Poi, senza voltarsi, si allontanò verso la stazione.

    Aveva sempre desiderato fare un viaggio da sola e questa volta lo stava facendo davvero.

    Non c'era mai stata alla stazione alle tre di notte, entrava in un mondo fatto di barboni, drogati e ragazze che per un po' di euro erano disposte a tutto. Si ritrovò spaesata e impaurita, lo capiva dal battito accelerato del suo cuore e dai sudori freddi che partivano dalla nuca per scendere fino al calcagno.

    «Ehi, ragazzina, hai da accendere?»

    «Mi spiace, non fumo.»

    «Cazzo!»

    Il tizio si allontanò bestemmiando e Cristina si ritrovò a correre a perdifiato sotto la pensilina del binario semi deserto, con una paura folle.

    Salì sul primo treno in partenza, che scoprì poi, era diretto a Firenze. Andava bene lo stesso, una città valeva un'altra.

    Il treno partì, era sola nello scompartimento, e solo allora si rilassò. Chiudendo gli occhi, ripensò alla causa del suo fuggire.

    Questa volta appoggiata al finestrino dette libero sfogo alle lacrime di dolore, rabbia, disperazione. Non avrebbe mai immaginato di andarsene così dalla sua città, dai suoi affetti, fuggendo da un passato fatto da un momento schifoso, da un presente di probabile assassina e da un futuro, forse, fatto di sensi di colpa.

    No, non poteva tornare indietro. La decisione era stata presa, forse drastica, ma in quel momento non aveva alternativa. Vent'anni gettati al vento. Strinse i pugni, si asciugò gli occhi, e tirando su con il naso ritornò indietro con la memoria, mentre il treno continuava la sua corsa.

    «Ciao Cristina, vieni stasera al pattinaggio insieme a me ed altri amici? Ci divertiremo, vedrai.»

    «Penso di sì, va bene. A che ora ci vediamo?»

    «Alle tre, passo a prenderti.»

    Effettivamente alle tre in punto suonò il campanello ed era proprio Elisabetta… cosa strana, era sempre eternamente in ritardo.

    «Ehi, che miracolo, devo aspettarmi un terremoto oggi? Tu puntuale! Qui gatta ci cova.»

    «Cristina, mi sono innamorata, è esaltante dividere le stesse cose in due e con te… mi sento più sicura.»

    «Bum! Raccontala a un’altra, dimmi la verità, cosa c'è sotto?»

    «E va bene. Riccardo non è solo ha un amico, Claudio, e.… volevo presentartelo. Tutto qui.»

    «Tutto qui? Ormai sono in ballo, ballo, ma la cosa non mi va.»

    Si incamminarono e improvvisamente Elisabetta gridò: Evviva! Eccoci!

    C'era Riccardo con un altro bel ragazzo. Alto, occhi blu e nello stesso istante che lo vide, a Cristina batté forte il cuore.

    Claudio, abituato alle donne, quando vide questa ragazzina capì di avere tra le mani una preda molto facile. Sicuro di piacere, le rivolse un sorriso e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, la prese per mano e insieme agli amici andarono a mettersi i pattini. Cristina era un’imbranata, non aveva equilibrio, cadeva su quella pista come una palla, ma Claudio era sempre così gentile da offrirle la mano per aiutarla a rialzarsi.

    Finirono la serata a quattro in pizzeria, e poi Claudio volle accompagnarla a casa. Guidò in silenzio, fumando una sigaretta dietro l'altra. A un certo punto la sua mano accarezzò con delicatezza la coscia di Cristina. Lei, sorpresa, non si ritrasse. Nella sua ingenuità, l'inizio di un incubo.

    «Ma… non è la strada giusta, devi girare a destra!»

    «Calmati, lo so, ma devo passare dal benzinaio, sono rimasto quasi a secco e devo fare il pieno.»

    Effettivamente su quella strada un benzinaio c'era, e lei pensò a quella bella giornata. Sì, aveva conosciuto proprio un caro e dolce ragazzo. La macchina si fermò, gli occhi di Claudio erano diversi, il suo sorriso era diventato un ghigno. Cristina, si ritrovò sbattuta contro la portiera, la cintura di sicurezza osteggiava la sua voglia di fuga, ma non riuscì nemmeno a urlare, era completamente impietrita, mentre le mani di lui diventavano artigli che le sbottonavano la camicia, le toglievano il reggiseno e le palpeggiavano il seno, come una morsa di acciaio.

    «Sei impazzito, basta!»

    «Taci, santarellina! E le mollò uno schiaffo, facendola sbattere contro il finestrino. Fu allora che sentì qualcosa di duro che entrava dentro di lei che la fece urlare di dolore.»

    Quanto tempo passò? Un minuto, un'ora, un secolo, non lo sapeva. Rimase intrappolata sotto di lui fino a quando finalmente si decise a mettersi a sedere. Si chiuse la lampo, la cintura.

    Non ebbe il coraggio di guardarla in faccia, mise in moto e disse: Non… immaginavo tu fossi vergine. Oggi le ragazze non lo sono più.

    Cristina tremava di paura, sgomento, nausea e una sensazione di colpevolezza, come… come se tutto fosse iniziato per colpa sua. Si sentiva tradita, sola.

    Sola scese di macchina, le gambe le tremavano, aprì il portone e pregò che i suoi fossero ancora a cena dagli amici o dormissero di già. Camminando sentiva un dolore al ventre e qualcosa uscire dalla vagina.

    In casa non c'era nessuno, avrebbe voluto buttarsi sul letto così vestita, era completamente distrutta e schifata. Si sentiva sporca, andò a farsi la doccia. Guardò le mutandine, erano macchiate di sangue.

    Asciugandosi i capelli, davanti allo specchio all'improvviso le vennero in mente le parole: stupro,

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