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Visita di Cortesia
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Visita di Cortesia

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About this ebook

Siracusa, 2120 Il professor Belaqua lavora a una stanza che crea nuove realtà.

Bequé si arrangia inventando storie e collezionando vecchi libri di fantascienza del XX secolo.

Il tenente della menpol Gregory non riesce a dimenticare la morte di sua moglie.

Che sia anche lui impazzito? Sara gestisce un bar alle porte di Ortigia, la città vecchia e non vuole ricordi.

Lo psicobiologo dottor Shell cerca di capire perché strane presenze escono dalla stanza della realtà di Belaqua.

Chi o cosa sono? Il cervello di Isuro li controlla.

Sherlock Holmes non è in grado di aiutarli.

Sigmund Freud può dire ben poco al riguardo.

A Philip Dick non piace essere disturbato, vuole solo la sua pipa. Credere davvero che le cose, la materia siano reali, rincuora.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMay 8, 2019
ISBN9788831618427
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    Visita di Cortesia - Francesco Franchini

    Cortesia

    VISITA DI CORTESIA

    I GIORNI DI BEQUE’ Un piccolo salto e Bequé fu dentro. A prima vista tutto gli sembrò uguale al solito, tanto uguale da percepire una leggera nausea, un sapore di rancido in bocca. Chiuse gli occhi cercando a tentoni un sostegno, richiamando alla mente l’odore dei grossi aranci che suo nonno gli portava dai campi. Rotonde sfere arancioni, succose, ripiene di sole che si spremeva direttamente in gola, il bruciore della vita per scaldarsi lo stomaco. Qualcuno lo spinse da parte, odore di sudore umano gli entrò nelle narici insieme al presente. Un soffio d’aria compressa liberata, un ronzio seguito da un rumore sordo attutito: le porte che si riuniscono dietro di lui. S’impose di non pensare al chiuso, alla luce artificiale che fa apparire antichi fantasmi. Uno scatto vinse la forza d’inerzia e il grande verme metallico della metrocity si mosse con un fioco rollio. I monitor presero vita e come in risposta a un riflesso automatico gli occhi vuoti dei passeggeri vi si diressero. La musica inondò i vagoni, dei cavalieri avanzarono verso lo schermo, le corazze lucide, le grandi spade sguainate, i vessilli al vento. Nessuno notò più le crepe sulla plastica del rivestimento, la sporcizia, la polvere in terra, i graffi sul retro dei sedili. Soltanto Bequé cercando un posto, il più solitario possibile, le riconobbe, le confrontò nella memoria. Si sforzò di decifrarle quasi nascondessero la soluzione di segreti misteri. I visi attoniti lo atterriscono. Inutile distogliere lo sguardo, catturati dagli schermi i passeggeri non lo vedono più. Bequé è divenuto invisibile. Niente più che un’ombra, un miraggio ai limiti del campo visivo. Esattamente ciò che vuole essere. Il rumore della metrocity è un sibilo continuo, acuto. Il sistema elettromagnetico che fa avanzare il vagone emette un ronzio, un enorme insetto intento a muoversi senza meta, impaurito, senza via d’uscita negli interminabili corridoi. Bequé, seduto sul sedile di plastica rossa sbiadita dall’uso ricoperto da strati di sudore solidificato, fissò le teste degli altri passeggeri, i capelli intrisi di brillantina, il collo dei vestiti lucidi, nel mezzo di una piccola striscia di pelle biancastra gocce di sudore che si muovono al rallentatore. Guardò attraverso il piccolo oblò rettangolare a mezzo metro dalla sua testa. Nel buio della lunga galleria vide le scintille che si staccavano dalla monorotaia in corrispondenza dei magneti. Gli ricordarono le stelle cadenti che restava ad osservare nel cielo, quando ancora viveva in campagna, da ragazzo, sdraiato sull’erba nelle notti d’estate. Un cielo terso e immenso, diverso da quello spicchio nero e appannato. Ad intervalli regolari i lampi saettano nel minuscolo planetario rettangolare di vetroplastica là in alto. Bequé senza volere si mise a contare i secondi tra una scintilla e l’altra. Le dita della mano a tenere il tempo tamburellando sulla lamiera. Sei, sette, otto, lampo... Sei, sette, otto, lampo...

    Sei un uomo o una macchina? Sono io che faccio le domande. Disse Gregori. Quando non sai cosa dire cerchi di irritarmi. L’ispettore Gregori era stufo marcio. Allora, cosa diavolo pensi che io sia? Sei un programma. Un programma per computer abilitato a fare domande. Sei bravo. Vuoi convincermi di essere umano, cosicché io mi ponga dei dubbi. Ma non ci riuscirai. So riconoscere le macchine, io! Siete tutti delle macchine, ben fatte certo, in modo che io, che a questo punto sono probabilmente l’ultimo essere umano vero, mi converta. Diventi anche io una macchina. Gregori guardava il terzo paranoico della giornata seduto di fronte a lui che blaterava. Qualunque cosa avesse risposto l’altro l’avrebbe frainteso. Cosa poteva mai dirgli per convincerlo? Era stanco di complotti. Gente che si sentiva inseguita da gnomi fatati, che vedeva pulci saltargli addosso, uscirgli dal corpo, che era certa, sicura al mille per mille, di essere controllata da apparecchi che la spiavano. L’ultimo aveva distrutto il suo mensan perché era certo che stesse per ucciderlo, voleva farlo impazzire, diceva, mostrandogli livelli diversi ogni mattina. La paranoia era divenuta la malattia del momento. Da quando esisteva la menpol i casi di paranoia erano quantomeno decuplicati. Il problema era che le macchine di misura, i mensan, erano tarate sulle psicosi, spesso i paranoici risultavano in regola, razionali. Gregori non ne poteva proprio più, si passò la mano tra i capelli cercando inutilmente di rimettere ordine nei pensieri. Sembrava che tutti i peggiori dovessero finire nel suo ufficio. Come se qualcuno lo volesse far impazzire, come se ci fosse un’idea precisa nell’indirizzare i paranoici al suo reparto. Le statistiche negli altri distretti erano diverse, minori. Possibile, si chiese, che tutti i paranoici schizzati vivessero nel suo distretto? Magari qualche suo superiore cercava di metterlo nei guai o era solo la vicinanza al quartiere antico. Scosse la testa. Doveva smetterla di ascoltare quei matti, altrimenti sarebbe finito come loro. Stava già cercando un disegno organico dietro tutto questo. Uscì dall’ufficio lasciando solo quel tipo che continuava a borbottare. Non se ne accorse nemmeno, parlare a Gregori o al niente era la stessa cosa. Cercò di non correre nei corridoi, di trattenere il fiato, aveva disperatamente bisogno di aria. Appena fuori dal portone d’acciaio respirò forte, si sforzò di non tremare mentre i colleghi gli passavano accanto. Si diresse deciso verso il mare. Appoggiato al basso parapetto di cemento del lungomare vomitò la colazione. Era troppo esaurito per continuare a lavorare e al pensiero dei fascicoli che lo aspettavano sulla scrivania si sentì sempre peggio. Doveva andarsene, fuggire. Trovare un nuovo mondo. Gli tornò in mente, come sempre, sua moglie, ancora giovane come il giorno in cui era morta, Gregori tentò di scacciare l’inevitabile: l’immagine seguente di lei ridotta a un ammasso di carne sanguinolenta sotto le ruote della metrocity. Perché mai l’aveva fatto? Era stata sempre in regola, savia. Perché quel giorno aveva fatto quel passo in più che la divideva dalla vita e la portava al non essere? Era colpa sua? Era lui che non aveva capito in tempo la sua nevrosi, la sua depressione? Il desiderio di svanire così simile a quello che ora provava lui stesso? Gregori fissò l’acqua scorrere sotto il parapetto. Era troppo bassa, inutile pensare di potervi annegare. E poi voleva morire? Voleva davvero non pensare più al corpo di lei schiacciato, non vederla più? Non cercava forse di mantenere vivo questo castigo per espiare in qualche modo? Assaporare nel pensiero l’odore del sangue fresco, delle interiora di lei che si maceravano sull’asfalto. Come aveva potuto sopportare per tanto tempo questa visione nel suo cervello? Come poteva controllare la pazzia altrui se anche lui era ossessionato? Si convinse che anche oggi non lo avrebbe fatto, non si sarebbe ucciso, avrebbe continuato a vedere il corpo di sua moglie ogni sera al rientro a casa, sul pavimento del soggiorno, che lo aspettava per riprendere a sanguinare. Per sorridergli.

    ...Sei, sette, otto, lampo. Se qualcuno avesse notato Bequé mentre tamburellava, lo sguardo fisso in alto, l’avrebbe preso per uno psicotico, un chiaro esempio di pulsione ossessiva-costrittiva. Qualcuno forse, per paura, l’avrebbe giudicato pericoloso e avrebbe trovato la forza di avvisare la menpol. Per sua fortuna gli altri pochi passeggeri avevano gli occhi fissi sulla storia trasmessa dal circuito televisivo interno. Bequé sapeva che molti di loro prendevano la metrocity ogni giorno, alla stessa identica ora, solo per non perdere nessun episodio del loro programma preferito. Aveva dato un’occhiata allo schermo appena salito e accortosi che era una saga medioevale se ne era disinteressato. A Bequé interessava solo la fantascienza. Una delle storie da lui creata sarebbe stata trasmessa nel pieno della notte, quando nel vagone venivano a dormire i vagabondi, l’ora di minore ascolto. Non gli importava. ...Sei, sette, otto, lampo... Il tempo, lo scorrere della sua vita era segnato dai quei lampi. Aveva in tasca il disco inciso di una nuova storia. Se il suo editore lo avesse accettato tra un paio di settimane anche quella sarebbe finita su uno schermo della metrocity, magari in un’ora di punta, oppure in un circuito migliore, quello dei mercati alimentari o delle sale d’aspetto. Con il ricavato avrebbe potuto vivere tranquillo per qualche mese e cercare vecchi volumi cartacei nei mercati delle pulci. Non si era mai abituato al nuovo modo di leggere sugli schermi, lui aveva bisogno di sentire la carta, di sfogliare le pagine, di alzarsi e portarsi dietro il volume mentre girava nel suo cubocasa. ...Sei, sette, otto, lampo... La regolarità degli scatti era angosciante! Bequé tratteneva il respiro, lo concordava con le scintille. Mancava così poco, un momento ancora, due o tre respiri e si sarebbe smarrito, dimenticato, sarebbe stato libero. Il sibilo rallentò e si trasformò nello stridore dei freni in perfetta corrispondenza con i titoli di coda sul video. Di nuovo il soffio dell’aria compressa, le porte che si aprono, trattenendolo nel mondo. Eppure vi erano ancora gallerie da percorrere, scale mobili da salire incolonnati, cancelli arrugginiti da traversare in fila indiana, ore e giorni da vivere. Uscì dalla metrocity assieme a un nugolo di altra gente. Lo circondavano da ogni lato spingendolo fuori, non immaginando che qualcuno, per capriccio, volesse restare lì, sul marciapiede, per sempre. Balordi in abiti da impiegati, tutti uguali e grigi, con ogni bottone e lampo ben chiusa e ordinata, le scarpe lucide e i capelli corti spazzolati dritti come andavano di moda. Alcuni per maggiore uniformità arrivavano a tingersi la faccia con un fondotinta grigiastro. Formiche, pensò Bequé: sono come le formiche nei campi. Le ricordava risalire dal terreno umido in cerca di cibo, spaesate dalla luce, si muovevano in tondo in cerca di guida, di un odore amico. Un esercito di perfette formiche operaie, ecco cosa erano tutti; tra poco si sarebbero ritrovati nel rispettivo angolo a fissare schermi pieni di numeri. Numeri senza senso per lui. Si accorgevano di essere vivi? Lo erano poi? Era così raro vederli sorridere, ognuno intento a fissare i monitor della metrocity per ottenere un momento di smarrimento dalla loro vita. Grigia come i loro abiti. Come il cielo. Come tutto. Bequé non si illudeva troppo. Anche la sua vita stava riassumendo lo stesso grigiore. Aveva lasciato uno dei tanti nebbiosi uffici sperando di farsi strada tra gli autori di storie. Aveva esultato di gioia quando i suoi primi soggetti erano stati accettati. Quando era stato trasmesso il suo primo lavoro aveva trascorso dieci giorni a vederne scorrere le immagini digitalizzate nel treno dei sobborghi. Ogni mattina alle cinque era salito su quello schifoso vagone puzzolente di sonno e di chiuso per ammirare le immagini create dalla sua testa. Un bello schifo! Il decimo giorno mentre scorreva la scena madre, un tizio, probabilmente un alienato che aveva dimenticato di uscire dal treno dove aveva dormito, si era messo a urlare. Gli altri passeggeri avevano subito staccato la loro attenzione dal video attirati da questa nuova distrazione. Poi l’uomo aveva cominciato a ruttare e a vomitare liquido giallastro, odoroso di vino rancido sui piedi di Bequé. Rammentava quello sguardo che mentre rigettava l’alcool sotto forma di bile riassumeva coscienza, il terrore e l’angoscia di esistere ancora che risalivano in lui. Da allora non aveva più cercato di vedere le trasmissioni che inventava. Si limitava a portarle al Barone, come veniva chiamato il Signor Porfirio, prendeva il denaro e se ne disinteressava. Da quel giorno, a poco a poco, senza sosta, il grigio riprese a formarsi. Assumeva il volto di quel vagabondo. Prendeva il sopravvento sulle speranze. Ogni mattina era sempre uguale alle altre. Bequé si stava accorgendo che era impossibile fermarlo. Alcuni suoi lavori erano stati respinti e Bequé aveva dovuto darsi da fare. Sceglieva piccoli lavori, i più umili che trovava. Appena vendeva una storia lasciava l’impiego senza dir niente. Per un paio di mesi, finché gli bastavano i crediti girava per la città. Cosi, come se niente fosse, una mattina dopo l’altra, vedeva il grigio filtrare sotto la porta, circondarlo, asfissiarlo, tutto voleva tornare come prima, mosso da un’entropia invincibile. Il grigio si presentava sotto forma di noia, di piccoli guasti, di cibo andato a male nella dispensa. Si nascondeva dietro le porte per sorprenderlo, lo ritrovava nel letto sfatto, nel rumore del condizionatore, nella nausea, nella solitudine, nel sapore del caffè. I suoi sogni li ritrovava in terra come pozzanghere di sudore, ammucchiati tra gli abiti sporchi quando si alzava dal letto. Non avrebbe mai fatto la vita che desiderava, lontano dai quei tipi inebetiti. Non sarebbe mai scappato dalla sua cubocasa. Il tempo era molto più veloce di lui, delle sue speranze. Mentre camminava per le strade del centro cittadino sentiva su di se gli sguardi dei grigi che vedevano i suoi vestiti sformati e fuori moda, il suo muoversi lento, più lento di come dovrebbe muoversi un cittadino per bene, un grigio che va a lavorare. Risaltava come uno scarafaggio sul pavimento lucido di una cucina bianca. Un estraneo da scacciare, schiacciare, espellere. Bequé era abituato a quegli sguardi, e aveva compreso che, senza rendersene conto, quelli lo invidiavano. Perché almeno lui era libero, libero per quanto si poteva esserlo. Succedeva spesso che qualche agente della menpol volesse controllare il suo livello mentale. Educatamente Bequé guardava nella macchinetta che gli ponevano davanti agli occhi. Un tizio che se ne andava a spasso così, senza niente da fare in apparenza, doveva essere un pazzo. Bequé era sempre sopra il limite, in regola. E i grigi che sbirciavano i menpol fargli il controllo si meravigliavano sempre più. Non era nemmeno un matto, non potevano classificarlo. Bequé ringraziava gli agenti e se ne andava sentendosi sulle spalle occhiate scrutatrici. C’era un breve tragitto tra la stazione della metrocity e l’ufficio del barone Porfirio, eppure ogni volta doveva sottostare a un controllo, erano delle forche caudine che accettava con piacere. Un divertimento vedere i visi dei menpol leggere il livello sulle loro fottute macchinette mentali. E quando si accorgevano che era in regola il tintinnare di manette e pillole che si sostituiva con un sorriso stentato di scuse. Il palazzo del barone era antico, uno degli ultimi edifici barocchi della città, sopravvissuto nascosto tra grattacieli alti più del doppio. L’intonaco aveva perso colore, le finestre elaborate avevano ora vetri a specchio, l’ingresso era protetto da telecamere. Le statuine scolpite a bassorilievo che guardavano in strada dai cornicioni avevano assunto col tempo uno sguardo triste, assente. Bequé si fermo a osservarle. Dopo trecento anni le crepe sui visi erano ormai rughe di vecchiaia, le mani avevano perso dita, strati di calcina bianca uscivano dai corpi come tumori gonfi. Non parlavano più. Erano mute, le bocche spalancate in un grido inutile e afono. Bequé poggio il viso sullo schermo d’ingresso del palazzo, la macchina lo riconobbe, ronzò e spalancò il portone d’acciaio. Bequé salì fino al terzo piano nel moderno ascensore che sollecitava troppo le strutture settecentesche ed entrò nell’appartamento del Barone. Il buio si accentuò. Le pupille di Bequé si allargarono. L’ufficio del Signor Porfirio era un vasto soggiorno rivestito di carta da parati scura, con due finestre oscurate dallo smog. Una scrivania sosteneva lo schermo del lettore digitale attorniato da tre sedie con l’imbottitura di paglia che perdevano fili. Bequé rimaneva sempre meravigliato dal potere che quel fatiscente ufficio possedeva. Il Signor Porfirio, il Barone, come si faceva chiamare, pur essendo uno dei più grandi editori di storie non credeva nell’apparenza, d’altronde i suoi affari venivano conclusi per via elettronica e nessun autore tranne Bequé insisteva per portargli i suoi lavori di persona. Si accomodò con cautela su una delle sedie gialle. Il Signor Porfirio era alto poco più d’un metro e mezzo, la calvizie nascosta da un riporto gelatinoso e rado che in ottemperanza al suo nome tingeva di rosso sfumato. Il viso era tondo, gli occhi piccoli e il naso grosso. Era un ometto che ballonzolava sulla sedia, urlando con la lingua di fuori appena qualcosa non era di suo gusto. Si diceva che fosse uno degli ultimi mafiosi, che fino a pochi decenni prima risolvesse le contese d’affari con la lupara, il fucile a canne mozze usato dagli uomini d’onore, come si facevano chiamare tra loro. Bequé con timidezza allungò la mano con il disco, prima ancora di sedersi. Bequé ma perché mai insisti a portarmeli di persona? Il signor Porfirio, il barone, aveva una voce gracchiante, bassa, fastidiosa, troppo alta di volume. Non lo so...un’abitudine. Il Signor Porfirio prese il disco e lo gettò in un cassetto, poi con cautela estrasse alcuni crediti dalla tasca. Li contò e li allungò attraverso la scrivania. Non lo guarda? Chiese Bequé. So già che è buono. I tuoi lo sono sempre. Bequé fece una smorfia. Il Signor Porfirio continuò come parlando a se stesso, fissando il soffitto intarsiato: Basta fantascienza, però. Nessuno la vuole più. Sono costretto a mandare le storie come le tue, Bequé, ottime storie, nei momenti di minore ascolto. La gente è stufa marcia della fantascienza. Ogni giorno, ogni minuto arriva una notizia scientifica che fa apparire la fantascienza arretrata di cento anni. Non siamo più nel ventesimo secolo, Bequé. Che senso ha parlare di Marte o di altre galassie. Sul primo ci sono basi terrestri, sulle seconde non ci arriveremo mai. Chi se ne frega della fantascienza. Creami delle belle storie d’amore, con passione, tradimenti, inganni. Drammoni ambientati magari nell’ottocento, con costumi sfarzosi, colori, la natura. Ragazze che si innamorano, gentiluomini a cavallo. Oppure qualche bella storia medioevale, con le spade e le corazze, tipo Re Artù, mi hai capito, no? La gente vuole evadere mentre viene trasbordata dalla metrocity. La fantascienza è troppo reale, è il mondo che vivono ogni giorno. Il Signor Porfirio si bloccò a metà del suo discorso. Mi ascolti? Si, signor Barone. Bequé a testa bassa fingeva malamente di fare attenzione al discorso che era obbligato a sentire ogni volta. Perché poi vuoi dei contanti? Mi piace. Voglio sapere quello che possiedo, sentire il denaro in tasca. Poter... fuggire, se dovessi decidere di... Non mi piace chiedere denaro a una fottuta banca elettronica. Non offendere! Devi portare rispetto! Le banche, il profitto, i soldi sono la civiltà. È per questo che si vive. Tu stesso lavori per questo. Come un assurdo dio irritato, il Barone teneva il dito indice dritto verso il naso di Bequè. Comunque, come vuoi tu! Sei un bravo ragazzo ma proprio un tipo all’antica. Già, chi altro scriverebbe di fantascienza, oggidì! Il barone fece con la mano il gesto di scacciare una mosca, un gesto che rammentò a Bequé quello del padrone quando a cavallo traversava la campagna e rispondeva al saluto di suo nonno che si toglieva il capello e diceva ad alta voce: baciamo le mani, vossignoria! con una punta di ironia e sberleffo ancora vive sotto la paura del potere. Con umiltà come aveva imparato a fare, Bequé prese i crediti, dei tagliandi di plastica colorati, e li infilò in tasca senza rispondere, la testa bassa. Si alzò e se ne andò.

    Il dottor Shell guardava dalla finestra il nuovo panorama che si era scelto. Al posto degli enormi parallelepipedi che vedeva dal suo ufficio in piena Manhattan a New York, c’erano dei palazzi di due o tre piani di tufo e arenaria, con le facciate rivestite, le finestre barocche. Sapeva bene che appena oltre il lembo di mare che circondava l’isola di Ortigia vi erano moderni grattacieli e ancora oltre si stendeva il vasto

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