La casa nel vicolo
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La casa nel vicolo - Maria Messina
INDICE
La casa nel vicolo
Maria Messina
La scrittura
Le Autrici della Letteratura Italiana
Opere
Novelle
Romanzi
Letteratura per l’infanzia
Altro
Bibliografia
La casa nel vicolo
I
II
Note
Maria Messina
La casa nel vicolo
Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.
L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale
specifico,
dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina
ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari (come note e testi introduttivi),
è soggetto a copyright.
Immagine di copertina: Emeline and Josephine Tarbell, the artist’s wife and daughter; opera di Edmund C. Tarbell (1862–1938).
This is a faithful photographic reproduction of a two-dimensional, public domain work of art. The work of art itself is in the public domain for the following reason:
The author died in 1938, so this work is in the public domain in its country of origin and other countries and areas where the copyright term is the author’s life plus 80 years or less.
This work is in the public domain in the United States because it was published (or registered with the U.S. Copyright Office) before January 1, 1924.
Elaborazione grafica: GDM.
Maria Messina
Maria Messina (Palermo, 14 marzo 1887 – Pistoia, 19 gennaio 1944) è stata una scrittrice italiana (zia di Annie Messina, figlia del fratello di Maria, Salvatore).
Nacque ad Alimena, in provincia di Palermo, da Gaetano, ispettore scolastico, e Gaetana Valenza Traina, discendente di una famiglia baronale di Prizzi. Cresciuta a Messina, trascorse un’infanzia isolata, con i genitori ed i fratelli. Durante l’adolescenza, viaggiò molto nel Centro e Sud dell’Italia, per via dei continui spostamenti del padre, finché, nel 1911, la sua famiglia si stabilì a Napoli. Maria Messina si autoeducò e fu, in seguito, incoraggiata dal fratello maggiore a iniziare una carriera come scrittrice.
All’età di ventidue anni, iniziò una fitta corrispondenza con Giovanni Verga, e tra il 1909 e il 1921, pubblicò una serie di racconti. Grazie all’appoggio di Verga, inoltre, una sua novella uscì sull’importante rivista letteraria, La Nuova Antologia
; un’altra, La Mèrica, uscita su Donna
, vinse il premio Medaglia d’Oro.
Fatta esclusione per i fratelli, la corrispondenza con Verga rappresentò l’unico contatto amichevole e l’unico legame con il mondo letterario. In totale, questa scrittrice produsse diversi volumi di racconti brevi, cinque romanzi e una selezione di letture per bambini, che le diedero una modesta fama. Nel 1928, uscì il suo ultimo romanzo, L’amore negato, mentre la sclerosi multipla, che le era stata diagnosticata a vent’anni, si stava complicando. Maria Messina morì, a Pistoia, nel 1944, a causa di questo male.
Visse molti anni a Mistretta, città in provincia di Messina, nel cuore dei monti Nebrodi, dove ambientò molti suoi racconti. Le sue spoglie mortali, assieme a quelle della madre, sono state traslate, il 24 aprile 2009, proprio a Mistretta, considerata come una sua seconda patria. Maria Messina è divenuta cittadina onoraria
dell’antica capitale
dei Nebrodi.[1] Inizialmente non era molto conosciuta come autrice, soltanto successivamente venne riscoperta da Leonardo Sciascia[2] che ripubblicò numerose opere di Maria Messina in case editrici di prestigio.
La scrittura
La scrittura di Messina si concentrò soprattutto sulla cultura siciliana e, come temi principali, l’isolamento e l’oppressione delle giovani donne siciliane.[3] Inoltre, la sua scrittura si focalizzò sulla dominazione e sub missione inerente alle relazioni sentimentali tra uomini e donne.[4] Per di più, una delle sue novelle più riconosciute, La casa nel vicolo, segnò un punto di svolta nella scrittura di Messina, verso lo sfruttamento delle condizioni psicologiche.[5] Nella sua narrazione, Messina ritrasse l’oppressione delle donne come inevitabile e ciclico nella sua scrittura e, a causa di questo, alcuni sostengono che lei non fu una femminista.[3]Ciononostante, le donne che ritrasse furono la rappresentazione di potenti dichiarazioni di atteggiamento di sfida.[6]
Le Autrici della Letteratura Italiana
Maria Messina è tra le scrittrici basilari della storia della letteratura italiana del primo Novecento; è quindi censita in Le Autrici della Letteratura Italiana.
Opere
Novelle
Pettini fini e altre novelle, Sandron, Palermo, 1909; Sellerio, Palermo, 1996
Piccoli gorghi, Sandron, Palermo, 1911; Sellerio, Palermo, 1988
Le briciole del destino, Treves, Milano, 1918; Sellerio, Palermo, 1996
II guinzaglio, Treves, Milano, 1921; Sellerio, Palermo, 1996
Personcine, A. Vallardi, Milano, 1921; Sellerio, Palermo, 1999
Ragazze siciliane, Le Monnier , Firenze, 1921; Sellerio, Palermo, 1997
Casa paterna (1944), Sellerio, Palermo, 1981 (con una nota di Leonardo Sciascia).
Gente che passa, Sellerio, Palermo, 1989
Dopo l’inverno, a cura di Roswitha Schoell-Dombrowsky, Sellerio, Palermo, 1998
Romanzi
Alla deriva, Treves, Milano, 1920
Primavera senza sole, Giannini, Napoli, 1920
La casa nel vicolo, Treves, Milano, 1921; Sellerio, Palermo, 1982
Un fiore che non fiorì, Treves, Milano, 1923
Le pause della vita, Treves, Milano, 1926
L’amore negato, Ceschina, Milano, 1928; Sellerio, Palermo, 1993
Letteratura per l’infanzia
I racconti di Cismè, Sandron, Palermo, 1912
Pirichitto, Sandron, Palermo, 1914
Cenerella, Bemporad, Firenze, 1918
I figli dell’uomo sapiente, Sandron, Palermo, 1920; Mondadori, Milano, 1939
II galletto rosso e blu e altre storielle, Sandron, Palermo, 1921
II giardino dei Grigoli, Treves, Milano, 1922
I racconti dell’Avemmaria, Sandron, Palermo, 1922
Storia di buoni zoccoli e di cattive scarpe, Bemporad, Firenze, 1926
Altro
Un idillio letterario inedito verghiano: lettere inedite di Maria Messina a Giovanni Verga, a cura di Giovanni Garra Agosta, introduzione di Concetta Greco Lanza, Greco, Catania, 1979
Bibliografia
Giovanni Garra Agosta (a cura di), Un idillio letterario inedito verghiano: lettere inedite di Maria Messina a Giovanni Verga, Greco, Catania, 1979
Lucio Bartolotta, Maria Messina, Il centro storico, Mistretta, 2009
Maria Messina
La casa nel vicolo
I
Nicolina cuciva sul balcone, affrettandosi a dar gli ultimi punti nella smorta luce del crepuscolo. La vista che offriva l’alto balcone era chiusa, quasi soffocata, fra il vicoletto, che a quell’ora pareva fondo e cupo come un pozzo vuoto, e la gran distesa di tetti rossicci e borraccini su cui gravava un cielo basso e scolorato. Nicolina cuciva in fretta, senza alzare gli occhi: sentiva, come se la respirasse con l’aria, la monotonia del limitato paesaggio. Senza volerlo, indugiava a pensare alla casa di Sant’Agata; rivedeva il balconcino di ferro arrugginito, spalancato sui campi, davanti al cielo libero che pareva mescolare le sue nubi col mare, lontano lontano.
Era quella, per Nicolina, l’ora più riposata, benché la più malinconica, della giornata. Tutte le faccende erano sbrigate. Nella casa, come nell’aria, come dentro l’anima, si faceva una sosta, un accorato silenzio. Allora pareva che i pensieri, i rimpianti, le speranze, si facessero innanzi circonfusi della stessa luce incerta che rischiarava il cielo. E nessuno interrompeva i vaghi, incompiuti soliloqui.
Antonietta era in camera, presso il lettino di Alessio che da sei giorni aveva la febbre. Il cognato, al solito, restava seduto presso la tavola, che Nicolina aveva sparecchiata. Nella stanza mezzo buia si scorgeva, simile a un piccolo punto rosso, il fuoco della lunga pipa. Dopo aver cenato, e cenavano mentre era ancora giorno per non andare a letto col cibo sullo stomaco, egli fumava per un’ora giusta (il pendolo oscillava nel mezzo della parete), tenendo gli occhi socchiusi, placidamente.
Annottava, e l’ultima luce era fuggita; Nicolina ripose il lavoro nel cestino, alzandosi un po’ a malincuore. Doveva preparare il bicchiere d’acqua che il cognato sorseggiava lentamente, due ore dopo aver cenato. Antonietta, che aveva la testa al malatino, non se ne sarebbe occupata.
Strizzò poco meno di mezzo limone nell’acqua, badando che col succo non cadesse qualche seme; aggiunse tanto vino quanto bastava a tinger l’acqua; vi sciolse un cucchiaino scarso di zucchero; agitò, rimestò, lasciò riposare. Poi guardò il bicchiere contro il lume, per accertarsi che la bibita fosse perfettamente limpida, come sapeva prepararla Antonietta. E finalmente portò il bicchiere, su un piatto, cautamente.
Tornò a riaffacciarsi. Ma il cognato chiamò subito.
— Vuoi ammalarti anche tu? C’è umido, fuori.
Nicolina avrebbe voluto spiegare che l’aria le pareva insolitamente tiepida. Ma rientrò senza replicare.
— Chiudi.
Socchiuse il balcone, sospirando.
— Chiudi bene.
Chiuse anche gli scuri, senza fare rumore. Si ricordava di suo padre che non voleva serrassero le finestre; diceva: «Il viandante stanco, che entra di notte in paese si solleva se vede un po’ di luce nelle case…».
Sedette presso la tavola e riprese a lavorare, cercando di non dar noia al cognato con la mano, nel tirar la gugliata. Carmelina, trascinati i balocchi presso la zia, cominciò a cullare una pupattolina fatta con due cenci e un fil di spago, canticchiando: «Dormi… Dormi…». Ma si interruppe subito, e tacque, guardando il padre un po’ spaurita.
Poi venne Antonietta, pallida e preoccupata, e sedette anche lei.
— Hai fatto bene, – disse all’orecchio della sorella –, a pensare per la limonata.
— Tu non venivi…
— C’eri tu. Stavo tranquilla.
Sempre sotto voce aggiunse, accarezzando la bambina:
— È ora che vada a letto, non ti pare? Io debbo tornare di là.
— Finisco la cucitura e vado subito.
Tacquero. Di solito stavano sempre zitte mentre lavoravano e don Lucio era in casa, per non dargli noia.
Antonietta, che mostrava una penosa inquietudine in tutta la persona, ruppe due volte il pesante silenzio con due sospiri profondi. Tutte e due le volte Nicolina levò gli occhi dal lavoro e la guardò con espressione angustiata.
Don Lucio assaporava la sua fumata con sodisfazione quasi voluttuosa. Tenendo gli occhi socchiusi, seguiva ogni piccolo movimento delle due sorelle. L’una e l’altra avevano nell’espressione, nella maniera di muoversi, di guardare, lo stesso impaccio, la stessa goffaggine che nascevano dal continuo misterioso timore di recargli fastidio. Egli provava una compiacenza sempre nuova ogni qual volta si avvedeva come fosse profonda la soggezione che ispirava alle due