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Swim Party
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Swim Party

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La più grande festa dopo il Big Bang? Lo Swim Party del liceo Corso di Correggio. Ce lo descrive Riccardo, uno degli organizzatori, tra aspettative per il futuro e memorie del passato, tra desideri e nostalgia, riportando ciascuno di noi ai propri diciotto anni.
Swim Party, la festa in piscina alla fine dell’anno scolastico, l’occasione più attesa dai ragazzi del liceo Corso di Correggio.
Riccardo, rappresentante di istituto e organizzatore dell’evento, si appresta a vivere quella che sarà la sua ultima festa del liceo prima dell’esame di maturità e prima di lasciare la scuola per un futuro tutto da scoprire. Sarà certamente una serata memorabile, un’occasione per fare bisboccia e divertirsi alla grande, senza preoccupazioni, senza problemi, lasciandosi tutto alle spalle. Eppure, mentre la festa si mette in moto, sono tanti i ricordi che riaffiorano alla sua mente: memorie di cinque anni di vita, che nascondono talora ombre e questioni irrisolte.
Come si concluderà il grande Swim Party di Riccardo? Sarà davvero l’evento più importante della sua adolescenza, oppure le sue aspettative sono destinate a rimanere frustrate, inghiottite da un passato col quale è difficile fare i conti?
LanguageItaliano
Release dateMay 20, 2019
ISBN9788833282688
Swim Party

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    Swim Party - Roberto Perrone

    985-986)

    1.

    Questa sarà una grande festa.

    Non lo dico mica perché l’ho organizzata io, intendiamoci. Del resto, sono uno dei rappresentanti di istituto, quindi fare le feste è un po’ il mio mestiere, una delle incombenze non ufficiali della mia carica, ci mancherebbe che non mi impegnassi e che non mi dessi da fare per orchestrare il tutto.

    Devo dire che mettere in piedi questo evento, questo Swim Party – che è il modo con cui noi del liceo Corso di Correggio chiamiamo le feste che organizziamo in piscina alla fine dell’anno scolastico, con un nome che porta il nostro copyright e che gli altri istituti non devono nemmeno provare a copiarci – non è stato semplice. Da solo non ce l’avrei fatta, meno male che c’erano anche la Selly, la Lara, la Liliana, quello stordito di Berta, che è riuscito a rimanere sul pezzo e a non dimenticarsi neanche una telefonata di quelle che doveva fare; persino Franco, Rocky e gli altri sospesi, alla fine, hanno fatto la loro parte, non si sono risparmiati. Senza il team al completo, chissà cosa sarebbe venuto fuori. Forse niente, è probabile che saremmo rimasti al palo.

    Il fatto, però, è che questa festa, anche se non l’ho realizzata da solo, la sento come se fosse mia, esclusivamente mia.

    Perché è la mia ultima festa del liceo.

    Fra neanche due settimane comincia la maturità: via con gli scritti, sotto con quest’ultimo scoglio, prima di inaugurare una nuova fase della vita, con in mezzo l’estate, la prima estate veramente libera, senza compiti delle vacanze, senza l’assillo di dover fare delle versioni, delle disequazioni, leggere questo e quel libro, tradurre dall’inglese. No, mi aspetta una stagione indimenticabile, qualunque cosa succeda. E stasera si festeggia, poche storie.

    Stamattina è stato l’ultimo giorno di scuola e abbiamo detto addio alle lezioni, alle aule, alle campanelle, alla corriera tra Carpi e Correggio. Un addio definitivo, mica come quello delle elementari e delle medie, dove c’era sotto il trucco: tutto finito, tutto finito, ma poi non era finito niente, dopo un paio di mesi si ricominciava e si ricominciava ancora più seriamente di prima.

    Adesso no: non c’è più lo spettro di settembre, il tanto temuto settembre, quando riattaccava la solfa, quando si doveva riprendere a mettere la sveglia e ad andare a letto a un’ora decente la sera, e i bei momenti spensierati dell’estate sembravano già un ricordo lontano e veniva da chiedersi se c’erano stati davvero o se li si era sognati.

    Non dovremo più fare il conto alla rovescia dei giorni che rimangono prima che riparta il tran-tran quotidiano, la solita vita scandita dall’ominoso suono della campanella, nella continua attesa dell’intervallo e poi della fine delle lezioni, che ogni volta sembrano un grande traguardo, eventi lontani che chissà mai se si avvereranno.

    Basta con questa esistenza fatta di ore di cinquanta minuti, di piccole fughe in corridoio nell’attesa che arrivi l’insegnante dell’ora dopo, sperando sempre che si fermi in sala professori a parlare con qualche collega; basta con questo universo fatto di pigri bla bla bla, di borbottii e di bisbigli furtivi strappati alla malinconia del giorno, mentre la monotona voce del professore si spande per l’aula e rimbalza sorda tra i banchi e le sedie, e ti entra e ti esce dalle orecchie come un rumore di sottofondo, vuoto e insignificante, che col tempo si impara a ignorare del tutto, a fare come se non ci fosse, e invece c’è, e magari ti capita pure che il prof si fermi e ti chieda: «Mi stai ascoltando, Pedone? Cosa stavo dicendo?» e in quel momento, se non sai rispondere, ti becchi pure un cazziatone e gli altri ti ridono dietro, come se poi non fossero anche loro tutti intenti a farsi i fatti propri.

    Da oggi niente di tutto questo. Bon, andato, the end, tout fini. Se ci penso, quasi non mi sembra vero che io possa aver vissuto in questo modo per… cosa sono, tredici anni? Sì, tredici anni, ragazzi, mica uno scherzo, quasi tre quarti della mia vita, e si sono volatilizzati in un lampo al momento del drin dell’una e un quarto, l’ultima campanella da liceale, l’ultima da studente. L’università? L’università sarà un’altra cosa. Niente a che vedere con quello che è stato finora.

    Ora però devo smetterla di pensarci, altrimenti mi viene la nostalgia e questa serata non è proprio il caso di passarla a fare il malinconico e a versare lacrime al ricordo dei bei momenti trascorsi al liceo, di tutte le avventure e le disavventure che mi sono capitate negli ultimi cinque anni, di tutti gli eventi significativi di questo periodo della mia esistenza, e sono stati tanti. Ho tutta una vita davanti per questo.

    Ora è il caso di pensare al presente, di godersi questa festa, che è il coronamento di tutto quanto, è il premio alla fine della corsa, la medaglia per tutti i corridori – facciamo i maratoneti, perché più che i cento metri piani questa è stata una gara di resistenza – sia per quelli più bravi, che sono arrivati tra i primi, sia per quelli che se la sono presa comoda, che hanno arrancato, a volte affaticati, a volte incerti e zoppicanti, a volte svogliati e indolenti. In un modo o nell’altro, in fondo ci siamo arrivati quasi tutti.

    Certo, giunti agli sgoccioli si fa fatica a non guardarsi indietro, a non riportare alla mente i momenti più salienti di questa lunga stagione sui banchi di scuola, tra versioni di latino e coseni, tra interrogazioni a sorpresa e assemblee di classe. Sembra impossibile provare a riassumere tutto in qualche flash, in un paio di episodi qua e là, perché la prima cosa che mi verrebbe da dire è che il mio liceo è stato un’esperienza speciale, unica. Speciale nel bene e nel male, intendiamoci, visto che non è che sia andato sempre tutto a meraviglia, anzi, ci sono stati casini a non finire, più di una volta le cose hanno preso una brutta piega, ma nondimeno speciale, assolutamente.

    È davvero così? Mi sorprendo a domandarmelo. Non è forse quello che pensa ogni diciottenne, ogni ragazzo arrivato a questo punto della vita? Probabilmente è convinto che la sua storia sia straordinaria, inimitabile, crede di avere più cose da raccontare di ogni altra persona che conosce, specie dei suoi coetanei; gli sembra che l’adolescenza sia un’avventura tutta sua, un’epopea della quale è protagonista indiscusso, gli pare che tutte quelle vicende non sarebbero potute succedere che a lui, che era il predestinato, l’eletto.

    La mia storia sarà davvero così eccezionale come mi appare? Non può essere, piuttosto, che tutto quello che ho vissuto sia ordinario, banale, che non ci sia in realtà niente da raccontare o, quantomeno, niente che abbia un significato per gli altri? Non potrebbe darsi che tutti questi episodi che mi riaffiorano alla mente siano rilevanti soltanto per me, mentre per gli altri siano soltanto vuoti accadimenti privi di mordente, di verve, scontati, a tratti perfino noiosi? Può essere; anzi, magari è proprio così.

    Non posso sperare di trasmettere tutte le emozioni che ha suscitato in me questo viaggio, né posso pretendere che altri si sentano partecipi del cammino che ho percorso io, in prima persona, e che per il resto del mondo è solo la vicenda di un tizio qualunque che si confonde tra quelle di altri miliardi di tizi qualunque, intrappolati nelle loro vite grigie e insignificanti, tutti presi dalla frenesia di dare un senso al fatto che ogni mattina si alzano dal letto e fanno le stesse cose: mangiano, bevono, fanno sesso, parlano al telefono, ridono, urlano, gesticolano; minuscole formichine di un immenso formicaio brulicante di insetti, che a guardarli dall’alto sono perfettamente identici, anonimi, tanto che bisogna andarci vicino, molto vicino, scrutarli con la lente, col microscopio, per cogliere qualche differenza, qualche tratto caratteristico, e non tutti hanno la voglia e la pazienza di farlo. Nella maggior parte dei casi, forse, nemmeno ne vale la pena.

    Lo so, obietterete che sono anche io una di quelle formichine: a osservarmi così, sono tale e quale alle altre, un puntino nero tra tanti, niente di peculiare, e quello che ho vissuto finora non si differenzia in nulla dall’intenso e insensato formicare quotidiano dei miei simili.

    Eppure, se adesso sono qui, davanti alla piscina di Gualtieri, ad aspettare quest’ultima festa, se sono diventato quello che sono e se un giorno, in futuro, diventerò qualcuno o qualcosa, un uomo di successo, un professionista affermato, una persona famosa e importante, oppure un signor nessuno, un balordo, un poco di buono, sarà in parte grazie a quello che è successo in questi cinque anni. Trita, monotona, scialba finché volete, ma questa è una storia che devo raccontare, almeno a me stesso, per potermi capire un po’ meglio, per non perdere di vista chi sono e chi mi avvio a essere.

    Lasciatemelo fare, che tanto c’è ancora un po’ di tempo prima che cominci la festa.

    Io me lo ricordo bene il mio primo giorno di liceo.

    Eccoci lì, davanti all’ingresso, ad aspettare che suoni la campana e la bidella ci faccia entrare. Una massa di gente indistinta, un’umanità variegata e stravagante, mischiata in un grande calderone ribollente di emozioni diverse. Facce spaventate, spavalde, indifferenti, mezzo addormentate, indistinguibili l’una dall’altra.

    Io me ne stavo per i fatti miei, con gli occhi fissi sull’elenco dei miei futuri compagni di classe appiccicato sul vetro della porta, come se in quel modo potessi scoprire chi erano e se mi sarebbero stati simpatici. Conoscevo pochissime persone, giusto due o tre ragazze che erano alle medie con me, tra cui la Monica, che era stata mia compagna di giochi dai tempi delle elementari. Eravamo ancora abbastanza amici. Mica troppo, perché lei frequentava un giro di gente fagiana che a me stava un bel po’ sulle balle, però con lei ci si parlava un po’, insomma, non eravamo due sconosciuti.

    Al suono della prima campanella, quella delle sette e cinquantacinque, siamo entrati a scuola, io e la Moni a fianco, e c’era pure un’altra ragazza che è entrata con noi. Io non la conoscevo, la Monica sì, e allora me l’ha presentata. Si chiamava Grazia.

    «Vi conoscete?», ha detto la Moni. «Lei è Grazia, lui è Riccardo.»

    E io: «No, non ci conosciamo. Piacere, Riccardo.»

    «Piacere, Grazia.»

    Ci siamo stretti la mano. È stata la prima volta che ho stretto la mano a qualcuno per presentarmi. Mi sono sentito molto adulto: alle medie nessuno si dava la mano quando si presentava, ci si diceva semplicemente ciao.

    Fino a pochi mesi prima tutti noi avremmo considerato molto ridicolo se due ragazzini, anche di terza, incontrandosi per la prima volta si fossero stretti la mano, quasi come se volessero darsi del Lei. Ci sarebbe sembrato un palese tentativo di imitare i grandi, come quei marmocchi che giocano a fare gli adulti mettendosi i vestiti dei genitori che stanno loro troppo larghi, e allora risultano goffi e impettiti.

    Quel giorno noi non eravamo molto più grandi rispetto alle medie, avevamo appena quattordici anni – io ancora tredici perché li compio in ottobre – ma ai nostri occhi era tutto cambiato: era il nostro primo giorno di superiori e ci consideravamo abbastanza adulti da dover fare qualcosa di diverso dal solito per presentarci, sentivamo che il semplice ciao era troppo da ragazzini. Potevamo finalmente fare quel gesto che fanno le persone cresciute per conoscersi.

    Tutto è partito così, con una stretta di mano.

    Siamo arrivati nella nostra classe, in quell’aula asettica dalle pareti di colore indefinibile, tra il beige e il grigio chiaro, con le enormi finestre sul fondo, perché la sede del liceo era ancora in corso Mazzini, in un edificio che aveva ospitato un concessionario di automobili, e solo più avanti ci saremmo trasferiti nella nuova ed elegante sede di via Roma.

    Quel lunedì mattina ci siamo sistemati a caso nei banchi. Alla prima ora avevano piazzato greco, tanto per farci iniziare col piede giusto, che non ci facessimo illusioni su cosa ci attendesse negli anni a venire.

    Il professore si chiamava Lodi. Credo che tutti ci aspettassimo un vecchio bacucco incartapecorito, capelli bianchi candidi e barbetta caprina, avvolto in una orrenda giacca marroncina o grigio topo con disegno a pied-de-poule, che andava forse prima della guerra, un individuo arcigno e severo che parlasse con voce roca, scatarrando ogni tanto e sputazzando sugli interrogati. La tipica immagine del professore di lettere antiche, insomma.

    Rimanemmo delusi.

    Lodi era un ometto basso, sulla trentina, pelato, con un’aria attenta e occhi che ci scrutavano, indagatori, dietro le lenti degli occhiali stretti con la montatura in metallo. Indossava una giacca nera sfiancata sopra un paio di jeans chiari sgambati e una polo color fenicottero, ai piedi mocassini a punta. Si sarebbe detto arrivato direttamente dagli anni Settanta, se non fosse stato che a quell’epoca doveva essere poco più di un moccioso che giocava con i soldatini. In ogni caso, non ci saremmo stupiti se un giorno fosse entrato in aula con una parrucca piena di riccioli e ballando sulle note di Stayin’ Alive.

    Lodi era il nostro docente di greco, latino, italiano, storia e geografia. Se avessero potuto, credo che gli avrebbero fatto insegnare anche storia dell’arte, inglese ed educazione fisica e, già che c’era, magari gli avrebbero chiesto di dare una pulita ai pavimenti e alle finestre.

    Comunque fosse, per noi, si sarebbe ben presto rivelato una figura onnipresente, il vero protagonista di quella nostra quarta ginnasio, mentre gli altri professori erano tutt’al più delle comparse, gente capitata lì quasi per caso, che entrava, faceva la sua oretta striminzita di lezione e poi sgattaiolava fuori in punta di piedi.

    Lodi invece era sempre in classe. Ci saremmo abituati a vederlo in cattedra anche quattro ore di seguito, per fortuna intervallate dalla ricreazione, benché questa non fosse sufficiente a spezzare la monotonia di sentire la stessa voce per quasi un’intera mattinata.

    La prima cosa che fece Lodi all’inizio della lezione fu cercare di rassicurarci sul fatto che il classico non era quella tortura che tutti pensavano.

    Ci disse che bisognava sì impegnarsi, forse più che in altre scuole, ma ben presto le materie sarebbero venute a piacerci al punto che non avremmo più sentito il peso di doverci applicare per impararle. Il trucco era stare attenti in classe, non distrarsi, non buttare via il proprio tempo e a casa tutto si sarebbe rivelato più semplice.

    Certo – ripetè diverse volte, in maniera sinistra – ci sarebbe stato da studiare e sì, ci sarebbero stati compiti per i giorni successivi, e qui si lanciò in un inquietante elenco: versioni di greco e latino, temi di italiano, approfondimenti di storia e geografia, senza contare gli esercizi per le altre materie, tra cui equazioni, dimostrazioni di geometria, traduzioni dall’inglese, e così via.

    Che non pensassimo però di dover passare gli interi pomeriggi sui libri: il classico non era un convento e noi non dovevamo per forza assoggettarci alla clausura; avremmo di sicuro avuto tempo per coltivare i nostri passatempi, per non trascurare le nostre passioni. Sempre che, beninteso, riuscissimo a sviluppare un buon metodo, una sorta di modus vivendi che ci avrebbe permesso di sopravvivere ai cinque anni seguenti e di trasformare la scuola in un paradiso, o almeno in un sopportabile purgatorio. In caso contrario (non lo disse, ma era sottinteso), ci aspettava qualcosa di peggio dei gironi dell’inferno.

    Dopo questa introduzione, che ebbe l’effetto di terrorizzarci ancora di più, passammo allo scontato rito delle presentazioni. Il professore chiamava, e da qualche parte dell’aula si alzava una voce, un Io o un , che ora era squillante e deciso, ora timido e reticente; allora tutti si voltavano a guardare chi aveva parlato, per cercare di memorizzare quanto più possibile di quelle facce, tentando di schedarle, di associarle a un nome, per poi procedere oltre.

    Eravamo ventisei in classe, quell’anno. Ventisei nomi da ricordare erano troppi per me, che riguardo ai dati anagrafici delle persone ho la memoria di un pesce rosso, di quelli che fanno il giro della boccia per tornare al punto di partenza e pensare: Oh, un posto nuovo da visitare!

    Avevo scorso l’elenco esposto fuori dalla porta d’ingresso e avevo visto due o tre cognomi interessanti, come quello di una tal Pozzetto, che mi ricordavo solo grazie all’omonimia con l’attore; e quello di una Girardello, che aveva trovato posto nel disco fisso del mio cervello perché mi faceva ridere. Gli altri erano tutti una massa confusa di nomi del tutto indifferenziati.

    Quel giorno non ne imparai nemmeno uno, tranne quelli dei ragazzi, cosa che mi risultò estremamente facile, visto che eravamo in tre.

    Tre ragazzi contro ventitré ragazze. Solo l’anno successivo sarebbe arrivato un quarto elemento a rimpolpare le nostre fila, il mitico Bove, con il suo impermeabile nero e la sua collezione di improbabili magliette da metallaro con gente che sgozzava altra gente; la quinta ginnasio gli sarebbe piaciuta al punto da rimanerci per un altro anno intero, mentre noi procedevamo a vele spiegate verso la prima liceo.

    Se fossi stato alle elementari, all’epoca in cui ero il capo della fazione dei maschi nella guerra maschi contro femmine, con quei numeri avrei dato forfait ancora prima di scendere in campo. Forse avrei optato per un dignitoso seppuku, perché era evidente che eravamo destinati alla sconfitta. Del resto, il mio fiero esercito non si presentava nel migliore dei modi.

    Guido Fabietti, quello che sarebbe diventato il genio della classe, l’intellettuale onnisciente che avrebbe potuto dare lezioni a tutti su qualunque materia, era un tizio alto, folti capelli ricci, espressione severa e sguardo fisso, che solo più avanti, in gita, avrei scoperto nascondere un visus orbo da far paura: quando, in camera, me lo trovai davanti con quegli occhiali da talpa, spessi come fondi di un bottiglione d’olio, quasi non lo riconobbi. Mi sarei presto accorto che parlava poco e rideva ancora meno, e quando lo faceva emetteva un suono a metà tra il raglio di un asino e lo strepito di una gallina a cui stanno tirando il collo.

    Era simpatico, ma aveva un umorismo tutto suo e se facevi una battuta che non lo divertiva, si limitava a guardarti con sufficienza, come in genere si osserva un minuscolo moscerino che, pur se

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