Destini oscuri
By Willa Cather
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About this ebook
Tre storie di vite ordinarie che si riscattano nel momento di andare incontro al destino, tre vicende accomunate dalla volontà di cercare la bellezza in circostanze e luoghi apparentemente banali.
Un'opera che mette ancora una volta in risalto la grande capacità di introspezione e la potenza delle scrittura di Willa Cather, premio Pulitzer nel 1923.
Willa Cather
Born in 1873, Willa Cather was raised in Virginia and Nebraska. After graduating from the University of Nebraska she established herself as a theatre critic, journalist and teacher in Pittsburgh whilst also writing short stories and poems. She then moved to New York where she took a job as an investigative journalist before becoming a full-time writer. Cather enjoyed great literary success and won the Pulitzer Prize for her novel One of Ours. She’s now best known for her Prairie trilogy: O Pioneers!, The Song of the Lark and My Ántonia. She travelled extensively and died in New York in 1947.
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Destini oscuri - Willa Cather
IL VICINO ROSICKY
I.
Quando il dottor Burleigh disse al vicino Rosicky che era malato di cuore, Rosicky protestò.
«È così? No, io credo di aver sempre avuto il cuore sano. Avrò un po’ d’asma, forse. Mi veniva il fiato grosso quando raccoglievo il fieno, l’estate scorsa, ecco tutto».
«Be’, senti, Rosicky, se ne sai più di me, perché sei venuto qui? È il cuore che ti fa mancare il fiato, ti ripeto! Hai sessantacinque anni, caro mio, hai sempre lavorato come un mulo, e adesso il tuo cuore è stanco. D’ora in avanti dovrai fare attenzione e non dovrai più fare lavori pesanti. Dopo tutto hai cinque ragazzi che possono lavorare al posto tuo!»
Il vecchio contadino guardò il dottore con un lampo di divertimento negli strani occhi triangolari. Erano occhi grandi, vivacissimi, ma le palpebre erano come raggrinzite al centro in un modo curioso, cosicché formavano un triangolo. Non aveva però, Rosicky, l’aspetto di un uomo malato. Il suo volto bruno era scavato ma non rugoso, le guance accuratamente rase avevano un bel colore sano, e così le labbra, sotto i lunghi baffi bruni. I capelli erano sottili e raggruppati intorno alle orecchie, ma appena un po’ grigi. La fronte, naturalmente alta e divisa da profondi solchi paralleli, gli giungeva ora sino alla sommità del cranio appuntito. La sua faccia sembrava sempre amabilmente curiosa, interessata al mondo e alle cose circostanti, e indicava un temperamento soddisfatto e riflessivo a un tempo, ma più allegro che grave. Questo gli conferiva anche un certo distacco, e i modi disinvolti di uno spettatore e osservatore.
«Be’, penso che non abbiate pillole per guarire un cuore malandato, dottor Ed. Forse l’unica sarebbe di farsene fare uno nuovo».
Il dottor Burleigh si girò di scatto e fissò corrucciato l’anziano contadino. «Se fossi in te, Rosicky, farei attenzione a quello vecchio».
Rosicky si strinse nelle spalle. «Non so in che modo. Ora mi direte di non bere più caffè».
«Al posto tuo il caffè non lo berrei. Ma su questo punto fai come ti pare. Non sono ancora stato capace, fino a oggi, di separare un boemo dal suo caffè e dalla sua pipa. Ci ho rinunciato. Ma quello che è sicuro è che devi smettere di lavorare nei campi. Puoi badare alle bestie e fare le faccende nella stalla; ma nei campi non devi far niente che ti faccia venire il fiato grosso.
«Posso sgranare il granturco?»
«Certo che no!»
Rosicky aggrottò pensosamente la fronte.
«Non posso costringere il mio cuore ad andare avanti se non ne ha voglia, vero, dottor Ed?»
«Penso che potrà funzionare ottimamente per altri cinque o sei anni, magari di più, purché non lo strapazzi. Mettiti in casa tranquillo e aiuta Mary. Se io avessi una brava moglie come la tua, non mi muoverei mai di casa».
Il paziente ridacchiò. «Non è il posto per un uomo. Non mi piace vedere i vecchi che stanno a grattarsi tutto il giorno in cucina. E mia moglie è una che lavora sodo anche lei».
«Appunto per questo: dalle una mano, dunque. Dio mio, Rosicky, tu sei tra i pochi di mia conoscenza che abbiano una famiglia come si deve: avete tutti un gran bel carattere, non litigate mai, e i tuoi ti trattano col dovuto rispetto. Voglio vederti ancora per parecchi anni, a godertela».
«Oh, questo è vero, sono dei bravi ragazzi», assentì il vecchio.
Il dottore gli scrisse una ricetta e gli chiese notizie di Rudolph, il suo figlio maggiore, che si era sposato in primavera. Ruldolph si era messo per conto suo, su un terreno d’affitto. «E come sta Polly? Avevo paura che a Mary potesse non piacere un’americana, ma mi sembra che vadano d’accordo».
«Sì, è una brava ragazza. Quella vedova ha saputo crescere bene le sue figlie. Polly ha spirito di iniziativa e un certo stile. È una bella cosa per un giovane».
Rosicky ebbe un gesto orgoglioso del capo, e la sua voce e il suo sorriso ammiccante volevano essere un complimento affettuoso all’indirizzo della giovane nuora.
«Mi sa che sta per scoppiare un temporale; sarà meglio che ritorni a casa prima che arrivi. Sei venuto in città con la macchina?». Il dottor Burleigh si alzò.
«No, col carro. Quando si hanno cinque ragazzi è difficile poter girare con la Ford. Del resto a me le auto piacciono poco».
«Be’, ce n’è parecchia di strada per tornare a casa tua; ma non voglio che tu vada troppo in giro col carro. E mi raccomando: non prendere più in mano un forcone da fieno, intesi?»
Rosicky posò delicatamente l’onorario del dottore dietro il telefono da tavolo, guardando altrove, come se compisse un gesto meccanico. Quindi si mise in testa il berretto di felpa, s’infilò la giacca di fustagno dal colletto di pelo e uscì.
Il dottore prese in mano lo stetoscopio e lo fissò corrucciato, come se fosse in collera proprio con quel povero strumento. Avrebbe voluto che esso gli avesse rivelato le cose di poco fa a proposito di un altro, di qualsiasi altro vecchio che non lo avesse guardato in faccia con quell’espressione così consapevole, che non gli avesse teso la mano con tanto calore nel salutarlo. Il dottor Burleigh era stato un povero ragazzo di campagna prima di andare a studiare medicina; conosceva il vecchio Rosicky da sempre e nutriva per sua moglie un affetto profondo.
Solo l’inverno prima Rosicky gli aveva offerto una colazione squisita, e in un giorno in cui ne aveva particolarmente bisogno. Era stato in piedi tutta notte per un parto difficile in casa di Tom Marshall, un ricco fattore che possedeva bestiame in abbondanza e il più moderno macchinario agricolo, ma non un briciolo di agio, di comodità. Sua moglie aveva troppi bambini e troppo da fare, e non sapeva affatto dirigere la casa. Quando finalmente il bambino s’era deciso a nascere, Burleigh, prodigate alla madre tutte le cure del caso, non aveva voluto fermarsi a mangiare in quella casa sciatta e disordinata e aveva percorso otto miglia nella neve col calesse (impossibile usare l’auto, con quella strada) per recarsi a casa di Anton Rosicky. Non conosceva un’altra fattoria dove un ospite anche inatteso potesse trovare un’accoglienza migliore, caffè più aromatico e tanta bella panna fresca. Era più che comprensibile che il vecchio non volesse saperne di rinunciare al suo caffè!
Era arrivato giusto mentre i ragazzi rientravano dalla stalla e si stavano dando una rinfrescata prima di colazione. La lunga tavola, coperta di una incerata lucidissima, era già apparecchiata, i piatti pronti che li aspettavano, e la calda cucina era piena di profumi appetitosi: caffè, ciambelle croccanti e salsicce. Erano cinque bei figlioli alti e robusti, dai venti ai dodici anni, dotati di quella che Burleigh chiamava una educazione innata, senza la penosa coscienza di sé di cui egli stesso tanto aveva sofferto da ragazzo. Uno di loro corse a sistemargli il cavallo nella stalla, un altro lo aiutò a togliersi la giacca di pelliccia e gliela appese e Josephine, la più piccola della famiglia e l’unica femmina, si affrettò su ordine della madre ad apparecchiare anche per lui.
Per Mary nutrire le creature era un'espressione spontanea di affetto, si trattasse dei suoi pulcini, dei suoi vitelli o dei suoi figli sempre affamati. Un piacere tanto più gradito era per lei dar da mangiare a un giovane che vedeva di rado e di cui andava orgogliosa come se fosse uno della sua famiglia. Altre massaie di campagna si sarebbero messe a stendere sopra la cerata una tovaglia di tela bianca, avrebbero tirato fuori il servizio migliore e avrebbero sostituito alle posate dai manici di legno quelle placcate. Ma non Mary.
«Dovete prenderci come ci trovate, dottor Ed. Sarei stata felice di tirar fuori tutta la roba bella, se avessi saputo che venivate, ma sono contenta di avervi con noi in qualunque modo».
Burleigh sapeva che era contenta – tirava indietro la testa e parlava come se lo annunciasse a tutta la prateria. Rosicky non aprì bocca; si limitava a sorridere ammiccando, com’era sua abitudine, aggiunse carbone nel camino e si recò nella propria stanza a versare un po’ di liquore da offrire al medico. Quando furono seduti, guardò la moglie che gli stava di fronte, all’altro capo della tavola e le disse qualcosa in ceco. Poi, con quel garbo che raramente gli veniva meno, si rivolse al dottore e soggiunse in tono furbesco: «Le stavo dicendo di non chiedervi nessuna notizia della signora Marshall sino a quando non avrete finito di far colazione, perché mia moglie, sapete, è terribile per far domande».
I ragazzi risero, e rise pure Mary. Guardò il dottore che si divorava le ciambelle e le salsicce, troppo emozionata per mangiare a sua volta. Bevve solo un po’ di caffè e stette a osservare attentamente il suo ospite. Lo aveva conosciuto quando era ancora soltanto un povero contadinotto, e non si stancava mai di decantarne orgogliosamente la riuscita. Diceva sempre: «La gente che va a fare a Omaha, quando qui abbiamo il miglior medico di tutto lo Stato?». Quando Mary voleva bene a una persona, il solo vederla le procurava un vero piacere fisico. Burleigh non conosceva molte donne come Mary, ma sapeva che lei era fatta così. Una volta soddisfatto il proprio appetito dovette per forza, era naturale, parlare della signora Marshall, e notò subito il cordiale interesse con cui i ragazzi si erano messi ad ascoltarlo.
Rudolph, il maggiore (che a quei tempi viveva ancora in famiglia), disse: «L’ultima volta che sono stato da loro l’ho vista alzare certe damigiane di latte alte così… E so che non avrebbe dovuto».
«Sì, Rudolph me lo aveva raccontato infatti, quando è tornato casa, e io ricordo di aver detto che non era giusto far sfacchinare una donna in quelle condizioni», interloquì Mary con calore. «Che le facessi io certe cose sino all’ultimo giorno era diverso, perché io sono forte come un cavallo, ma quella povera donna ne ha sempre una. E credete che sarà in grado di allattarlo, Ed?» A volte si dimenticava di chiamarlo col titolo accademico di cui pure era personalmente fiera. «E pensare che avete dovuto restar alzato tutta notte e non vi hanno nemmeno dato una colazione decente! Io non so che cosa abbiano per la testa, quelli là!»
«Ma senti, mamma», la interruppe uno dei figlioli, «se il dottore avesse fatto colazione dai Marshall, adesso non sarebbe qui con noi. Perciò dovresti esserne contenta!»
«Tanto lui lo sa che io sono sempre contenta quando lo vedo, John. Ma mi dispiace per quella povera donna; chissà come si sentirà umiliata al pensiero che il dottore se ne è andato via da casa sua, e con questo freddo, senza avere assaggiato neppure un boccone!»
«Mi dispiace di non essere stato già medico quando sono nati questi qui!», esclamò Burleigh guardando quella fila di teste dai capelli tagliati cortissimi. «Ne ho perse di buone colazioni…»
I ragazzi scoppiarono a ridere nel vedere la madre che diventava tutta rossa, ma Mary non si perse d’animo e rialzò il capo: «Ridete pure! Il dottore però non sarebbe mai uscito da questa casa senza aver fatto colazione. Non è mai successo a nessun altro. Avrei pensato a preparar qualcosa prima, in modo che Anton potesse metterla a riscaldare al momento giusto».
I ragazzi risero ancora più forte ed esclamarono in coro: «E chi ne dubita? Sei capace di questo e altro, tu!»
«Papà, hai preparato la colazione per il dottore quando siamo nati noi?»
«Certo, e serviva anche me, a letto. E bene, per giunta! Avevo sempre una fame!», confessò Mary con una risatina colpevole.
Mentre i ragazzi andavano a prendere il cavallo del dottor Burleigh, questi si affacciò alla finestra a osservare le piante di casa. «Che cosa ci fate ai gerani per conservare il fiore tutto l’inverno, Mary? Ogni volta che passo da qui vedo dalla strada tutte le vostre finestre fiorite».
La donna colse un bel geranio rosso scuro, che aveva una fogliolina nuova tutta arricciata, e glielo infilò all’occhiello. «Così va meglio! Altrimenti avete sempre un’aria talmente solenne, Ed! Perché non prendete moglie? Mi fate preoccupare. A tavola vi ho guardato ben bene, e ho visto che avete già capello grigio».
«Ne ho già parecchi. Ma se mi sposassi probabilmente me ne verrebbero molti di più».
«Non dite questo. A forza di mangiare all’albergo vi rovinerete lo stomaco, credetemi. Se aveste una moglie, le manderei di tanto in tanto una bella pagnotta di pan di