Piccolo loto giapponese
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Una tranquilla domenica sera di dicembre, però, mentre sta rincasando dopo un pomeriggio trascorso a lavoro, uno sconosciuto lo riporta bruscamente alla realtà consegnandogli un messaggio in busta chiusa. Su un cartoncino azzurro è riportato un numero da chiamare. Consapevole che a volte è il passato a non voler restare nei ranghi, decide di stare al gioco e segue le istruzioni.
Una bellissima giovane donna dai tratti orientali, Khyra, gli affida l’incarico di recuperare gli appunti di uno scienziato la cui rivoluzionaria scoperta è destinata a mutare radicalmente le relazioni umane. E offre un compenso a cui Renè non può resistere: Mizuki, compagna nella vita e nel lavoro, sarebbe a detta della donna miracolosamente scampata all’attentato e sua prigioniera. Se Renè porterà a termine l’incarico, Khyra gliela consegnerà.
Marco Martinelli debutta con un romanzo in cui generi diversi si contaminano e combinano in un mix accattivante.
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Piccolo loto giapponese - Marco Martinelli
2014
1
Guardai verso il cielo, la luna piena era velata da una sottile coltre biancastra e illuminava la prima domenica di dicembre, umida e fredda.
Incappucciato e con le mani affondate nelle tasche del cappotto percorrevo stanco la solita via di casa dopo lavoro. Avevo gli zigomi intorpiditi dal freddo quando l’occhio mi cadde su un fiaschetto impagliato che penzolava fuori da una piccola osteria.
Ero passato decine di volte davanti a quel locale ma mai una volta mi ero deciso a fermarmi, ora però le mie ossa reclamavano del calore e soprattutto la mia anima un po’ di vino. Entrai annunciato dallo scampanellio della porta, salutai l’anziano padrone indaffarato a strofinare il bancone di marmo con un logoro panno a scacchi, lui alzò lo sguardo e quasi disturbato dalla mia vista mi indicò un posto qualsiasi in sala con uno svogliato cenno del capo. Il luccichio tremolante di una candela catturò la mia attenzione e andai così a sedermi a un tavolo di legno verde nell’angolo più lontano del locale. Un saporito profumo di cucinato si espandeva in tutta la sala e ora anche il mio stomaco reclamava la sua parte. All’abbondante cameriera dal grembiule chiazzato d’unto ordinai un tagliere di formaggi, focaccia calda e mezzo litro di vino rosso. Mentre mangiavo e bevevo con gusto quel frugale pasto pensai divertito a quanto fosse facile rendere felice un uomo. A un tratto però qualcosa ruppe la tranquillità, una strana apprensione iniziò a farsi largo dentro di me rendendomi irrequieto, quasi come se qualcuno volesse condividere con me quel cibo e quella pace. Istintivamente mi guardai intorno, scorsi nell’altra stanza attraverso la tenda trasparente un omone sulla sessantina, con un maglione a collo alto nero e due baffi bianchi arricciolati, sfogliava concentrato un giornale con un piccolo paio di occhiali rossi sulla punta del naso. Non c’era nessun altro nel locale, niente di strano pensai dunque, anche se quel turbamento ormai mi si era incollato addosso e non voleva saperne di abbandonarmi.
Sarò solo un po’ stanco,
dissi alla mia immagine riflessa sul bicchiere. Bevuto un buon caffè, pagai il conto e ripresi il mio cammino. L’aria ancora più gelida aveva fatto rifugiare i fiorentini al tepore delle proprie case e le strade erano praticamente deserte. Dopo qualche minuto notai dietro di me, a una cinquantina di metri, una cadenza di passi pesanti che risuonava sul selciato. Non mi voltai, imboccai il cortile degli Uffizi stranamente a testa bassa e a passo svelto come quasi mai mi capitava di fare, di solito mi fermavo ad ammirare la fisionomia e le barbe di quei grandi personaggi immortali che avevano reso grande l’Italia e il mondo. Avevo stretto una sorta di amicizia con loro e a volte, in solitudine, mi era capitato anche di parlarci. Galileo Galilei, fisico, astronomo e matematico, padre della scienza moderna e pioniere della volta celeste. Leonardo da Vinci, genio assoluto che oltre a opere d’arte meravigliose ha donato al mondo spunti di ogni genere grazie alla sua straordinaria lungimiranza ingegneristica e medica. Leon Battista Alberti, personaggio poliedrico del Quattrocento, forse il più ampio spettro di sapienza dell’epoca, architetto, filosofo, umanista e teorico. Non proprio un personaggio che oggi puoi incontrare seduto a un bar. La lista di amici continuerebbe per ore ma mi fermo alla statua di Giotto, forse la mia preferita. L’iperrealismo di quell’opera marmorea dà l’impressione che da un momento all’altro l’uomo dagli occhi austeri possa scendere dal piedistallo, magari raccontandoci come la sua storia si sia evoluta da quando disegnava pecore sui sassi da povero guardiano di un gregge fino alla costruzione del monumentale campanile della basilica di Santa Maria del Fiore duomo di Firenze, capolavoro di sconfinata bellezza. Una cosa però li accomunava tutti quanti affascinandomi, i loro occhi, smaniosi di capire, di creare e diffondere qualcosa che sin dalla nascita albergava nelle loro menti eclettiche, il sacro fuoco della conoscenza e dell’arte. Stavolta però andavo di fretta, sarei ritornato a trovarli con più calma. Nel frattempo il rumore tetro di quei passi continuava a seguirmi, girai a destra sul Lungarno e poi a sinistra verso Ponte Vecchio aumentando sempre di più l’andatura. Arrivato sulla sommità del ponte decisi che era arrivato il momento di togliermi ogni dubbio e di scoprire cos’era quella sensazione che mi opprimeva. Seduto sul muretto accesi una sigaretta guardando distrattamente la nebbia che illuminata dai lampioni arancioni saliva placida dall’acqua scura. Come temevo la marcia si fermò proprio dietro di me.
Buonasera,
disse una voce rauca.
Mi voltai e dentro un pesante cappotto di lana grigio vidi lo stesso uomo del ristorante.
Buonasera a lei,
ricambiai gentilmente.
Ho bisogno del suo aiuto,
continuò.
Non ho spiccioli, mi dispiace,
risposi in tono ironico provando a stemperare la situazione.
Lui non sembrò divertito, un ghigno arido si alzò sotto i suoi baffi e gli occhi celesti si strinsero rapidi.
Non scherzi con me, potrei ucciderla adesso.
Quelle parole si infransero nella mia testa come un vaso di cristallo che cade a terra. Non tanto per la minaccia, molte altre volte avevano provato a uccidermi, quanto perché erano anni ormai che non sentivo parole simili.
Ho un lavoro per lei,
disse.
La ringrazio ma ho già un lavoro,
risposi serio, stavolta.
L’uomo si avvicinò lentamente a me come se non avesse sentito le mie parole e mi porse una piccola busta da lettere bianca.
Le auguro una buonanotte signor Gini,
chiuse fulminandomi con lo sguardo.
Niente di più improbabile, pensai guardando quel personaggio misterioso allontanarsi veloce e sparire dietro l’angolo del primo palazzo. Rimasi ancora qualche minuto in silenzio a guardare il fiume poi schiacciai la sigaretta per terra e mi avviai di nuovo incredulo. Dopo qualche centinaio di metri infatti ricontrollai in tasca per capire se avessi sognato o meno quella scena surreale: purtroppo la busta era davvero lì. Arrivato a casa gettai i vestiti qua e là, andai in bagno e davanti allo specchio mi lavai il viso e i denti osservandomi a lungo. Quel viso sconvolto, spaventosamente pallido e con due nette ombre nere sotto gli occhi non sembrava neanche più il mio. Mi ricordava il volto di una persona che avevo conosciuto tanto tempo prima e che credevo di non aver più rivisto. Bevvi due bicchieri d’acqua e mi infilai sotto le coperte, il pensiero fisso sulla busta e un dettaglio, come poteva sapere quell’uomo che mi sarei fermato all’osteria? Purtroppo in seguito si rivelò molto più di un dettaglio.
Non impostai nemmeno la sveglia con la speranza di poter rimanere addormentato il mattino seguente ma ovviamente non fu così, come temevo caddi in un agitato dormiveglia e poco prima delle sei avevo già messo la caffettiera sul fornello. Mi vestii e andai a lavoro. Mi sentivo terribilmente pesante e nonostante mi fossi svegliato presto feci di tutto per arrivare in ritardo.
Buongiorno direttore,
dissi entrando con lo sguardo basso dalla porta del supermercato.
Hai fatto festa anche ieri sera Renè?
rispose beffardo. Sei bianco come il latte.
No direttore, non mi sento molto bene, credo che mi stia per venire l’influenza,
cercai di tagliare corto.
Sarà, ma penso che tu non me la stia raccontando giusta.
Una sua pacca vigorosa sulla schiena e uno sciocco risolino contribuirono notevolmente a far aumentare il mio nervosismo.
Gli lanciai un’occhiata minacciosa che come un fendente lo centrò in mezzo agli occhi, intuì immediatamente il mio stato d’animo e in un attimo si dileguò. Finita quella breve discussione iniziai il mio solito lavoro quotidiano di scarico merci, ordinazioni e controllo casse. Oggi però c’era qualcosa di diverso rispetto agli altri giorni, l’inerzia della routine stava facendo tutto il lavoro al posto mio, in realtà in quel negozio io non c’ero, le cose che toccavo e le persone con cui parlavo erano vacue, quasi non avessero densità. Verso metà mattinata dall’altoparlante del magazzino arrivò una chiamata: Gini all’ingresso
. Mi avviai dondolando per il corridoio, ogni cliente che incrociavo sembrava guardarmi come se sapesse qualcosa che io ancora