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Sotto la città e altre storie
Sotto la città e altre storie
Sotto la città e altre storie
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Sotto la città e altre storie

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About this ebook

Stefano Frigieri si addentra in una dimensione del terrore che non è fatta di paura, ma di ombre e ambiguità, di coincidenze inquietanti e misteri irrisolvibili. Si serve del fascino dell’anormale e del misterioso per avvincere il lettore e tenerlo inchiodato alla pagina, all’erta e pronto a reagire se alzando lo sguardo incontra quello di uno sconosciuto che lo osserva a sua volta… È il fascino proprio di un evento bizzarro, di quel qualcosa di indefinito che pare essere in procinto di verificarsi facendosi beffa della nostra razionalità. Un fascino a cui sottrarsi è impossibile perché in ognuno di noi c’è il mostro cattivo relegato al sicuro in una stanzetta a tenuta stagna che ambisce a confrontarsi coi suoi simili. E solo noi ne siamo la chiave. Lo scrittore ci offre le indicazioni per trovare la porta.
Oltre quella porta, creature che si nutrono di cellule umane, di sudari, che sopravvivono grazie a trasfusioni di sangue giovane, in agguato per vendicarsi di un torto, spiriti che ritornano dall’aldilà, che non riescono ad abbandonare i propri affetti, una strega che frequenta lo studio di un medico e un frate che dà fuoco alla propria abbazia…
Dieci racconti per una silloge di ottimo spessore narrativo che chiama in gioco le nostre più ataviche paure e ci invita a prudenti riflessioni su quella realtà oltre il visibile a cui si può decidere di prestare attenzione oppure no.
LanguageItaliano
Release dateJun 1, 2019
ISBN9788832924756
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    Sotto la città e altre storie - Stefano Frigieri

    moglie

    Nota dell’Autore

    Uno degli indiscussi vantaggi della mia professione è il tempo che mi regalano le attese tra un cliente e l’altro.

    In questi momenti i fantasmi dei ricordi e delle sensazioni accumulate in anni di letture e di visioni cinematografiche fanno capolino, prima timidamente, poi con forza e decisone; iniziano a tormentarmi fino a che non dedico loro l’attenzione che pretendono.

    A volte è solo un’immagine che si fissa in testa e intorno a questa pian piano prendono vita i personaggi e le loro vicende fino ad arrivare a comporre il quadro che avevo pensato.

    Spesso è la vita quotidiana a far nascere gli spunti per le mie storie.

    Che più sono strane più sento il bisogno di metterle per iscritto.

    Questi racconti sono il frutto di questi sforzi, del tentativo di regalare una nuova vita a questi miei irrequieti compagni, per tenerli calmi.

    Almeno per un po’.

    Stefano Frigieri

    Horror vacui

    La più antica e potente emozione umana è la paura e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto.

    H. P. Lovecraft, L’orrore soprannaturale in letteratura

    Io non sono pazzo.

    So che lo pensate, che lo sussurrate tra di voi quando, le poche volte che ho il coraggio di uscire di casa, affronto i vostri sguardi sospettosi, i vostri sorrisi di scherno.

    Anche in casa, attraverso le pareti, sento ogni giorno un brusio come di vespe impazzite che confabulano e pronunciano il mio nome.

    Riconosco ogni vostra parola, il giudizio inappellabile che gronda da ogni frase bisbigliata alle mie spalle.

    Un veleno mortale il cui unico antidoto è la verità, che solo io porto dentro al cuore.

    È per questo che ho deciso di raccontarla al mondo.

    Quando ero giovane vivevo in una fattoria a pochi chilometri dalla grande città, abbastanza lontano da sentirmi isolato da tutto e da tutti. E pienamente felice di esserlo.

    Gli altri ragazzi li vedevo ogni mattina quando il pulmino ci veniva a prendere davanti alle nostre case.

    Io stavo seduto in fondo a giocherellare con un elastico, tranquillo e dimenticato. Loro scherzavano e schiamazzavano senza degnarmi della minima considerazione.

    Anche a scuola, in quella specie di prigione in mattoni grigi che sorgeva triste e severa vicino al parco cittadino, stavo nell’ultima fila, in silenzio, ad attendere che il tempo passasse. Non che non ritenessi interessanti le lezioni, ma i miei pensieri lo erano di più. Essi mi riempivano la testa senza lasciare alcun spazio vuoto. Avevo trasformato il mio banco in una mappa di complicatissimi ghirigori incisi con un coltellino, di cui io solo conoscevo il significato.

    Qualcuno dei miei compagni a volte si girava a guardarmi con sospetto, ma la maggior parte non si rendeva nemmeno conto che fossi lì. Riuscivo insomma a rendermi invisibile, a farmi dimenticare dalle persone pur rimanendo in mezzo a loro.

    Degli altri ragazzi mi importava poco; con i miei genitori risultava molto utile, soprattutto per sfuggire a rimproveri o compiti particolarmente gravosi. Persino la maestra si accorgeva raramente della mia presenza.

    Stretto in un paio calzoni troppo grandi e una camicia di mio padre riadattata per l’occasione, stavo per ore a osservarla spiegare. Ma non guardavo davvero lei.

    Dietro le sue spalle c’era una enorme lavagna nera, un vuoto oscuro e terribile che cercavo di riempire con le mie fantasie.

    Piccoli mostri squamosi si rincorrevano su quel palcoscenico color del buio, cose striscianti che fuggivano a rintanarsi nelle loro tane, snelle figure alate che sfrecciavano senza posa da un lato all’altro.

    La mia resa scolastica era nella media, più che sufficiente a garantirmi ogni anno la promozione. Anche questo serviva a passare inosservato: non risultavo né troppo stupido, né troppo intelligente.

    Ero un’entità sfuggevole in un mondo molto distratto.

    Nella grande casa di campagna in cui abitavo con i miei genitori il tempo veniva scandito da semplici operazioni: la mungitura delle vacche, la raccolta delle uova, i giorni dell’aratro e del fieno, la cena e le preghiere.

    Mio padre, un uomo gentile e riservato, era spesso lontano a lavorare nel campo; mia madre invece restava a casa a sbrigare le faccende e a distribuirmi botte e affetto in eguale misura.

    I miei doveri si limitavano ad accudire le bestie e a frequentare la scuola. Il resto del tempo era dedicato ai giochi e alle mie cose private. Due su tutte: leggere quanti più libri possibili per nutrire la mia fantasia e gironzolare nei campi vicini a raccogliere ossa e scheletri di animali per la mia collezione personale.

    I libri illustrati li trovavo ogni settimana sul carretto del robivecchi che passava di porta in porta per raccogliere le cose inutili. Atlanti di animali fantastici, libri d’avventure in terre lontane.

    Un giorno avevo trovato in un volume la descrizione di un museo di Storia Naturale.

    Rimasi affascinato da quelle illustrazioni che ritraevano stanze ricolme di oggetti esotici e misteriosi: coloratissimi uccelli impagliati, scansie stracolme di barattoli in cui galleggiavano strani animali, pareti che scomparivano sotto una moltitudine di stampe e disegni. Delle vere e proprie camere delle meraviglie, dentro le quali mi perdevo per ore e ore.

    Quindi decisi di crearne una tutta mia personale.

    Trovai un uccello morto sul greto del fiume e cercai di ridargli una parvenza di vita infilandogli nel corpo dei fili di ferro. Dopo un po’, le viscere che non gli avevo tolto iniziarono a puzzare e dovetti gettarlo via. Nessuno mi aveva spiegato come fare.

    Poi cercai di conservare le lucertole dentro barattoli di vetro, immergendole vive nella cera.

    Come un dio folle iniziai anche ad assemblare le ossa trovate in giro in forme fantasiose, creando animali mai esistiti: piccoli felini con grandi ali, serpenti dotati di lunghe zampe, roditori con due teste. A volte completavo le mie creazioni con pezzi di latta e gomma, rami dalle forme strane e stracci colorati. Sul soffitto della mia camera appendevo queste cose morte e dimenticate a cui avevo regalato una seconda opportunità.

    I miei genitori erano troppo impegnati nelle proprie faccende per preoccuparsi.

    Il mondo era mio e potevo disporne a mio piacimento.

    Soprattutto d’estate, quando i libri e i quaderni finivano in soffitta e i miei doveri si riducevano, il mio tempo personale si dilatava e io setacciavo felice i campi polverosi alla ricerca di qualche prezioso tesoro.

    Ero concentrato nella mia ricerca e nei miei progetti fantastici anche quell’estate quando, esplorando una zona lontana dalle solite piste, scivolai e caddi in un pozzo nascosto dal fitto sottobosco, una fenditura nel terreno nascosta da un intrico di radici. Fortunatamente non era troppo profonda. Picchiai duramente sul fondo di terra e, mentre le pareti di roccia si chiudevano su di me nascondendomi la luce del sole, persi i sensi per un tempo indefinito.

    Fu atroce risvegliarsi e non sapere se il cielo esisteva ancora oltre quel buio totale.

    Soprattutto fu terribile trovarmi immerso in un vuoto assoluto.

    Per fortuna riuscivo a muovere mani e braccia e quindi provai subito a scappare da quella prigione arrampicandomi sulle sue pareti, ma senza successo: erano troppo lisce e umide per fornire una presa sicura. Mi sedetti cercando di pensare lucidamente.

    Avevo con me una bottiglietta d’acqua e un pacchetto di cracker, infilati nelle tasche della salopette. Ringraziai mentalmente mia madre per avere insistito nel farmi portare dietro qualcosa da mangiare. Non rischiavo di morire di fame subito, ma le mie riserve non sarebbero durate molto. Quindi provai a richiamare l’attenzione di qualcuno.

    Gridai per molto tempo, fino a farmi male alla gola. Ma nessuno venne.

    Fu allora che sentii crescere il panico. Un’onda di piena, implacabile e devastante. Cercai di arginarlo riempiendomi la mente di pensieri utili e razionali: la situazione era momentanea, doveva esserlo, qualcuno mi avrebbe salvato. Perciò provai a organizzarmi.

    Mangiare e bere il minimo indispensabile, ridurre gli sforzi, dormire per recuperare le energie. Ma sopra ogni cosa cancellare quel vuoto usando l’oscurità come sfondo per le mie storie fantastiche, esattamente come facevo a scuola con la lavagna.

    Nei momenti in cui riuscivo a controllare il panico, i miei mostri immaginari riempivano l’abisso e la mia mente era salva. Poi l’acqua e il cibo finirono e con loro le forze e la speranza.

    Il sonno divenne perdita di conoscenza, la veglia un delirio senza fine.

    Ero a un passo dalla follia, annegato nel mio mondo di pietra e buio, quando finalmente arrivò Lui.

    Prima un lieve raspare su di una spalla, poi sentii qualcosa di soffice che mi strisciava sul viso.

    Mi riscossi dal mio torpore e vidi un lucore muoversi accanto a me.

    Quell’essere emetteva una pallida luce che rivelava una testa piatta e squamosa, due voragini al posto delle orecchie, le narici frementi, gli occhi ciechi coperti da uno spesso strato di pelle biancastra.

    Quella lieve luminosità, che emanava dalla pelle del corpo snello, pulsava in sincrono con i movimenti della corta lingua con la quale leccava avidamente il sudore dalla mia fronte.

    Sembrava non avesse alcuna paura di me, né intenzione di andarsene.

    A ogni minino rumore si sollevava in tutti i suoi cinque centimetri di lunghezza, sospettoso e attento.

    Poi quando si era rassicurato, ricominciava tranquillamente a nutrirsi.

    Ogni tanto si allontanava sparendo in qualche anfratto, per poi tornare ad ascoltarmi in silenzio.

    Pian piano mi abituai alla sua presenza che in qualche modo mi calmava. Forse il suo corpo emanava anche una sostanza ipnotica e anestetica, non saprei dire.

    Quello di cui sono sicuro è che fu la mia ancora di salvezza nella voragine di buio terrore in cui ero precipitato. Per lui io ero cibo e compagnia; lui per me era l’unica speranza di rimanere sano di mente.

    Iniziò a portarmi piccoli insetti che trovava chissà dove, e io li accettavo senza pensarci troppo e lentamente riprendevo le mie forze.

    Anche lui sembrava aver ottenuto dei vantaggi dalla nostra simbiosi: ora la sua luce risplendeva con maggiore intensità.

    Quella situazione mi aveva fatto perdere ogni cognizione del tempo: galleggiavo in un limbo mentale dove si confondevano realtà e fantasia, cullato da una pace allucinogena.

    A volte come in sogno vedevo i miei piccoli animaletti di ossa danzarmi attorno ai piedi, in un frenetico balletto macabro. Più spesso percepivo solo il nulla e dentro quel nulla la sua lingua che continuava instancabile a leccarmi la faccia.

    Così passò altro tempo.

    Sopravvivevo nutrendomi di lombrichi e coleotteri che Lui mi portava instancabilmente, bevevo leccando le gocce di umidità sulle pareti della mia cella.

    Fino a che, un giorno, un fascio intenso di luce penetrò finalmente nella mia prigione.

    Lui fuggì spaventato; io iniziai a gridare aiuto.

    Anche con la voce resa roca dall’umidità riuscii a richiamare l’attenzione dei miei salvatori.

    Qualcuno gridava il mio nome, sentii il rumore di qualcosa che veniva calato dall’alto, una mano mi toccò la spalla.

    Mente venivo sollevato verso la salvezza udii distintamente uno dei miei soccorritori emettere un gemito e affermare che qualcosa lo aveva morso: il mio compagno di disavventura non era felice di vedermi andar via.

    I miei occhi furono abbagliati dalla luce del sole e la stanchezza prese il sopravvento sulla felicità.

    Poi persi conoscenza.

    Seppi più tardi, mentre nel letto dell’ospedale, assistito da mia madre, mi riprendevo completamente, che avevo passato una intera settimana in quel buco maledetto.

    Per gli altri era un inspiegabile miracolo che fossi riuscito a sopravvivere così a lungo: io sapevo benissimo come, ma non dissi nulla.

    In poco tempo recuperai le forze e tornai a casa.

    Da quel momento però non ebbi più il coraggio di uscire dalla mia camera.

    Solo lì dentro mi sentivo al sicuro.

    I miei genitori volevano farmi visitare da uno psicologo, ma io rifiutai.

    Rimanevo intere giornate sotto le coperte, spesso consumandovi anche i pasti, oppure chiuso nell’armadio al buio tentando di replicare la situazione che avevo vissuto e che era diventata la mia unica realtà possibile.

    Dormivo pochissimo, con tutti i sensi all’erta a scandagliare il mondo.

    Fuori, l’immensità del cielo mi faceva paura.

    Iniziai a riempire la mia camera con tutte le mie cose: non riuscivo a sopportare gli spazi vuoti, anche i più piccoli.

    Solo così mi sentivo protetto.

    Ma sapevo che mi mancava ancora qualcosa.

    Poi una notte, intravidi una forma scura uscire da una fessura della parete: Lui, non so ancora come, mi aveva trovato.

    Mi scivolò vicino con le sue zampette fredde e cominciò subito a leccarmi la faccia.

    Riprovai quella sensazione di serenità

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