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Sessa Aurunca murders Delitti a 5 stelle
Sessa Aurunca murders Delitti a 5 stelle
Sessa Aurunca murders Delitti a 5 stelle
Ebook494 pages7 hours

Sessa Aurunca murders Delitti a 5 stelle

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Tutti i fatti di sangue sono strettamente collegati ad una serie di eventi che stanno interessando il territorio di Sessa Aurunca. Ogni volta che un indizio sembra dare la giusta direzione alle supposizioni e tutti si convincono di essere prossimi a trovare una pista, qualche nuovo sviluppo rovescia drammaticamente la situazione, conducendo l'intrigo verso ulteriori rivelazioni. Dopo una serie di rocambolesche situazioni createsi, gli amici si ritrovano al punto di partenza e solo allora capiscono di continuare ad indagare abbandonando la razionalità e soprattutto la realtà.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 24, 2019
ISBN9788831626583
Sessa Aurunca murders Delitti a 5 stelle

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    Sessa Aurunca murders Delitti a 5 stelle - Quirino Lucciola

    1

    CHI VIVE E CHI SOPRAVVIVE...

      La storia che sto per raccontarvi ha dell’incredibile. Una storia semplice ma a tratti contorta, ambientata nel vasto e grazioso borgo del comune di Sessa Aurunca, che comprende circa 30 frazioni. Ha un’ambientazione quindi molto ampia, che metterà a dura prova gli investigatori per la soluzione degli avvenimenti che ne sconvolgono il territorio. Non vi preoccupate se a tratti troverete situazioni che sfociano nel demenziale, è proprio questo il mio intento, anacronismi e aforismi vi accompagneranno per l'intero percorso; la storia è ricca di cose, avvenimenti, situazioni, che mescolano aspetti comici e drammatici. Non è un giallo, non è un thriller, non è neanche comico; anzi, a dire il vero ha un po’ di tutte queste caratteristiche. Non sarà facile trovare un’etichetta entro la quale inserire il libro, o forse al contrario sarà più semplice del previsto, catalogandolo negli scaffali del garage di casa mia.

      Mi presento: sono Voce, voce onnisciente, e vi racconterò questa storia nel modo più semplice, simpatico, carino e tenebroso nei limiti delle mie possibilità.

      È venerdì 5 agosto 1855, poco importa alla gente comune leggere il lunario, l’unico pensiero che sovrasta il resto è la fame e come combatterla. Non si ha la cognizione del tempo, se non per le ore di luce sfruttate per il duro lavoro, figuriamoci se il popolo ha tempo per affari politici o altre manifestazioni pubbliche. Si lavora tanto, esclusivamente per il sostentamento delle famiglie, il più delle volte numerose, sperando e pregando che le malattie, anche quelle primitive, passino più alla larga possibile visto che non si ha neanche la possibilità di curare i malati. Ci si cura in casa con l’aiuto di parenti e vicini, se il male persiste si ricorre alle conoscenze degli anziani sulle proprietà delle erbe e se ancora non basta e i casi risultano gravi si ricorre al potere di guarigione della preghiera, seguita sempre dalla rassegnazione e quindi dalla fede, la quale però ti insegna solo ad accettare con più coraggio e forza i dolori e la morte. Non si ha una grande conoscenza e confidenza con i medici e i medicinali, non ci sono soldi per permettersi tale lusso, ma in compenso si ha una grande confidenza con l’economica morte e una dolce rassegnazione di fronte alla sofferenza, consapevoli che sempre bene non si può stare.

      Il periodo è molto delicato per la maggior parte degli abitanti meno fortunati domiciliati nelle periferie del centro. Non si ha la testa per pensare ad altro se a non cercare di far finta che quei rumori provenienti dallo stomaco siano solo cigolii dovuti agli acciacchi causati dalle lunghe e dure giornate lavorative trascorse tra i campi, neanche fossero articolazioni meccaniche arrugginite e bisognose di lubrificazione; in ogni modo si tenta di ingannare se stessi allontanando la verità, chiamata fame. Gli unici lavori che ti permettono di guadagnare qualcosa e allo stesso tempo produrre generi alimentari sono l’agricoltura e l’allevamento, sperando sempre che le condizioni climatiche non siano anch’esse avverse. Il problema non è certo il clima, sarebbe troppo facile, il dilemma principale è guadagnarci qualcosa, visto che l’unico mercato disponibile è quello della città di Suessa o Sessa Aurunca, territorio appartenuto ai romani e annesso nell’estesa zona denominata Campania felix. Suessa è forte di due pilastri che vantano la loro importanza: la nobiltà e gli ordini religiosi che da anni ormai hanno formato e forgiato la vita cittadina diventandone perni indiscussi della quotidianità. Poco è il tempo speso per l’interesse degli abitanti delle frazioni da parte della municipalità se non per la riscossione dei tributi, i quali non sono neanche pochi visto che il comune, come dicevamo, comprende molti paesi dislocati nell'intero territorio. La circoscrizione è molto vasta, comprende anche il famoso vulcano di Roccamonfina fino ad arrivare al mare con la frazione chiamata Baia Domizia. L’unico mezzo di trasporto disponibile è la diligenza e se qualcuno è più fortunato ha a disposizione un carro trainato dagli stessi buoi che lo accompagnano durante l’aratura dei campi. L’illuminazione stradale è pressoché nulla nelle frazioni; il centro invece viene illuminato da lanterne a olio e dalle finestre delle numerose osterie e caffetterie; diciamo che la vita in città non è poi così male. E ci credo, a ‘sti prezzi… In paese invece, il più delle volte è tutta un’altra storia, finita la lunga e dura giornata di lavoro: prima in campagna a raccogliere frutta e verdura, o meglio quel che riesce a maturare, e poi al mercato tentando di vendere quel poco che si porta; non trascurando il solito problema che essendo l’unico mercato c’è molta concorrenza e quindi il più delle volte si torna a casa senza aver venduto niente. L’unica strada che unisce il centro alle frazioni è composta da lastrichi a volte sconnessi tra loro che segnano le piante dei piedi neanche fossero le Pirelli Zero Orange Hard, gomme dure per automobili da corsa. Le abitazioni in genere sono povere casupole composte da cucina con il camino, una stalla e una stanza dove si dorme tutti insieme: la luce è data da lampade a olio di noci e si sta ben attenti a non consumarne troppo.

    2

    SANE DISTRAZIONI

      Venerdì 5 agosto dell’anno 1855, allo scoccare dell’una pomeridiana dal campanile dell’Annunziata di Sessa Aurunca, Adone raccatta le sue poche cose e dal mercato in città si avvia verso casa. Vive in una piccola frazione di Sessa, Fasani, di circa trecento abitanti, prevalentemente contadini. Durante il tragitto verso casa conta le poche monete che è riuscito a guadagnare.

    Anche oggi è andata male. Vabbè, che dire, c’è chi sta peggio…, pensa tra sé. Non ha di certo la testa per prestare attenzione a quello che gridano gli ambulanti in giro per le campagne. Si racconta di notizie sconvolgenti, di un delitto feroce, vicende che colpiscono l’immaginazione. Un brutale omicidio che si è consumato in una frazione che si trova nel mezzo, tra Fasani e Sessa Aurunca, Cupa. Per la gente comune non c’è tempo né per grandi idee né per altro che si allontani dalla povertà e dalla carestia. I giornali, le notizie, le pubbliche relazioni sono lasciati alla gente di città, a chi ha tempo, testa e stomaco pieno per occuparsene. Di conseguenza Adone, mercante cinquantacinquenne, grande lavoratore fasanese, non dà certo retta alle chiacchiere e alle vicende popolari: sa bene che deve fare dieci chilometri di basole per arrivare a casa e riscaldarsi nel fienile, sperando di trovare anche qualcosa da mettere sotto i denti. La storia dell’omicidio non lo scalfisce neanche un po’, molto probabilmente non si accorge neanche dei chiacchiericci; fantastica sulla cena che spera gli stia preparando la moglie Aida, anch’ella cinquantacinquenne, casalinga e mamma di Ateldino, dal nome ingannevole visto che ha ben trentacinque anni e nessuna voglia di lavorare, tantomeno di accompagnare il padre Adone al mercato, figuriamoci se pensa di andarsene da casa. Passa la maggior parte del suo tempo tra la latrina e le piccantissime tavole erotiche di Thomas Rowlandson, non ha pensieri né problemi, in compenso ha un braccio invidiato dal campione provinciale di braccio di ferro in carica, Amerindo, allevatore di bestiame da generazioni.

    3

    AMERINDO E LA SUA BAND

      Amerindo vive a Lauro di Sessa, ha quarantacinque anni, felicemente single. In verità, a sentire lui, ha avuto più donne di Casanova e di Don Giovanni messi insieme, ma nessuno lo ha mai visto realmente. Ha un sogno nel cassetto, formare di nuovo una band musicale, ama molto la musica tanto da arrivare a costruire uno strumento a corde chiamato liuto; in effetti era stato già inventato secoli prima ma Amerindo, forte del suo ardore per la musica, si vanta della sua invenzione.  Consapevole della misera preparazione in materia che incombe nel comune, è convinto che nessuno lo scoprirà mai. In effetti non si ha la volontà né la forza di negargli la paternità dello strumento, come dicevamo, non si ha la testa per certe cose, tantomeno per ascoltare Amerindo che suona. Nel 1835, in effetti, Amerindo era riuscito a creare una sua band, aveva venticinque anni all’epoca. I componenti del gruppo erano Alemanno, il più piccolo, un quindicenne molto promettente, anch’egli laurese DOC, che suonava le percussioni; aveva quasi un dono di natura, gli veniva spontaneo, forse due erano i doni se così si possono chiamare, visto che si diceva scuoiasse pecore per coprire i suoi tamburi e avesse tendenze omicide, ma all’epoca chi ci faceva caso? L’amore per la musica giustificava certi atteggiamenti. Infatti Lauro era l’unico paese dove la musica era subentrata nella vita quotidiana della popolazione tutta. Poi c’era Aderico: aveva venticinque anni, era il più strano tra i componenti, non parlava mai, era sempre accigliato, sembrava che il mondo gli remasse contro, era scontroso e attaccabrighe, ma alla fine quello che serviva ad Amerindo erano le sue doti musicali, che non erano niente male. Suonava la ghironda e l’unico sorriso gli sovveniva solamente quando si lanciava in qualche assolo. L’ultimo - e non di poco conto - era Ardito, il più grande, trentacinque anni portati veramente male; mascelle alla Ronn Moss (Ridge Forrester), sopracciglio unificato e capigliatura quasi tatuata alla Silvio Berlusconi erano le caratteristiche principali del viso, il quale, associato al principio di gobba che si intravedeva dal retro della solita camicia di flanella rossa a quadroni, ne costituiva l’essere. In compenso possedeva e suonava una Fender Stratocaster acquistata online: c’erano voluti undici mesi per riceverla a casa. Pensate che negli ultimi mesi gli erano iniziate anche a venire inspiegabilmente le doglie causate forse dalla paura di non ricevere più la merce, ma il tempo passato ad aspettare ne era valso veramente la pena. Non solo aveva lo strumento migliore del gruppo ma ne era anche la voce principale, in ogni modo si facevano chiamare i Pooh-s e la canzone Chi fermerà l’Adua era il loro cavallo di battaglia. Adua era la donna più bella di Lauro, aveva quarantacinque anni ed era vedova di guerra. Le sue doti principali erano poche ma buone. Come potrei descriverle… diciamo che era una persona del tipo C’è un posto nel tuo cuore? Sì! Ma non aspettarti il posto fisso…, non so se ho reso l’idea. Fu proprio per un litigio causato dalla competizione tra Amerindo e Ardito – entrambi avevano chiesto e ottenuto più e più volte un posto non solo nel suo cuore – che si contendevano le prosperità della donna, che quest’ultimo uscì dal gruppo. Ebbene sì, Ardito con un fruscio uscì dal gruppo. Ben presto, comunque, i due scoprirono che Adua era malata. Aveva una sorta di problema, non riusciva a legarsi sentimentalmente a un uomo per più di ventiquattr’ore. In paese le voci erano discordanti, c'era chi affermava che fosse affetta da un male incurabile, che procurava forti dolori nelle parti intime, e chi invece asseriva che il suo corpo fosse posseduto dall'anima di Tullia, figlia della prostituta Giulia Campana, frutto dei rapporti incestuosi consumati con il cardinale Giulio d'Aragona, ed era proprio per questi presunti motivi che le erbe non davano i risultati sperati ma, in compenso, bisogna ricordare che le visite che le venivano fatte erano sempre più numerose. La sua malattia fu presa veramente a cuore dal popolo: non la lasciavano un giorno sola, divenne un caso comunale. Un giorno veniva il parroco, un altro il vescovo, si scomodavano persino il sindaco e la giunta comunale tutta, che fino a quello spiacevole evento non si erano mai spinti così lontano dal centro della città. Ancor più strano era il fatto che non si incontravano mai, andavano in giorni stabiliti, si presumeva in paese che fosse una forma di educazione sconosciuta alle abitudini del popolo, così, per non riempire casa e disturbare. D’altronde Adua era pur sempre malata. La donna non poteva ricevere visita né da ragazzi né dal pari sesso, si diceva che potesse essere contagiosa. In compenso, però, i giovani aspettavano tutti i giorni l’arrivo degli uomini fuori casa di Adua.

      «Deve essere una di quelle malattie che portano dolore e sudorazione anche a chi le sta vicino» si vociferava in giro, visto che da giù si sentivano gemiti e mugolii! Ma quando andava il parroco, le grida arrivavano fino a San Castrese. Le sue cure erano le più efficaci: a dire di Adua, padre Attilio aveva gli attrezzi medici più efficaci del comune. Che brave persone… Ben presto, però, la solidarietà sociale nei confronti dell’ammalata cessò improvvisamente…

    4

    ADUA II: IL RITORNO

      Era novembre, la luce spariva sotto una fitta coltre di nuvole basse e la notte si faceva buia come la pece, i paesani si riunivano davanti al camino, illuminati dalla poca luce della fiamma. Dal quartiere ognuno portava la propria sedia e la propria lucerna, gli uomini giocavano a carte, le donne filavano la lana e i più anziani si divertivano a impaurire i giovani con storie di orchi, lupi mannari, streghe e spiritelli dispettosi. La superstizione influiva molto sulla vita delle persone, infatti si viveva con il timore non solo delle malattie ma anche di esseri irrazionali. E fu proprio una di quelle sere che successe dell’incredibile, un avvenimento increscioso.

      «Togliti dalla finestra!» intimò Argia alla figlia Andalusa, la quale non mosse un ciglio al rimprovero della madre e stette lì come se nessuno le avesse imposto nulla.

      «Venite a vedere, correte! C’è qualcosa per strada, un’ombra si aggira per le vie della città!» continuò la ragazzina.

      Intimoriti dai racconti del vecchio novantacinquenne Aleardo, padre di Argia, iniziarono a preoccuparsi più del dovuto. Era una situazione insolita, niente e nessuno con quel buio si era mai aggirato per strada a parte i personaggi dei racconti del nonno.

      «Nonno, nonno dove sei?»

      «Mamma, il nonno è sparito» disse ansimante Andalusa.

      Il nonno era sparito e loro avevano bisogno della sua saggezza per dare un po’ di razionalità a quel che stava accadendo. L’ombra, barcollando, si avvicinò alle finestre di casa di Adua, la donna malata.

      «Per fortuna che non è sola» pensavano tutti coloro che si erano accorti dello straniero: era giovedì, giorno di turno di padre Attilio, che le stava facendo la notte, come si suol dire.

      Poco alla volta anche gli altri abitanti si accorsero dell’ombra, infatti dalle finestre delle abitazioni illuminate dai fiochi lumi si intravedevano le facce incollate ai vetri. Era un uomo, il dubbio venne chiarito quando anche dalle finestre di casa di Adua si intravide la luce di alcuni lumi, che illuminando l’esterno dell’abitazione sagomarono meglio i profili dell’essere. Si vedeva chiaramente la sagoma dell’uomo che cercava di entrare. All’improvviso un urlo destò l’attenzione di tutto il paese: un silenzio tombale aveva riempito le case degli spettatori e l’uomo con un calcio irruppe in casa.

      «Oh mio Dio! È entrato in casa» fu l’unico bisbiglio che uscì dalle bocche dei testimoni quasi in contemporanea in tutte le abitazioni. Non si riusciva a essere lucidi e a prendere coraggio per soccorrere Adua e padre Attilio. Anche il nonno era sparito, il che rendeva le cose ancora più complicate. La luce del lume all’interno dell’abitazione di Adua ondeggiava neanche ci fosse stato mare forza 9, e all’improvviso si spense… si pensò subito al peggio e l’idea si fece più marcata all’udire di improvvisi rumori di vetri infranti causati da probabili colluttazioni, ma anche quello cessò. Dalla finestra del fienile uscì un uomo che correva a gambe levate: non si capiva chi fosse, ma più si avvicinava alle case lungo l’unica strada e più sembrava di conoscere quella sagoma.

      «Mamma, a me sembra padre Attilio.»

      «Ma che dici, non farti vedere.»

      «Mamma, sembra una tunica monacale!»

      «Stai giù, è pericoloso.»

      «Mamma, è proprio lui che corre! Apriamo la porta, aiutiamolo!» continuarono per qualche minuto, Argia e Andalusa, fin quando anche la donna non si accorse che la figlia aveva ragione. Aprirono la porta di casa, non prima comunque di essersi accertate che l’uomo non lo seguisse.

      «Padre Attilio, venga! Venga, padre Attilio!» chiamò a bassa voce Argia.

      Padre Attilio, accortosi della generosità della donna e del fatto che le persone del paese fossero uscite solidalmente dalle case per prestargli riparo, si fermò per un istante quasi come se stesse pensando di evitare i soccorritori, cosa strana visto l’uomo nero che lo aveva aggredito. Il cercare riparo era la situazione più scontata per tutti tranne che per padre Attilio. Si vedeva che era impaurito, non riusciva a parlare, balbettava ma entrare in casa era il gesto più consono alla situazione: come mai non lo voleva fare?

      «Ri-ri-rientrate in ca-ca-casa, no-no-non è su-su-succes-so niente» ripeteva in continuazione cincischiando. Ma la gente, non capendo quello che il padre stava farfugliando, gli si diresse incontro per prestare soccorso. Il padre sembrava essersi accorto di non poter evitare il popolo, visto che si fermò di colpo, come se si fosse rassegnato a qualcosa; un’espressione insolita anche questa, visto l’accaduto. Comunque, dopo un lungo sospiro, riprese di nuovo la corsa anche più veloce di prima. Il problema era che nessuno lo seguiva, era come se adesso stesse scappando dalla gente.

      «Mi-mi-miracolo, miracolo! Adua è gua-gua-guarita! Il Si-Si-Signore ha udito le nostre pre-pre-preghiere!» gridava correndo verso casa sua. E balbettando continuò ad annunciare il miracolo. Le persone, sorprese dallo strano stato di agitazione del parroco, rientrarono in casa più scioccate che della vista dell’uomo barcollante. La situazione lasciava tutti in uno stato di disorientamento generale in cui la felicità per Adua non era percepita a causa dell’episodio a cui avevano assistito; non si poteva far a meno di pensare all’uomo, ai rumori, alla fuga del padre semi vestito.

      «Cosa diamine è successo in quella casa?» continuavano a ripetere. Ma la serata per Argia e Andalusa non era ancora arrivata al termine…

      «Il nonno… dov’è finito il nonno?» continuava la piccola Andalusa. Il tempo non aiutava di certo a riflettere: iniziò a piovere, prima lentamente poi a dirotto. Nella testa di Argia mille erano i pensieri che passavano, uno era però più marcato degli altri; Argia non voleva credere a quello che stava pensando.

      «E se l’uomo incappucciato fosse stato Aleardo?»

      Uno starnuto improvviso, però, fece sobbalzare la famiglia: proveniva dal fienile.

      «Chi mai può essere entrato?» la paura oramai la faceva da padrona; l’episodio di cui erano stati testimoni non aiutava di certo le donne a razionalizzare, per di più le storie raccontate dal nonno davanti al camino insieme alla pioggia avevano dato il colpo di grazia.

      «E se il nonno ha riscontrato una qualche forma di malattia che rende aggressivi, come quella di cui raccontava davanti al camino?» queste erano le uniche parole che uscivano dalla bocca di Argia. A casa c’era Andalusa: non poteva aspettare che qualcuno di soprassalto le aggredisse. Fece un lungo sospiro e insieme si incamminarono quatte quatte verso il fienile. Le due raggiunsero la stanza, gli animali erano agitati: sarà per il tempo o per cosa? Dietro alcune balle spuntavano delle enormi scarpe con dei buchi da usura, sembravano tremolanti e non solo…

      «Sembrano le scarpe di nonno» disse la figlia alla mamma.

      «Sono proprio le sue» ripeté. «Nonno, sei tu?»

      Il tremolio terminò, le scarpe si fermarono di colpo.

      «Nonno, nonno! Che ci fai dietro le balle?» continuò Andalusa.

      «Eh eh eh… Sto raccogliendo del fieno, non lo vedi?» gridò sobbalzando il vecchio novantacinquenne, consapevole di essere stato scoperto.

      «Non è che ti sei nascosto per la paura?» gli chiese la figlia.

      «Io paura? Ma hai capito quante ne ho passate nella vita, a quante situazioni ho assistito e quanti… e quanti… ?» continuò allontanandosi dal fienile come se non fosse successo niente. Si risedette di nuovo davanti al camino e continuò i suoi racconti, come se davvero nulla fosse accaduto. La voce comunque era meno convinta e a tratti si sentivano i sospiri di sollievo che gli sopravvenivano dal petto.

      «Sì, sì… il nonno ha avuto paura e si è nascosto come gli struzzi» disse Andalusa alla madre. Tra una mezza risata e i silenzi singhiozzati causati dal pensiero dell’accaduto la serata finì, finalmente. Solo il giorno dopo capirono che il miracolo per Adua era stato doppio, perché oltre all’improvvisa guarigione era tornato anche il marito, ritenuto morto nell'ambito della guerra di successione polacca, quando la Spagna di Filippo V di Borbone invase i regni di Napoli e di Sicilia, allora soggetti alla dominazione austriaca. Adua quindi fu veramente fortunata: dopo una lunga malattia e la vedovanza, la stessa sera del ritorno del marito guarì anche improvvisamente. L’unico dilemma restava il perché della corsa di padre Attilio alla vista del marito di Adua… in ogni modo in paese si lodava il Signore per la serie di miracoli accaduti in pochi minuti. Dio è grande!

      Morale della favola, Amerindo e Ardito non si parlarono più dalla presunta clandestina relazione con la stessa donna. Ardito si trasferì a Cescheto, un paesino tranquillo situato tra i castagneti di Roccamonfina e di Aderico, il più giovane del gruppo, si persero le tracce.

    Ognuno è responsabile delle sue scelte, Dio è innocente...le anime sono soprattutto guidate dalle abitudini che hanno contratto nelle vite precedenti.

    Platone

    5

    CHE FINE HA FATTO ADERICO?

      Tante erano le voci che si sentivano, strane storie si raccontavano sul suo conto, si diceva che fosse stato rinchiuso nell'asilo per malati mentali Sorrisi col sale, che si trovava a Formia a causa di alcuni suoi vizi, si diceva che fosse arrivato al punto di infliggersi ferite a volte anche molto gravi, era sottoposto a continui e ripetuti trattamenti di recupero, con lo scopo di migliorare gli squilibri mentali riscontrati. La gente cambia e i casi della vita infrangono anche il sogno più innocente dell’uomo. Mai nessuno ebbe il coraggio di dare un senso a queste storie, nessuno ebbe il coraggio di recarsi in clinica e di accertarsi delle condizioni dell'allora giovane. Quel ragazzo non fu mai dimenticato da Amerindo, Alemanno e Ardito ma nessuno di loro si fece vivo, nessuno pensò a come si potesse sentire un giovane abbandonato oltre che dai genitori anche dagli unici amici che si ritrovava o che credeva di avere, nessuno aveva pensato alle paure, alle angosce, all’ansia che avrebbe potuto riscontrare un adolescente. Del povero Aderico intanto non si seppe più nulla, tutti continuarono a far finta di non averlo mai conosciuto. Fin quando questi scheletri possono restare nell’armadio? Prima o poi tutti devono fare i conti con la propria coscienza…

    6

    LA FAME È UNA BRUTTA BESTIA

      Adone affamato si avvia verso casa, sta tornando dal mercato a passo svelto e stomaco vuoto.

      «Chissà Aida che sta preparando di buono» continua a pensare ad alta voce.

      «Allora… le cipolle ci sono, le patate… le patate… forse qualcuna ne è rimasta… sì, sì! Ricordo bene! L’ho lasciata ieri sera, era metà. Qualche foglia di cavolo è avanzata dalla settimana scorsa… allora sicuramente troverò una bella minestra calda!» continua a bisbigliare durante il tragitto verso casa,  con un sorrisino di quelli furbetti. È convinto di aver indovinato le pietanze che gli verranno servite. Come un topo che vola all’odore del formaggio, anche Adone, tanta è la fame, sembra non poggiare i piedi a terra. Lungo la strada c’è ancora molta gente, probabilmente parlano dell’omicidio, ma Adone sembra non accorgersi dello stato di agitazione che accompagna le chiacchiere degli uomini, anzi supera tutti anche a passo svelto. Ma ad un tratto si ferma di colpo. Sembra che finalmente si sia degnato di prestare attenzione a ciò che lo circonda, sembra addirittura che si sia accorto che qualcosa è accaduto in città, allora drizza le spalle e la testa, un brivido gli percorre tutta la schiena, porta le dita alla bocca come se stesse cercando di capire perché la popolazione è così turbata.

      Con voce molto marcata esclama: «E se invece quello scansafatiche di Ateldino avesse mangiato la metà della patata che è avanzata? Che minestra sarebbe senza patata?»

      Riprende immediatamente la strada verso casa più velocemente di prima. Non ha proprio accusato, quindi, i turbamenti della folla, va dritto per la sua strada, l’unico scopo è arrivare il prima possibile. Raggiunta la locanda Civico 55 di Fasani, a circa 400 metri da casa gli sembra di sentire già l’odore della minestra, tanta è la fame.

      «C’è, c’è!» esclama con gioia. «La patata c’è! Ne sono sicuro… ne sento l’odore!» continua borbottando.

      Intanto le voci dell’omicidio sono arrivate anche in paese, infatti nei pressi del Civico 55 non si fa altro che parlare dell’accaduto.

      «Ma come è possibile? Chi è in grado di commettere un gesto così raccapricciante?» ripete in continuazione Aldobrando, proprietario della locanda. Sembra scioccato, anzi lo è di sicuro: non smette più di ripetere le stesse parole. Aldobrando ha 65 anni, ama molto leggere e scrivere, il che è tutto dire data la situazione che incombe nel paese. A dirla tutta l'unico libro, o meglio l'unica commedia, che per il momento ha letto è La moneca fauza di Pietro Trinchera, commediografo e librettista napoletano, opera  prestatagli dall'amico  Adolfo il quale gli dà anche lezioni di lettura, di tanto in tanto. Pietro Trinchera non raggiunse mai la notorietà a causa dello stile delle sue opere, le quali furono spesso oggetto di censura, in quanto denunciatarie degli abusi e imposture del clero per mantenere al giogo il popolo napoletano. L'amico Adolfo gli ha promesso un altro testo, La morte di Giulio Cesare, tragedia dell’abate Giovanni Biavi. Si diletta però a scrivere storie di omicidi e assassini seriali, ha una passione sfrenata per le tragedie, non a caso la scelta da parte di Adolfo per il testo promessogli. Quanto è accaduto gli scatena un mix di sensazioni: è eccitato per l’omicidio, vorrebbe vedere il corpo e allo stesso tempo è consapevole che non trovandosi dietro delle pagine non sa come potrebbe reagire; ma a prevalere è la voglia di azione. È eccitato, sembra essersi già calato nei panni di un detective del Bureau.

      «Come faccio a recarmi da solo sulla scena del crimine? Ho bisogno di un collega: ogni investigatore che si rispetti ha una spalla fidata.»

      Sogna ad occhi aperti, pensa a Sherlock Holmes e John Watson, a Eugène-Francois Vidocq, Allan J. Pinkerton, a Fox Mulder e Dana Scully in X-Files, Law & Order, a Frank Poncherello e Jon Baker in CHiPs ed è quindi sempre più convinto di poter risolvere il caso con il suo fedele aiutante e amico. Il problema non è tanto cercare un amico ma trovarlo che sia anche disponibile ad assisterlo nel duro e crudo compito dell’investigatore è il difficile. Come spiegare e far comprendere a qualcuno un sentimento così forte, sicuramente non dei più comuni, ma pur sempre una passione, che fino a quel momento sembrava impossibile da soddisfare? E invece accade, anche in un paese dimenticato da Dio, dove si muore già molto facilmente di morte naturale e non si ha neanche la forza di contraddire una moglie, figuriamoci se si ha la capacità di sostenere un’accesa discussione con qualcuno tanto da recargli la morte.

      «Eppure oggi, venerdì 5 agosto dell’anno 1855, il mio sogno si è avverato. Bisogna organizzare e iniziare l’investigazione nel modo più segreto possibile. 1: scena del crimine; 2: raccogliere gli indizi; 3: meditare e verbalizzare; 4… 4… 4… vabbè iniziamo con i primi tre, poi si vedrà» continua a fantasticare Aldobrando.

      Toc toc.

      «Sono io, Adone. Aprite» finalmente è arrivato a casa, affamato più che mai.

      «Un attimo!» si sente dall’interno. «Un attimo, mannaggia Bubbà!»

      «Aida, sono Adone. Apri, fa un freddo boia!»

      Infatti, nonostante sia agosto, il clima sembra essersi  uniformato con il morale della gente.

      «Aspetta Adone. Sto portando la carta a Ateldino, è nel wc» ossia il vano adibito a servizio igienico costruito proprio da Adone e Adolfo; quest'ultimo aveva rubato il progetto del marchingegno, durante un viaggio, a uno scrittore inglese.

      «E dove lo volevi far stare quel buono a nulla di un s…»

      Aida finalmente trova il tempo per aprire la porta. «Entra, Adone, fai presto che fa freddo.»

      «Fa freddo? Quando lo dicevo io che stavo fuori non sei corsa ad aprire!»

      «Sei sempre il solito polemico. Va’ a lavarti le mani nel fienile, che Ateldino sta ancora utilizzando il wc.»

      «Ma scusa, non può andarci prima che torni io, a fare i fatti suoi visto che vengo sempre alla stessa ora?»

      «Uffa, sei arrivato? Oltre che polemico anche  nervoso e nevrotico e poi te la prendi con noi» continua la moglie.

      «Ma se sta sempre chiuso in bagno! Gli vuoi dire qualcosa o aspetti che diventi cieco?»

      «Ma la vuoi smettere con queste dicerie paesanotte? Ateldino ha solo problemi intestinali, e poi è normale che i ragazzi a quest’età facciano conoscenza con il proprio corpo.»

      «Conoscenza con il proprio corpo? Ma ti senti, Ai’? Smettila di trattarlo come un bambino: ha 35 anni e con tutto il lavoro manuale che fa potrebbe incollare manifesti pubblici sui muri di tutta Sessa e frazioni senza l’uso della colla! Basta parlare. Ho fame, portami la zuppa che hai cucinato… ogni giorno è la stessa tiritera!» 

      «E chi te l’ha data, Ado’?»

      «Ma cosa?»

      «La zuppa che hai detto, chi te l’ha data?»

      «Ma chi me la doveva dare? L’hai fatta tu o mi sbaglio?»

      «Ma con cosa la facevo? Stamattina Ateldino ha fatto colazione con quello che restava. Ha fame, deve crescere.»

      Con uno scatto pieno di rabbia, Adone risponde: «Deve andare a lavorare! Non deve crescere più altrimenti gli cresce pure lo stomaco!»

      «Basta con quel ragazzo! Mangia e zitto. Tieni! Mangia! Pane di patate stasera!»

      «Accontentiamoci di pane e patate…»

      «Ma quale pane e patate! Pane di patate…»

      Il pane di patate che si consuma a tavola è nero di segale, è fatto con l’impasto classico di farina, acqua, sale, lievito naturale, patate bollite e schiacciate. La patata conferisce una certa freschezza e permette una conservazione più lunga nel tempo. Viene cotta nel focolare, seppellendola sotto le braci ancora accese e la cenere, dopo qualche ora viene fuori una pagnotta di colore piuttosto scuro, dura e non sempre cotta, impregnata di cenere, si lascia appena raffreddare, si pulisce con uno strofinaccio e viene messa a tavola o nella madia.

      «Di nuovo pane di patate? È mai possibile che in questa casa mangi bene solo quello scansafatiche di Ateldino? Dopo una giornata di lavoro non merito neanche un pasto caldo?»

      «Meriti quello che guadagni» ribatte la moglie, lanciandogli l’ennesima frecciatina; fredda e dura proprio come quel pezzo di pane che gli è stato servito.

      «Ho capito: Miss Simpatia e la figlia Federica si sono coalizzate anche oggi! Ma lo sai che ti dico? Lo sai che ti dico?» alzando di una tacca la voce. «Esco!»

      «Ah, ecco! Mi sembrava strano: pensavo stessi dicendo qualcosa di diverso dal solito, invece non ti smentisci mai!»

      Ne avrebbe volute dire tante, anzi a modo suo gliele canta e gliele suona ogni qualvolta ce n’è bisogno, ma tutto esclusivamente nella sua mente; anche in questo modo si sente bene uguale, è una sorta di sfogo psicologico, come se in effetti avesse veramente avuto il coraggio di reagire e fare l’uomo di casa, perché questo è quello che manca ad Aida, Adone lo sa bene ma non sa proprio come si fa! Il problema è che non si sforza affatto, anzi ha creato una teoria tutta sua al riguardo dove il coraggio uno non lo può comprare, coraggiosi si nasce quindi anche se volesse e si sforzasse non potrebbe mai cambiare; ma a chi la vuole dare a bere?

      Si erano sposati molto giovani e allora questa mancanza di carattere non era così palese e preoccupante, molto probabilmente chi lo conosceva, compresa Aida, scambiava questo suo carattere per una forma di educazione molto rigida, che per molto tempo giocò anche a suo favore. Purtroppo con il passare degli anni questo suo modo di essere risultò sempre più pesante ad Aida, che si accollava e si accolla ancora oggi tutte le preoccupazioni e le responsabilità. Adone è il classico bonaccione, un ottimo incassatore a dire il vero, non ha un carattere definito e, anzi, non ne ha proprio di carattere: non riesce a prendere di petto le questioni banali, figuriamoci i litigi. Preferisce allontanarsi e far scemare i malumori piuttosto che affrontarli e risolverli.

    7

    AURUNCA COP

      Uscito di casa Adone si avvia verso la locanda. Ormai è una meta fissa dopo il lavoro e poi c’è Aldobrando, suo caro amico nonché proprietario del locale. Trascorrono ore e ore a fantasticare su un futuro impossibile da raggiungere, un po’ come quando, dopo aver acquistato e perduto il nuovo dilucidario della buona fortuna di Napoli, ci si sofferma a ragionare su cosa avremmo fatto se avessimo vinto la cifra sponsorizzata a caratteri cubitali; un futuro utopico, ma la speranza e la fantasia in effetti sono gratuite, così come l’immaginazione. Si perdono allora in discorsi inverosimili ma mentalmente appaganti, tornando così a casa un po’ più ricchi, e questo a loro basta. Ma questa non è una di quelle sere, niente bella vita, niente residenza di lusso del re di Savoia e soprattutto niente donne discinte. È successo qualcosa di assurdo, in paese non si parla d'altro. Aldobrando lo sa bene e non fa altro che pensarci tutto il giorno. Con il cuore spezzato, Adone si avvia verso il Civico 55, dal campanile in città proviene il suono delle campane a battaglio volante volute proprio dal vescovo così che si sentano su tutto il territorio in segno di supremazia. Deve essersi alzato il vento di libeccio per sentirne così forte i cinque rintocchi che determinano l’orario; infatti sono ormai giunte le cinque del pomeriggio. Due uccellini dai colori vivaci atterrano davanti ai piedi di Adone, il quale si sofferma a osservarli mentre saltellano qua e là, immerso nei suoi pensieri, riprendendo il cammino solo dopo che gli uccellini frullano via. Il tempo non è dei migliori, nell’aria si sente quell’odore di terriccio che indica che da qualche parte, forse verso Mondragone, sta piovendo; infatti anche se non è buio, nel cielo si notano i bagliori dei lampi, che a tratti irradiano le strade prive di illuminazione pubblica. Sta per arrivare un temporale. Adone si affretta, non vede l’ora di distrarsi e di certo non ha intenzione di bagnare i vestiti che indossa; pensa già alla lavata di capo che avrebbe preso da Aida nel caso in cui si fosse inzuppato, quindi cala la testa e con un balzo arriva dinanzi ai tre gradini che lo separano dalla porta del Civico 55. Un sospiro di sollievo tranquillizza il mercante, fiero di non essersi bagnato sta per salire… ma la fortuna non è di certo dalla sua parte: una donna dal piano superiore getta un secchio di acqua mista a qualcosa che solo Dio sa, dritto addosso allo sfortunato mercante. Senza nemmeno arrabbiarsi si toglie la giacca fradicia che indossa e, rassegnato al suo crudele destino, solca finalmente la porta del locale. A questo punto il suo vecchio amico dovrebbe venirgli incontro accogliendolo come sempre ma niente, neanche questa piccola accortezza a cui era ormai abituato.

      «Il Civico 55 è vuoto… vabbè, non è una novità» sussurra Adone imbarazzato. Aldobrando è alla cassa, si vede benissimo, non si è neanche girato per vedere chi sia entrato.

      Come mai è così strano? Di solito gli fa le feste, è l’unico momento in cui può aprirsi con qualcuno…

      Pochi passi lo dividono da Aldobrando ma sembrano chilometri, tanto che i pensieri di Adone sul morale dell’amico sembrano infiniti. Mille sono le idee, d’altronde la fantasia è l’unica cosa che non gli manca.

      «Embè?»

      «Che ti succede? Non mi dire che stanotte hai sognato di esserti ammogliato anche tu? Per stare così,

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