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La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì: L'esigenza di una nuova modernità nel cinema del terzo millennio
La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì: L'esigenza di una nuova modernità nel cinema del terzo millennio
La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì: L'esigenza di una nuova modernità nel cinema del terzo millennio
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La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì: L'esigenza di una nuova modernità nel cinema del terzo millennio

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About this ebook

La stagione del postmoderno è terminata. Gli eventi tragici del terzo millennio, dall’attentato dell’11 settembre alla crisi finanziaria, dalle guerre in Medio Oriente ai drammi dell’immigrazione, hanno cambiato sensibilmente il nostro quotidiano e la nostra visione del mondo, costringendoci a un riordino delle idee ed esigendo l’avvento di una nuova modernità. In che modo il cinema ha recepito e sta recependo i cambiamenti a cui è stata soggetta la stessa società occidentale negli ultimi anni? Come si sostanzia nelle opere dei registi contemporanei il rigetto della filosofia postmoderna, che predicava la fine della storia e l’affermazione di una società liquida, e il conseguente avvicinamento a una nuova condizione, neomoderna, che pone la ragione e la verità nuovamente al centro del discorso? Perché l’attacco alle Torri Gemelle di New York nel 2001 costituisce lo spartiacque tra postmodernismo e neomodernismo? A partire da queste domande, nasce e si sviluppa l’analisi dell’Autore, il cui valore risiede nella sua possibilità di lettura multipla e trasversale; cinematografica in primis, ma anche culturale, geopolitica e storica. Il percorso tracciato lungo il cinema del terzo millennio diventa allora un’occasione per comprendere lo spirito del mondo contemporaneo, in cui l’immagine sullo schermo si fa carico di una nuova morale ed è veicolo di contenuti sociali e politici.
LanguageItaliano
Release dateJul 2, 2019
ISBN9788834148044
La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì: L'esigenza di una nuova modernità nel cinema del terzo millennio

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    La guerra del Vietnam non è mai esistita, ma l'11 settembre sì - Pierluca Parise

    PIERLUCA PARISE

    LA GUERRA DEL VIETNAM NON È MAI ESISTITA, MA L'11 SETTEMBRE SÌ

    L'esigenza di una nuova modernità nel cinema del terzo millennio

    UUID: 3411b643-584f-494f-8d70-3b5cd22a8011

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Disclaimer

    Introduzione

    Parte prima. Il cinema postmoderno: ascesa e declino di un linguaggio pluralistico

    1. Il contesto storico: società postindustriale e controrivoluzione

    2. Il cinema postmoderno: i tratti essenziali

    3. Tra postmoderno e neomoderno: la crisi del cinema-cinema

    Parte seconda. La concezione neomoderna: il ritorno della rappresentazione

    4. Il cinema contemporaneo: approcci neomoderni

    5. L'allineamento dei generi

    6. Il nuovo racconto americano

    7. I registi del nuovo corso: un rinnovato realismo?

    Conclusione

    Note

    Ringraziamenti

    Disclaimer

    Sebbene sia stato fatto ogni sforzo per garantire che le informazioni presentate nel testo siano corrette, i contenuti di questo libro sono frutto di studio e ricerca dell’autore e pertanto, possono talvolta essere il riflesso delle sue opinioni personali. Esse sono state concepite a scopo divulgativo.

    L’autore ha cercato di essere il più preciso e completo possibile nella creazione di questo libro, ma non garantisce che esso sia esente da omissioni o errori.

    Introduzione

    Contrariamente a quanto si possa pensare indugiando sulla copertina, questo libro non ha niente a che vedere con complotti, polemiche politiche o teorie fantascientifiche varie, ma ha chiaramente un titolo metaforico, che riprende parzialmente – parafrasandolo – un commento del filosofo francese Jean Baudrillard. Baudrillard, nell’ambito della sua più ampia analisi sull’iperrealismo e sul cinema postmoderno, aveva provocatoriamente sostenuto la non esistenza della guerra del Vietnam, o meglio che essa era stata idealmente creata con l’uscita di un celebre film, che affrontava la guerra del Vietnam in un modo unico e iperrealista, destinato a restare impresso nella mente di tutti e nella storia del cinema, e che più di altre testimonianze era stato in grado di affermare la filosofia del postmoderno. Quel film era Apocalypse Now ( id., 1979) di Francis Ford Coppola.

    Nel primo capitolo del libro indagheremo le ragioni per le quali l’opera di Coppola sia stata così importante per la filosofia postmoderna, oltre che i tratti caratteristici dell’intera corrente cinematografica in questione, durata circa tre decenni.

    L’altro evento storico citato nel titolo, l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, fu al contrario un fatto così drammaticamente reale e tangibile, che ha cambiato così tanto la faccia del nostro pianeta – quello occidentale soprattutto – che nessun mezzo cinematografico è stato e sarebbe in grado di impressionarlo a dovere. La realtà aveva per la prima volta superato la fantasia, cosa che provocò in registi, produttori e addetti ai lavori vari un generico sentimento di timore misto a rispetto, così grande da impedire di fatto qualsiasi tentativo di simulazione o rappresentazione cinematografica. Quell’episodio è visto come crinale, in grado cioè di porre fine al dominio incontrastato del postmodernismo – postmoderno come assenza di storia e di ragione – e di aver cambiato anche le regole del cinema. Il cinema del terzo millennio è un cinema verità post-11 settembre.

    Da qui il senso del titolo, che vuole stigmatizzare la nascita di un nuovo tipo di cinema, o meglio il passaggio tra due modi diversi di considerare il mezzo cinematografico e di comprendere il mondo attraverso il grande schermo. Se è vero che la guerra del Vietnam non è mai esistita, come afferma il postmoderno (e tra poco scopriremo in che senso), l’11 settembre è stato invece un evento talmente cruciale nella propria tragicità, che è come se avesse fatto venir meno quello stesso concetto espresso attraverso la frase provocatoria di Baudrillard, e avesse chiuso dunque un’era.

    Lo spettatore del nuovo millennio si ritrova a che fare con un cinema nuovo, che partendo dalla storia e da un esasperato realismo, tenti una strada diversa, che vada in direzione di una nuova modernità cinematografica, ma con un’esigenza di verità e autenticità ancora maggiore. Come mai era successo prima.

    Spiegare la fine di una tendenza artistica – nel cinema come nella musica, poesia o pittura – e il contestuale inizio di una nuova, prescindendo dal contesto storico e sociale all’interno del quale un certo cambiamento si è verificato, sarebbe un po’ come avere in mano delle ottime carte durante una partita di Poker, ignorando però le regole del gioco, senza poter comprendere quindi il valore e il significato di quelle stesse figure.

    Nel perseguire lo scopo di questo libro, cioè l’analizzare il passaggio tra il cinema postmoderno e quello che definiremo come neomoderno a cavallo dei due secoli, risulta allora fondamentale stabilire un punto di partenza di carattere storico, ancor prima che cinematografico. Che in sintesi, significa partire da fatti (oggettivi), per poter formulare teorie (che abbiano solide basi).

    Il fatto principale, attorno a cui ruota l’intero oggetto del manuale, è dunque costituito dagli attentati dell’11 settembre 2001, vero e proprio spartiacque della storia contemporanea dell’uomo, che fu solo il primo di una lunga serie di eventi tragici verificatisi nel corso di questi due primi decenni del terzo millennio, dalle guerre in Medio Oriente al terrore dell’Isis, dalle crisi economiche ai drammi dell’immigrazione, che hanno mutato inevitabilmente il mondo in cui viviamo, insieme al nostro sguardo sulla realtà. In questo contesto, è pacifico pensare che il cinema, da sempre specchio del nostro tempo, abbia ugualmente assorbito quei cambiamenti a cui è stata soggetta la stessa società odierna.

    Non si può quindi non considerare l’attuale contesto socio-politico nel teorizzare una nuova concezione filosofica, nel passare a vaglio il cinema contemporaneo e nell’analizzare i cambiamenti che si sono verificati nella settima arte, rispetto al recente passato postmoderno. Per questo motivo, ritengo che un’introduzione di carattere generale di stampo storico e sociologico debba essere necessaria, per comprendere come, in concreto, i film e le nuove generazioni di registi, produttori, sceneggiatori e tecnici si siano adeguati ai tempi correnti e abbiano capito l’esigenza di andare incontro ai nuovi gusti del pubblico, di massa come d’essai. Se il cinema è lo specchio della società, gli eventi che sempre più rapidamente permeano il mondo in cui viviamo – in meglio o in peggio, non ha importanza in questo caso – non possono che avere quindi risvolti anche nelle singole opere cinematografiche, che più delle altre opere d’arte, letterarie come architettoniche, tendono a restare più al passo coi tempi.

    Essendo questo anzitutto un libro sul cinema, che vuole parlare di cinema, è doveroso precisare che non c’è l’intenzione, né tantomeno l’esigenza di una dettagliata analisi socio-politica degli eventi storici sopracitati. Come già suggerito nelle prime righe di questa introduzione, il quadro generale di carattere filosofico e storico che andrò delineando è essenzialmente strumentale e funge da bussola per orientare il lettore all’interno di specifici concetti cinematografici, dei quali lo stesso non debba necessariamente avere padronanza.

    Per questo motivo, il preambolo del primo capitolo dedicato al cinema postmoderno non poteva essere affrontato in profondità, ma solo in superficie, quanto basta per delineare e far capire il contesto di riferimento, il significato e l’origine dell’inflazionata corrente artistica del postmoderno, per poter passare poi in rassegna nei capitoli successivi le cause della sua crisi e della sua morte, e giungere infine alla seconda parte, punto centrale dell’intero corpus, dove si affronta la nascita e il carattere di quello che definisco come nuovo cinema contemporaneo.

    Questa scelta è motivata sia dall’esigenza di non cadere nella trappola della prolissità, sia perché sul postmoderno è stato già detto e scritto tanto, qualcuno sostiene anche troppo. Per coloro che fossero interessati ad approfondirlo nel dettaglio, rimando direttamente alle opere dei francesi Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard e Laurent Jullier, dell’italiano Gianni Vattimo, degli americani Frederic Jameson e Alan Kirby, e a tantissimi altri – la lista sarebbe infinita – che hanno dedicato alle teorie, alla società e all’arte postmoderne, al suo avvento come ai suoi effetti (positivi o negativi che siano stati) gran parte della loro attività, che qui mi accingo a riproporre dal punto di vista prettamente cinematografico, con il fine ultimo di offrire un disegno più unitario possibile del cinema contemporaneo, che lasciando alle spalle il postmoderno, si avvia verso una nuova e speriamo per noi, fluente stagione di modernità.

    Scorrendo queste pagine, il lettore si accorgerà come la lente d’ingrandimento sia posizionata essenzialmente sul cinema americano e europeo. La ragione? Il postmoderno è stato un fenomeno prettamente occidentale, che ha avuto ripercussioni nel vecchio come nel nuovo continente, e il cinema che si appresta a venire con i crismi dell’autenticità e del nuovo realismo, nascendo dalle ceneri del postmoderno, non potrà che riguardare anch’esso America ed Europa principalmente. Per questo motivo ho deciso di non focalizzare la mia attenzione sul cinema orientale, che pur essendo costellato di capolavori contemporanei e sempre più considerato da critica, pubblico e festival europei, non ha vissuto quella fase di transizione a cavallo dei due millenni – direttamente collegata alla fine del postmoderno e all’inizio di qualcos’altro – che ha toccato invece i due versanti dell’Atlantico. Straordinarie realtà cinematografiche quali Giappone e Corea del Sud saranno state certamente interessate da altri fenomeni e cambiamenti, ma poco attinenti al fulcro del discorso che mi sono prefissato di mettere in piedi in questo libro.

    L’avvento del postmoderno, così come il suo declino sono stati fenomeni prettamente occidentali; ed è quindi lecito pensare che sia proprio dall’occidente che debba partire una rivoluzione neomoderna, della ragione e della verità, nella società come nel cinema.

    È altrettanto giusto chiarire sin da subito che il mio intento non è quello di schierarmi, di dichiarare una preferenza per un tipo di cinema o l’altro, ma solo di mettere in risalto la fine di un percorso – che era iniziato a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta – e allo stesso tempo l’avvento di uno nuovo, di registrare il passaggio tra due modi di fare e di intendere i film, evidenziandone qualità e difetti, da ambo le parti, e di stigmatizzare il ritorno di una nuova modernità cinematografica, che esattamente come fece lo stesso cinema postmoderno all’apice della sua diffusione, ha partorito opere di inestimabile valore ed entrate già nella storia di quest’arte. Dopotutto, la storia del cinema ci ha regalato centinaia di capolavori, cult, pietre miliari, senza distinzione di genere, forma o corrente, e che essi possano essersi semplicemente esauriti nella prima decade dei Duemila, con la fine di un lunghissimo movimento culturale qual è stato il postmoderno, è un’argomentazione che non troverà mai spazio in nessuna discussione seria sul cinema.

    In definitiva, questo manuale si propone di affrontare il passaggio tra due epoche, stabilendo come presupposto la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro. Naturalmente, ancora prima di capire e verificare cosa davvero stia accadendo al cinema contemporaneo, da quali cambiamenti sia interessato, che futuro possa avere e, soprattutto, come possa essere definito il nuovo cinema contemporaneo, esaurito il boom postmoderno, è essenziale capire anzitutto di cosa parliamo, quando parliamo di cinema postmoderno. E in che modo, inoltre, dalle riflessioni storiche e sociali che hanno interessato diversi ambienti culturali americani sin dalla fine degli anni Settanta – qualcuno definisce Guerre stellari ( Star Wars, 1977) di George Lucas come il primo prodotto del cinema postmoderno, ma ne parleremo meglio più avanti – sia scaturita la nascita di un vero e proprio filone cinematografico postmoderno, ampiamente diffuso tra alti e bassi fino alle porte del terzo millennio e sempre caratterizzato da tratti ben definiti, per così dire riconoscibili.

    Come già detto, per capire la fine di un’era, bisogna anzitutto afferrarne il significato, la filosofia, la portata, ragion per cui, prima di disquisire sulla fine del postmoderno e sul cinema di oggi, non ci si può esimere dall’effettuare un passaggio intermedio, nel primo capitolo, che tenti di rispondere alla prima domanda fondamentale che immagino qualche lettore si stia facendo in questo istante: che cos’è il cinema postmoderno?.

    Parte prima. Il cinema postmoderno: ascesa e declino di un linguaggio pluralistico

    1. Il contesto storico: società postindustriale e controrivoluzione

    1.1. Apocalypse Now: l’inversione del paradigma

    «The war in Vietnam in itself never happened, as it is a dream, a baroque dream of napalm and of the tropics, a psychotropic dream...» [1] . Così scriveva il filosofo francese, nonché uno dei precursori del teoricismo postmoderno del secolo scorso, Jean Baudrillard, in un capitolo di quella che è forse la sua più famosa opera, The Evil Demon of Images ; un capitolo dedicato al capolavoro di Francis Ford Coppola, Apocalypse Now , uscito nel 1979. Tale film, infatti, si presenta per Baudrillard come una sorta di continuazione, o per meglio dire estensione della guerra realizzata con altri mezzi, perché, a suo avviso, «la guerra s’è fatta film, il film si fa guerra, ed entrambe si uniscono attraverso il loro comune travaso nella tecnica» [2] . Lo stesso principio verrà ribadito da Baudrillard anche con riferimento alla guerra del Golfo, che a differenza di quella del Vietnam non ebbe però lo stesso impatto in termini di mediatizzazione. Ciò che conta nella logica baudrelliana, comunque, è che un avvenimento storico drammatico, come può esserlo una guerra, cessa di essere necessario, in quanto già «virtualmente realizzato all’interno degli schermi elettronici» [3] .

    Per il filosofo francese, Apocalypse Now è stato un’opera d’arte talmente epocale, con la sua fotografia, i suoi colori, la sua drammatica, ma efficace metafora della discesa agli inferi, il tutto miscelato con le note dirompenti di Richard Wagner, che sembra quasi abbia creato la guerra del Vietnam partendo da zero e che quindi da quel momento in poi sia stato un film, il capolavoro di Francis Ford Coppola, a diventare punto di riferimento per le guerre future.

    Apocalypse Now ha generato quindi un metro di paragone non solo per i film di guerra, ma per l’idea stessa di guerra. L’evento reale, la guerra, viene ridotta per Baudrillard a pura sublimazione cinematografica; il conflitto in Vietnam e il film di Coppola diventano allora una sola cosa, e l’iperrealismo del film che ne deriva – un eccesso di realtà, per così dire – assurge a punto di riferimento principale nel parlare e disquisire della guerra, più del realismo che caratterizza la cronaca o l’evento giornalistico. Luca Malavasi chiarisce che tale film, come la guerra serve a testare la tecnica, a testare la sua potenza d’intervento attraverso l’impiego degli effetti speciali, suggerendo come quella stessa guerra non avesse l'obiettivo della vittoria, quanto piuttosto della propria consacrazione, che avviene in effetti grazie a un film, che completa l'effetto spettacolo di massa di questo drammatico evento storico [4]. In definitiva, seguendo tale logica, Coppola non si serve del lavoro del cronista di guerra per raccontare il Vietnam, bensì lo anticipa e lo sostituisce: rappresentazione che diventa simulazione, realismo che diventa iperrealismo.

    Per capire bene ciò che si intende, è utile riportare per intero un esempio formulato dal critico d’arte e mecenate Lawrence Alloway, grande teorico del fotorealismo e ideatore tra le altre cose dell’espressione pop-art, che affronta il tema dell’iperrealismo nella pittura – ma lo stesso principio si potrebbe applicare al cinema e alle altre arti – a partire dal rapporto tra immagine/referente e originale/copia: «Quella che gli artisti iperrealisti dipingono è […] una doppia immagine. Il dipinto si fa carico, al suo interno, della referenza a un altro canale di comunicazione così come della scena dipinta e dell’oggetto che vi appare. […] È come se il soggetto di un dipinto non fosse una Volkswagen, ma la fotografia della Volkswagen. La fotografia corrisponde all’automobile così come la conosciamo, ma il dipinto corrisponde sia alla fotografia, sia all’auto; è, forse, la fotografia a funzionare come referente primario» [5].

    Allo stesso modo, tornando al Vietnam, diremmo che il referente primario dell’idea di guerra, per Baudrillard e il postmodernismo non è più la realtà per quella che è, senza aggiunte né cesure, o la storia (che cessa di esistere, appunto), ma un film, un’opera d’arte, un prodotto dell’uomo. E in questo capovolgimento referenziale, parafrasando Craig Owens, la cultura si fa come unica addomesticatrice della natura [6] .

    1.2. La fine delle grandi narrazioni

    Quando inizia il cinema postmoderno? Non esiste una data particolare che possa essere usata come bandierina spartiacque. Quello che certamente si sa è che il termine postmoderno viene utilizzato per la prima volta nel 1979, tra le pagine del libro del filosofo e docente universitario francese Jean-François Lyotard, La Condition postmoderne: rapport sur le savoir; un’opera seminale ed essenziale all’interno del dibattito sul postmoderno, capace di aprire nuovi orizzonti di pensiero, nella letteratura come nelle arti figurative, nella filosofia come nel cinema. Lyotard poneva al centro della sua riflessione la cosiddetta «incredulità nei confronti delle metanarrazioni» [7], tratto dominante della società postindustriale e postmodernista. Il termine metanarrazione non è da intendersi in questo caso con l’intervento dell’autore-artista all’interno della propria narrazione, letteraria o cinematografica che sia – con il prefisso greco meta che letteralmente significa dopo, oltre e che viene filosoficamente utilizzato per indicare la caratteristica di un qualcosa che esce da se stesso per parlare di sé come dal di fuori – bensì da un punto di vista storiografico. La metanarrazione nella critica di Lyotard sta a indicare quella narrazione, o meglio quel grande racconto in grado di ispirare un pensiero totalizzante e di avere insita in sé una qualche verità universale, da utilizzare – ed è qui che nasce la critica negativa dei postmodernisti – per giustificare una qualunque azione, facendo leva sulla religione e sulle grandi ideologie moderne, come marxismo e illuminismo, che diventano quindi uno scudo di protezione, un comodo nascondiglio dietro cui ripararsi per legittimare le predette azioni e i comportamenti, surrogati dalla pretesa verità universale.

    La fine delle grandi narrazioni, dei grandi ideali e dello storicismo era dovuta al fatto che essi, per Lyotard e i postmodernisti, avevano a poco a poco perso la loro carica trascinatrice e agitatrice di coscienze, anche considerata l’assenza di eventi catalizzatori e spaccastoria, che potessero in qualche modo esigere un pensiero filosofico comune e unire gli uomini per un fine condiviso, come il raggiungimento del bene e della felicità. Per Lyotard, il cittadino della seconda metà del XX secolo non si lascia più persuadere dai grandi racconti, dalla storia e dalle ideologie, ma abbraccia un nuovo mondo nichilista e deregolarizzato, dove non esistono più eroi e sconfitti. E in un contesto del genere, dove viene a mancare un sapere unico e una verità oggettiva, per far spazio a tante verità, interpretazioni e punti di vista diversi, è indubbio che il sapere diventi una merce di scambio, che la verità sia meno importante del profitto e che la mercificazione della notizia valga più della sua attendibilità. In sintesi, il cittadino si fa consapevole dell’inganno di cui egli stesso è vittima. Un inganno senza dubbio linguistico, con il linguaggio che si fa quindi influencer della verità, attraverso cui, a seconda delle dichiarazioni ed enunciati (e di come vengono posti), può tranquillamente cambiare il ruolo dei referenti o dei destinatari; una visione che ben si concilia con la supremazia delle interpretazioni sui fatti, da sempre cavallo di battaglia dei postmodernisti.

    La fine delle grandi narrazioni dichiarata da Lyotard si traduce nel cinema con l’avvento di nuove strutture narrative, che confondono reale e virtuale ( Matrix), passato e presente ( C’era una volta in America), che utilizzano con disinvoltura flashback e flashforward ( Pulp Fiction), proiettando avanti e indietro nel tempo lo spettatore, che lasciandosi completamente persuadere, viene sballottato a seconda della volontà del regista-burattinaio, in linea con la concezione che tutto perde significato e nessuna ideologia o storia sia più in grado, nella propria unicità, di spiegare il mondo contemporaneo. Il risultato è che una nuova comprensione del tutto è possibile solo attraverso l’accettazione di una frammentazione; di realtà, tempo e spazio. In modo consequenziale e naturale, dunque, la macchina da presa non può che perdere il contatto con la realtà oggettiva, accogliendo l’idea che più mondi, più realtà e più storie non solo siano possibili, ma diventino a questo punto inevitabili, sia per comprendere la società in cui si vive, sia per assurgere a nuovo strumento di intrattenimento efficace di massa.

    Per Lyotard le grandi narrazioni, accusate di imporre verità incontrovertibili – e per questo viziate alla radice, secondo la logica postmoderna – erano entrate in crisi a causa di quella che il filosofo e docente universitario, Roberto Mordacci definisce come svolta linguistica della modernità [8] . In nome di un fine superiore (l’emancipazione), esse avrebbero finito per giustificare, ma prima ancora permettere i grandi errori dell’uomo del Novecento, primo tra i quali i totalitarismi. Ora, al di là della sostenibilità di queste posizioni, quello che è importante dire è che il postmodernismo come corrente filosofica, quindi ancora prima di approdare con impatti concreti nella letteratura e con grande ritardo nel cinema (come vedremo nelle pagine successive), si sviluppa proprio con il fine ultimo di sostituto della modernità. Una modernità accusata di aver fallito la sua missione, in quanto troppo legata a una concezione di ragione indiscutibile, dominante e incontrovertibile, sia nel suo versante ideologico, sia in quello tecnico-positivista, che nelle logiche degli accusatori avrebbe ricondotto tutta la realtà al manipolabile e al misurabile, causando una frattura tra uomo e società. In tale ottica, il postmoderno si pone quindi come l’antidoto al dominio assoluto della ragione, predica il cosiddetto «pensiero debole» [9] in contrasto con il logocentrismo del moderno e si prefigge un recupero delle emozioni, delle pulsioni, delle energie dell’inconscio e dell’interpretazione romantica come canale prediletto – prima di quello razionale – per una corretta visione del mondo contemporaneo.

    Quest’idea che la liberazione dello spirito possa avvenire battendo il percorso

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