Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

L'albergo del ragno
L'albergo del ragno
L'albergo del ragno
Ebook264 pages4 hours

L'albergo del ragno

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

L’Albergo del Ragno è un romanzo giallo ambientato a Genova, città che grazie alle descrizioni dell’autrice diviene quasi un personaggio della storia.

La protagonista è Genny, una donna italo-francese dallo spirito libero, che trascorre un’estate a Genova, nei luoghi della sua gioventù, insieme al figlio Robert e all’amico di quest’ultimo Albert, agente di polizia, allontanandosi così dal suo compagno, il commissario Draguignan.

L’albergo che hanno scelto sembra fatiscente ed è avvolto da voci poco lusinghiere e macabre leggende, ma lì Genny ritrova lo chef Riccardo Saporiti, una sua vecchia fiamma.

La vacanza comincia tra visite ai luoghi più suggestivi del capoluogo ligure e incontri con vecchie conoscenze, ma è quasi subito funestata dall’omicidio, in albergo, dell’anziana cameriera Marinin.

Quando vengono uccise altre persone, tutte in qualche modo legate a Saporiti, la stessa Genny sembra essere in pericolo, e le indagini richiamano a Genova anche Draguignan, che insieme al maresciallo Alessi e al giovane Albert dovrà far luce sulla catena di omicidi. Lo stesso chef viene a sua volta ferito. Verrà così a galla una vecchia storia legata al passato di Riccardo e alle sue frequentazioni.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 3, 2019
ISBN9788831627085
L'albergo del ragno

Read more from Laila Cresta

Related to L'albergo del ragno

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for L'albergo del ragno

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    L'albergo del ragno - Laila Cresta

    Narrativa

    A GENOVA, PRIMA – Prologo

    L’uomo si fermò un attimo su quella che era stata la porta interna del vestibolo distrutto. Quel luogo fuori dal tempo lo attirava irresistibilmente. Un faccione di luna lo illuminava, una luna rossastra, gonfia di umori maligni, che riusciva a illuminare solo uno spicchio al di là della porta. Sulla soglia, sotto i suoi piedi, un avanzo di quello che era stato il pavimento a mosaico del vestibolo scricchiolò per qualche altra pietruzza che lasciava il proprio alveo, come i denti di un vecchio. L’interno gli rammentava in qualche modo il laboratorio San Severo, e i suoi affascinanti corpi così esposti nelle loro viscere più segrete. Lì dentro, le erme bianche e nere che reggevano le colonne, col busto coperto di conchiglie, parevano portare giustacuori che in qualche modo mascherassero visceri autentici, nella loro sofferenza eternata dalla morte. Davanti a lui, adesso, il lume della sua torcia fece brillare le carni bianche della più bianca fra le ninfe, Galatea celebrata nel suo trionfo, roba da sentirsi attizzare tutto. E poi c’era quell’altra, Europa, quella rapita dal toro, che senz’altro l’aveva violata e fatta soffrire, lontana dal mondo e da chi la amava. E il tutto in un rilievo di pietruzze e conchiglie, a dare l’idea di una corposità di carni e di sangue! Ci sapevano fare, quei vecchi, non c’era dubbio. A Genova avevano la passione di quelle cose lì, ninfei e grottaglie, li chiamavano, ma gli pareva che quella Grotta Doria avesse qualcosa che agli altri mancava. Forse quell’estrema decadenza, quel suo essere in disfacimento come un corpo putrefatto, era l’aspetto che lo affascinava di più.

    ... ET PUIS, TOUT PRÈS DE PARIS – 1

    Sei già partita!. Genny stava rileggendo lentamente la rivista italiana cui l’aveva abbonata la sorella, assaporando la sensazione che le dava, e la voce accusatrice del commissario la risvegliò bruscamente dal sogno. Represse un sospiro e alzò sul vecchio amico lo sguardo seccato. Finì per sorridere: nudo com’era, disteso nel letto, Draguignan non riusciva ad avere il cipiglio di sempre. E il suo carisma era certamente di un tipo diverso.

    Dai, Drago! Alzati, che tra poco arrivano i ragazzi gli disse, poi s’infilò veloce una vestaglietta e uscì dalla stanza. A Draguignan, invece dei suoi soliti ruggiti, sfuggì questa volta un lungo sospiro. Lei se ne andava in Italia tutta l’estate con la scusa di rivedere i luoghi dell’infanzia, e meno male che almeno ci andava coi ragazzi: avrebbe ben dovuto mantenere un certo decoro, di fronte al figlio e al suo amico!

    Molto presto, arrivarono dalla cucina dei profumi appetitosi che migliorarono un po’ il suo umore, e le note di un cantautore che lui e Genny avevano sempre amato: Dans l’eau de la claire fontaine, elle se baignait toute nue…. Genny la cantava anche nella bella versione di uno della sua città: Nell’acqua di chiara fontana, lei tutta nuda si bagnava...

    Draguignan sospirò, pensando a tutti gli interessi di quella donna che la distraevano da lui, poi cominciò a vestirsi: aveva sentito le voci dei due giovani che erano rientrati, Robert e il suo agente Albert. Le ore successive furono occupate negli ultimi preparativi per la partenza, mentre Draguignan si metteva fra i piedi di tutti, ingombrante e intrattabile come un vecchio orso, in attesa di accompagnarli a Parigi alla Gare du Nord.

    Quella sera stessa, intorno a mezzanotte, i tre passeggeri stanchi trascinavano già le loro valigie sul lastricato davanti alla stazione Principe, a Genova. Le macchine passavano abbastanza rade, e parevano quasi silenziose, come oppresse anch’esse dalla calura.

    Ma non dicono che c’è sempre vento, a Genova? pensò Albert accaldato, mentre entravano in una galleria che si apriva in un antico muraglione di contenimento e portava a un vecchio ascensore. Che strana città era quella, madame Genny gliene aveva parlato: tutta un saliscendi, e un intrecciarsi di gallerie semibuie e di caruggi, i vicoli del centro storico. Oltre all’ascensore e a una strada a tornanti troppo lunga e in salita per farla a piedi, l’albergo aveva un’unica altra via di accesso, una scalinata spezzata in due lunghissimi tronconi: pareva poter arrivare fino in cima all’Empire State Building! Ad Albert, che l’aveva vista dal basso, era nata quella strana associazione di idee perché gli era venuto in mente un vecchio racconto di Thomas M. Disch che Robert gli aveva prestato, e che era praticamente ambientato sul famoso grattacielo. 102 bombe H, s’intitolava, e lui si chiese cosa avesse solleticato quell’inquietante e incongruo ricordo: Genova non era mica New York... Ad Albert sembrò strano anche l’albergo, e persino un po’ inquietante, serrato com’era tra palazzi tanto assurdamente vicini che sembrava gli si stringessero attorno con l’intenzione mailigna di togliergli l’aria. Neppure il giardino, che spuntava ai due lati del palazzo con due sottili propaggini, riusciva a dare respiro a quel palazzo. Sulle cancellate che lo racchiudevano, si arrampicavano piante tanto alte e folte da non lasciare vedere niente dell’interno, e si serravano strettamente sulle inferriate di ferro battuto, macchiate di ruggine come di lebbra. Qualcuna anzi, fra le aeree volute che le componevano, era stata tanto corrosa da quella specie di cancro rosso cupo da essersi spezzata. Ad Albert venne in mente il grande Lovecraft, e le sue parole su un palazzo oscenamente antico della fine del ‘700, e quella costruzione era addirittura del ‘500, gli aveva detto Robert. Gli affreschi sulla facciata del palazzo, trabeazioni e mezze colonne, erano appena visibili. Si notavano anche figure umane di tipo greco-romano, che se ne stavano annidate nelle nicchie virtuali create dagli elementi architettonici: qua e là mangiate dal tempo e dalla salsedine, finivano per assumere mostruose e inquietanti fisionomie. Il portone d’ingresso era enorme, scuro, coperto di grandi chiodi a cuspide. L’uscio di dimensioni umane che era stato come ritagliato dentro di esso si notava appena. Un pulsante di citofono in ottone brillava alla luce di un lampione.

    "Ah! Sarebbe così bello, ‘sto palazzo! Ma è davvero trooppo trascurato!" disse in quel momento la signora, e il figlio le fece eco:

    Già. Guarda se bisogna lasciar ridurre così degli affreschi del ‘500!

    Albert sorrise: gli piaceva proprio il modo di guardare di quei due. Lui era più inquieto.

    Genny suonò, e subito una voce chiese tempo. Il vecchio mezzo meccanico da cui usciva la rendeva disumana, disincarnata come un’antica registrazione a cilindro. Il rigidissimo concierge che aprì la porta poco dopo era una figura imponente e Albert lo invidiò un poco: lui non era troppo soddisfatto della propria altezza che non arrivava al metro e settanta, e invece quello lì che era anziano era un gigante più o meno come Robert. Nel suo tight nero, l’uomo era dignitoso e aristocratico come un ambasciatore, ma con qualcosa di cupo che pareva respingere più che accogliere. Albert sorrise di sé e fra sé: Mi segua... diceva Lurch, il maggiordomo degli Addams! Che poi era una bravissima persona. L’uomo richiuse la porta antica senza provocare il minimo rumore, come scorresse su incongrui cuscini d’aria, poi i tre viaggiatori si inoltrarono con lui fra le colonne di quel grande atrio. Il pavimento di mattoni pieni in costa, a spina di pesce, era in condizioni appena sufficienti a non inciampare, e dal portone partiva un passaggio di pietre grigie e piatte che portava fino in fondo al salone. Evidentemente, un tempo, quella che avevano appena passato era stata una porta carraia. Genny fece una smorfia: se avesse potuto, lei avrebbe gridato volenteri: Aria, aria!, e sarebbe andata ad aprire le grandi finestre, due per lato, che interrompevano le pareti laterali.

    Anche ad Albert l’aria lì dentro pareva fredda e ferma, stantia, anzi morta come in una tomba, o come nel sacrario di chissà quale divinità malevola. I tendoni rosso cupo, in finto velluto, parevano dover cancellare più che schermare quelle finestre che i palazzi in giro così vicini rendevano quasi inutilizzabili. In mezzo a ogni coppia di finestre, poi, sui due lati c’erano delle cassapanche Luigi XIV che parevano addirittura autentiche, ma sbiadite e sciupate com’erano avevano un’aria triste, di abbandono. I portalampada alle pareti, fiochi come lumini tombali, non arrivavano a rischiarare gli angoli del salone, e neppure il soffitto altissimo, scuro come la bocca rovesciata di un pozzo. Dall’alto, scendeva l’ombra minacciosa di un enorme ragno che pareva incombere pericolosamente sulle loro teste, pronto a calare su di loro con la velocità del predatore che era. Albert, già a disagio, a quel pensiero fuggevole rabbrividì fra sé. Poco incline all’immaginazione gotica, Genny pensò invece che quel grandissimo lampadario antico un tempo doveva essere stato davvero bello, anche se i fiori stilizzati che spuntavano dai suoi numerosi bracci arcuati, di legno, si vedevano appena.

    Genny e i ragazzi posarono i documenti sul piccolo banco a ferro di cavallo della conciergerie. Nel quadro delle chiavi dietro il banco, notò Albert, non ne mancava nessuna. Forse quello era stato giorno di partenze.

    Stanchissimi, i tre viaggiatori seguirono il concierge verso l’atrio superiore. Si arrampicarono con precauzione su una delle due scalinate simmetriche e sinuose che salivano alle camere. I neri scalini di ardesia erano un po’ troppo consumati per essere agevoli, e non invitavano affatto a quella scalata quasi al buio. Genny era abbastanza delusa da tanta trascuratezza. Aveva letto che quel palazzo, ex maison de plaisir di ricchi libertini (figli di onesti mercanti e capitani di mare), era stato restaurato alla fine dell’800 per trasformarlo in un albergo esclusivo. Nel secondo dopoguerra, poi, era stato spesso scelto da una famosa compagnia di navigazione per alloggiare il proprio personale e i passeggeri durante le soste a Genova. A quanto pareva, però, era ormai di nuovo in condizioni pessime, e il restauro più recente era stato davvero approssimativo. Genny era scesa in quell’albergo spinta da un impulso improvviso: era affascinata da tutto ciò che era antico e aveva una storia. Inoltre, le pareva di ricordare qualcos’altro di molto intrigante, su quel luogo: un delitto, un famoso gioiello scomparso, e prima ancora una grossa tragedia di mare che poteva aver influito sulla decadenza di quel posto, che avrebbe potuto essere così affascinante.

    L’atrio superiore era ampio, con cinque porte per lato. Una, alla sinistra dell’ingresso, sul lato opposto alle loro camere, era spalancata e dava sulle scale di servizio. Nell’angolo in fondo a destra, c’era una statua molto simile alla Venere callipigia: poteva persino essere un’altra copia di Jean-Jacques Clerion, pensò Genny, e quindi risalire alla seconda metà del ‘600. In mezzo alla parete di fondo c’era una panoplia di antiche armi: una mazza ferrata e una spada incrociate sotto un elmo. Ai suoi lati, notò anche due quadri dalla pregevole cornice, ma erano tanto scuri da non distinguerne il soggetto.

    Le camere preparate per gli ospiti erano davvero affascinanti e persino un po’ inquietanti, nel loro strano miscuglio di oggetti preziosi e di rimpiazzi dozzinali, ed erano ancora diverse l’una dall’altra come dovevano esserlo state quando quella era stata una dimora di prestigio. Molto più antica dei palazzi che ora la soffocavano, un tempo la costruzione aveva certamente goduto dell’aria, del sole e anche di una bella veduta di tutta la zona, e probabilmente del porto stesso. La donna era rinfrancata e stuzzicata da un ambiente come quello. Sul copriletto di raso rosso doge del suo lussuoso letto a una piazza e mezza, di noce tanto scuro da parere nero, erano sparsi un’infinità di piccoli cussin e oreiller, i guanciali all’italiana e gli origlieri cilindrici alla francese. Uno splendido pizzo al tombolo del Tigullio ricopriva completamente dei comodini che invece, come constatò Genny che era curiosa, erano appena essenziali, di tipo svedese. Davanti alla finestra serrata c’era un bel tavolo ovale nello stesso stile del letto. Dopo aver capito come si aprivano quelle vecchie finestre, Genny riuscì, con qualche sforzo, a sbloccare gli infissi incrostati dal tempo e dalla salsedine. Aprì, e subito balzò indietro, un po’ esasperata: un pulviscolo scuro e pesante si era levato da quella finestra che pareva chiusa da anni. Sperava che almeno il bagno fosse in buone condizioni. Entrò e accese la luce. Respirò di sollievo. L’ambiente era pulitissimo, come tutto lì dentro a parte gli infissi, anche se era strano, come tutto lì dentro compresi gli infissi. La maggior parte dello spazio era occupata da una grandissima e invitante vasca liberty dai piedini d’oro, che se ne stava fra i sanitari dozzinali come un castello fra le catapecchie. Il vecchio lavandino era in ottime condizioni, come avesse passato gli anni in un balzo temporale, e non in uso a tanta gente. Sopra, pendeva una grande specchiera dall'elegante cornice dorata, a tre ante come un trittico di chiesa. Era palesemente antica e la superficie riflettente era deturpata da macchie scure che parevano disegnare su di essa geografie aliene, creature abominevoli, visi mostruosi. Genny sorrise di sé e della propria immaginazione inconsuetamente gotica, poi, troppo stanca per non temere di addormentarsi in quell’enorme vasca, si accontentò di spogliarsi e fare una doccia in piedi. Poi finalmente si coricò, e si addormentò subito.

    2

    Si risvegliò ben riposata a un’ora decisamente insolita per lei: il letto era davvero comodo, morbido al punto giusto, e quella stanza era singolarmente silenziosa, come probabilmente lo era tutto quell’albergo così lontano dal traffico.

    Genny si stirò voluttuosamente nel letto e si alzò, decisa a concedersi un lungo bagno in quella sua vasca così invitante. In una piccola scaffalatura nello spessore del muro, notò i sali e la schiuma da bagno... ed erano i suoi preferiti ai lillà! La coincidenza era deliziosa e Genny si sentì rappacificata con tutto ciò che di quel posto l’aveva infastidita fino a quel momento. Quando i ragazzi bussarono alla sua porta, aveva appena finito di prepararsi.

    La porta del ristorante era un vero gioiello liberty, bianco e oro. Si apriva al pianoterra tra le due scale: un consolatorio punto-luce che, dal portone d’ingresso, concentrava lo sguardo al di là dell’atrio oscuro. Ai suoi lati, c’erano due porte che da lontano non si notavano neppure, tanto era scuro il noce delle loro cornici: erano una dirimpetto all’altra, e una di esse era dietro al banco altrettanto scuro del concierge.

    Genny entrò nel ristorante coi due giovani, e sorrise contenta: inaspettatamente, avevano trovato un ambiente tanto gradevole e curato da dare loro la sensazione che la bianca porta liberty fosse davvero una qualche porta dimensionale, al di là della decadenza e dello squallore. Avevano letto che quello era un ristorante famoso, nonostante l’albergo in quanto tale fosse assai poco frequentato, e l’ambiente era certo prestigioso. Il loro era l’unico tavolo prenotato che portasse sul cartellino l’identificazione delle camere, anzi, il nome. Quella di Albert ad esempio veniva chiamata Cameretta Gialla per le sue dimensioni ridotte rispetto alle altre e per il copriletto di raso dorato del suo letto di ferro, ma al ragazzo piaceva più di tutte perché era l’unica che avesse una finestra utile, affacciata com’era in un angolo fra due palazzi: da lì, si vedeva addirittura la piazza della stazione, e la notte del loro arrivo la vista di Principe illuminata, col porto e la Lanterna sullo sfondo, era sembrata magica al giovane agente, e gli aveva sollevato il morale un po’ fiaccato da quello strano posto. Il pavimento del ristorante, notarono entrando, era di mattoni pieni a spina di pesce come quello dell’atrio, ma era tanto perfettamente restaurato da parere nuovo. Sui tavoli, pendevano sei lampadari che erano una bella copia, in piccolo, di quello quasi mostruoso del vestibolo, e se ne stavano lì, come rannicchiati in una ragnatela di sottilissime crepe; insieme alle eleganti applique in ottone e cristallo che erano state messe negli angoli delle volte a vela, illuminavano la sala di una luce calda e riposante. Nella parete di fondo, in alto, si aprivano delle bocche di lupo ingentilite da tende a pacchetto che erano mezzeri a colori vivaci, appesi a sottili bacchette di ferro tornito, alla genovese. Mi piace, qui! sorrise Genny rinfrancata, poi si volse ai giovani: Cosa volete fare, ragazzi? Io starei qui, questa mattina. Sono ancora un po’ stanca. Se mi lasci il tuo notebook, Robert, mando qualche email e cerco qualcosa che mi interessa. I ragazzi la rassicurarono che si sarebbero divertiti e, all’uscita, sparirono verso il portone, mentre lei risaliva nella propria stanza.

    Che pace pensò Genny poco dopo chiudendo la porta, ma era così abituata al rumore del traffico, e ancor più al brusio di fondo di una scuola, sempre innaturalmente alto, che presto cominciò a pensare che quel silenzio fosse davvero eccessivo. Un’insolita irrequietezza la prese. Se Genny fosse stata un tipo impressionabile, avrebbe davvero paragonato quel luogo a una tomba. Volle inserire la chiavetta su cui salvava i propri dati personali quando lavorava sul notebook di suo figlio, come aveva intenzione di fare quel mattino, ma questa le sfuggì dalle mani. Cadde senza rumore sulla moquette che ricopriva il pavimento, e lei sospirò, chinandosi a prenderla. Così, con lo sguardo rasoterra, vide per caso una macchia bruna sul muro, appena al di sopra dello zoccolo. Si prolungava su di esso, notò, e probabilmente proseguiva sotto la moquette. Strano. Era tutto così pulito, a parte gli infissi bloccati delle finestre! Incuriosita, si avvicinò. Certo quella macchia era proprio brutta a vedersi, come uno schizzo di sangue. Piano piano, per non far danno, Genny la curiosa sollevò un poco la moquette. Com’era immaginabile, il pavimento originale era bellissimo, in ceramica probabilmente di Albissola, ma era anche irrimediabilmente rovinato. Le macchie brune erano grandi e numerose e, per portarle via, avevano soffregato probabilmente con polvere di pomice, e con tanta forza e determinazione da creare addirittura dei solchi rotatori sul pavimento. Le piastrelle antiche però avevano assorbito il liquido a fondo e probabilmente non era possibile cambiarle senza una grossa spesa, perché sarebbe stato necessario ordinarle espressamente in una bottega artigianale. Naturalmente, la moquette che mascherava il danno era dozzinale come i comodini, e come tutto ciò che in quell’albergo non era più d’epoca. Genny accese il portatile di suo figlio. Mandò qualche mail a colleghe e amiche e persino una al commissario. Non aveva voglia di telefonargli: temeva di sentire di nuovo le sue recriminazioni su quel suo essere andata in Italia senza aspettare che lui fosse in ferie. Aveva avuto un anno pesante: era tornata a scuola dopo tanti anni e adesso aveva solo voglia di quetare, come avrebbe detto la sua nonna ligure. Dopo quello che aveva visto sotto la moquette, però, la sua curiosità su quel posto si era accresciuta: aveva solo qualche nozione vaga del suo passato più recente, quello che ne aveva forse provocato la decadenza, e i ricordi, più sbiaditi di quelle inquietanti macchie sul pavimento, la stuzzicavano. La prima notizia, quella sullo Spettro dell’Albergo che faceva fuggire terrorizzati i turisti, la fece sorridere, ma non pensò affatto che fosse una cosa buffa. Anzi, le scale di quel palazzo erano infide, e lo erano ancor di più per gente terrorizzata e in fuga. Qualcuno era addirittura finito all’ospedale, e c’erano state perfino donne che avevano raccontato di aver sentito come una corrente fredda, prima di essere aggredite da qualcuno che non avevano neppure visto: lo Spettro! La seconda notizia che trovò era quella che stava cercando: Genny se la ricordava vagamente, quella storia. Si era alla metà degli anni ’80, e c’era stato il dirottamento di una nave passeggeri. Un marinaio era rimasto ferito, e un passeggero era stato ucciso. Le ripercussioni anche politiche erano state enormi. L’albergo, dopo quella crociera nel terrore, era stato prenotato proprio dagli armatori di quella famosa nave. Non trovò nulla, invece, sull’incidente che poteva essere avvenuto nella sua stanza. Il tempo passò in un lampo, e alla fine i ragazzi bussarono alla sua porta.

    Entrate, ragazzi! Cosa avete fatto di bello finora?

    Robert le mise le mani attorno alla vita, abbracciandola: Maman! esclamò. Vedessi! Siamo andati a passeggio qua sotto, in via Balbi, e c’era una breve scalinata che passava sotto un arco, e in tondo c’erano dei lavatoi antichi ma ben restaurati, bellissimi. Tutta la piazzetta era di mattoni pieni, sistemati in costa a spina di pesce, come giù di sotto.

    La madre sorrise di nuovo: E poi?

    "E poi, c’era un’affascinante libreria di viaggi, con un nome ancor più affascinante: Finisterre, pensa un po’! Abbiamo guardato dentro, ma sulla porta c’era un manifesto che parlava della presentazione di un

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1