Nonna raccontami…
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Daniela Conti Benassi recupera un patrimonio familiare i cui singoli episodi – la guerra, le difficili condizioni economiche del dopoguerra, la nascita di un fratellino, il Giuramento di un familiare, la malattia di un congiunto, lo svago con gli amici – ne riportano altrettanti simili alla memoria del lettore, vissuti o sentiti raccontare.
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Nonna raccontami… - Daniela Conti Benassi
Daniela
L’orologio del marito
La luna rossa splende come una palla infuocata, enorme, domina il cielo e rapisce lo sguardo.
Tutti col naso all’aria, tutti a bocca aperta, stupiti da tanta meraviglia; poi d’incanto accade qualcosa di straordinario, qualcosa mai accaduto, qualcosa di terrificante: la luna si fa sempre più grande, vicina e minacciosa, lo stupore iniziale si muta in paura, in folle terrore.
Un grido immane si leva dalla folla impazzita; improvvisamente si muta in un silenzio di ghiaccio: il mondo si è fermato, tutto è immobile, le persone sono solo statue nella luce rossa, con le braccia protese a coprirsi il capo e la bocca spalancata in un grido mortale.
Solo io riesco a muovermi, solo io sono viva. Mi scuoto, vigorosamente, dal torpore che mi lega, mi guardo intorno smarrita e mi chiedo cosa mai sia accaduto. Nel silenzio primordiale, il tic-tac dell’orologio, mi rianima, brilla al mio polso come una stella, pulsa di vita propria e mi invita a guardarlo, a parlargli, a usarlo; nella mia testa, la sua voce irrompe come un tuono: Ora sei padrona del tempo, e io sono la chiave magica che apre tutte le porte! Cado in terra, tramortita dalla sorpresa.
Dentro di me la voce continua: Non fare la stupida, il tempo vola, avanti o indietro! Deciditi, e usalo bene, il tuo tempo!
Allora penso: Se lo mando avanti, la luna cadrà, moriremo tutti! No! Non voglio saperlo, né vederlo quel momento, manderò il tempo indietro, e forse potrò aiutare qualcuno.
Giro cautamente le lancette, un lievissimo tic, l’orologio fa un salto indietro di anni, e io mi ritrovo a New York, è l’undici di settembre.
Un vento leggero allevia il caldo della Grande Mela, nelle prime ore del mattino la città che non dorme mai pulsa già di vita propria, come un immenso alveare. Milioni di persone in movimento, di tutte le razze e di tutti i colori, in una babele gioiosa di lingue, accomunati da un unico ideale: il sogno americano.
C’è un aeroplano, che volteggia sulla città, punta dritto sulle Twin Towers, odo il rumore raccapricciante, l’urlo di milioni di persone, vedo mia figlia correre coperta di polvere bianca, un fantasma tra tanti fantasmi che fuggono dalla tragedia…
No, questo è troppo orribile, non lo sopporto! Se posso controllare il tempo, allora sono un dio che può mutare le cose!
Ed ecco d’incanto l’aereo si risolleva, leggero come una piuma portata dal vento, schiva le torri, e si allontana nell’aria limpida, Vedo mia figlia sorridente, col vento nei capelli, camminare sulla Madison.
Intorno a me le statue umane, affollano la notte della luna rossa.
Signore Iddio che flash tremendo! Meno male che ho potuto cambiarlo! Però, forse, se provo a girare le lancette ancora, ma più piano, chissà…
Con le dita tremanti riprovo.
Bang!
Uno sparo, gente che urla, una macchina che sgomma impazzita, con una figura bianca e sanguinante accasciata sui sedili posteriori! Bambini, religiosi, vecchi, una miriade di persone che corrono e urlano. Voci concitate: Hanno sparato al Papa, hanno sparato al Papa!
Impotente assisto alla scena, poi ho un sussulto: No, questo proprio no, questo non deve accadere!
Sfioro l’orologio, ed ecco tutto è di nuovo cambiato. Intorno a me c’è aria di festa, tutto è gioia, la gente lo saluta e lui sorride e benedice la folla esultante.
Incominciano a piacermi i poteri di questo orologio magico che riesce a cambiare la storia, il suo tic-tac mi risuona dentro, tic-tac, tic-tac, un suono dolce rassicurante, come il battito di un cuore che ho tanto amato. Sembra che dica: Avanti avanti, non ti fermare, il tempo vola.
Quella voce mi invoglia a continuare quello strano viaggio, cric-cric, giro le lancette piano, anzi pianissimo…
Quanta gente c’è in piazza, tutti in attesa con un foglietto in mano, è il quindici agosto, aspettano l’estrazione della tombola! Chi ride, chi scherza, chi urla, chi fa battute sceme, chi spera nella fortuna, intanto i numeri cominciano a uscire sul grande tabellone, c’è un ragazzo sulla scala che li appende, qualche volta li attacca alla rovescia, ma un coro di urli segnala l’errore e lui rimette tutto a posto. Ne ho già attaccati diversi sulla mia cartellina, incominciano gli schiamazzi.
Ora sono più attenta, qualcuno dice: Sto per uno!
Anch’io!
risponde un’altra voce.
Il numero seguente è di nuovo mio. Stai a vedere che vinco qualcosa, dico fra me e me, ma sto zitta per scaramanzia. I mormorii alle mie spalle si susseguono, un brusio in continuo aumento. Qualcuno per fare il furbo urla: Fatta!
E di rimando, un altro risponde: Allora pulisciti!
E giù una marea di risate.
Venticinque!
strilla il banditore.
Ho vinto! Ho vinto io!
grido di gioia, e mi avvicino al palco per la conferma.
Il banditore controlla, annuisce. Tutto regolare, la vincita è pagabile! Cinquemila euro per la signora bionda!
Sfioro l’orologio, felice. Finalmente ho fermato il tempo nel momento giusto! Mi avvicino al palco per incassare la mia vincita.
Un rumore strano mi distrae, insistente, penetrante e noioso. Automaticamente allungo una mano per farlo cessare. All’improvviso tutto si ferma e tutto riprende vita. Non c’è più nessuno in piazza, anzi non c’è nessuna piazza: sono nel mio letto e la sveglia trilla insistente. Mi stiracchio sbadigliando: la luna rossa non è caduta sulla Terra! Dunque non ho cambiato gli eventi! Purtroppo le torri sono cadute, hanno sparato davvero al Papa, io non ho vinto niente, e per fortuna il mio orologio non è magico, ma è solo un caro ricordo.
Passaggio al fronte
Volevi sapere qualcosa della guerra, amore mio, eccoti servito: la guerra è una gran brutta cosa e nel secolo passato uomini pazzi e cattivi, ne scatenarono ben due in Europa, avrai certo sentito parlare delle guerre mondiali che ci sconvolsero nel secolo scorso, ma quella che ti racconterò, è una storia a lieto fine.
C’era una volta, in un paesino sul mare, una bella fanciulla, con gli occhi azzurri e lunghe trecce nere, era la seconda di quattro figli, tre sorelle e un fratellino rimasti orfani del padre in tenerissima età. Si chiamavano Vittoria, Giuseppina, Graziella e Enrico.
La madre, Lida, una ricamatrice di fino, che non aveva mai lavorato fuori casa, fu costretta dal bisogno a occuparsi in una grande fabbrica di soda; il lavoro era durissimo, cuciva le grosse balle di iuta che servivano per il trasporto del materiale, un tessuto ben diverso dai lini a cui era avvezza, ma non si lamentava mai, e cresceva le figlie e il bambino piccolo educandoli con amore e passione, nel ricordo del marito scomparso.
Un bel giorno, un giovane cugino di città, di nome Ugo, arrivò in paese, naturalmente passò a trovare la famiglia dei parenti. Era un bel giovane con folti capelli rossicci e una barbetta alla moschettiera, abbracciò e baciò la cugina, dette uno scappellotto amoroso al piccolino e poi vide le ragazze. Erano tre bellezze. Due con i capelli ricci e una con due trecce avvolte sulla testa a mo’ di corona, secondo l’usanza del tempo.
Fu un amore a prima vista, il signorino di città e la ragazza di campagna con le trecce sulla testa non si sarebbero più lasciati. Furono cinque anni felici, tanto durò il fidanzamento, chilometri di pedalate. Spinto dal desiderio, andava a trovarla ogni domenica, anni di baci rubati, di bigliettini, di sospiri in attesa delle nozze. Improvvisamente i