La prima Stella a destra
By Luce
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La prima Stella a destra - Luce
futura.
PROLOGO
TRADITA IN AMORE, IN AMICIA E IN
FAMIGLIA
Questo è probabilmente il titolo della mia vita, il mio pessimo romanzo del fallimento. E quando ho creduto che la giustizia ci avrebbe salvati, anche in quella circostanza ho peccato di innocenza. Tradita dalla giustizia: è stato il dolore che più mi ha fatto male.
Odio far sapere tutto di me, odio mettere in mostra la mia parte nascosta, le mie debolezze, il mio cuore rotto. Significa dare la possibilità a qualcuno di prendersi gioco di me ancora una volta, delle mie fragilità, della mia intimità. Mi sentirei violentata nel mio io, quello nascosto e mai in vista. Non mi piace immaginare che qualcuno inizi a pensare qualcosa sul mio conto, a dire il vero non mi piacciono proprio i pensieri. Adoro le maschere, probabilmente perché mi fanno sentire protetta, al sicuro. Anche se è tutto finto. Anche se sono stanca di fingere e indossare un volto che non sia il mio. Probabilmente, ho dimenticato anche chi sono quando i cocci del mio cuore cadevano per non fare più ritorno. Quei cocci fatti di persone che mi hanno abbandonata. Perché con il tempo ho compreso che a ferirti sono proprio le persone che hai voluto più bene. Perché con il tempo ho compreso che sono proprio queste persone a non aver capito la bellezza dell’amore: non si ama per ottenere un vantaggio da una persona e presto, in un tempo che appare inverosimile, la loro lealtà finirà quando non potranno più usarti, quando si disferanno di te come un abito fuori moda, senza comprendere che le persone non sono una moda da seguire ma un animo da difendere e proteggere. E quando ho riposto le mie speranze sull’unica strada a cui ho dato fiducia, anche lì ho fallito, ignorando che in giustizia esistono due tipi di verità: quella assoluta e quella relativa, il che è diverso.
Malgrado la giustizia mi abbia tradita, non curandosi degli occhi che chiedono aiuto e urlano verità, oggi sono qui, e sono pronta a raccontare la mia verità, affidandomi all’unica poetessa capace di racchiudere in una frase il senso di tutto. E ciò nonostante, credo che dentro quel buio troverò una via d’uscita
, Alda Merini.
Se così fosse, probabilmente la luce non è poi così lontana.
Capitolo I
DICIANNOVE MARZO
Avete presente il cartone animato Kiss Me Licia
? Ricordate la sua sigla, vero?
Un giorno di pioggia Andrea e Giuliano incontrano Licia per caso, poi Mirco finita la pioggia incontra e si scontra con Licia e così…Il dolce sorriso di Licia, nei loro pensieri ora c’è.
Beh...non c’entra assolutamente nulla con la storia che sto per raccontarvi…o forse sì!
Ora che ci penso, anche noi ci siamo incontrati appena cessò la pioggia. Strana casualità, come strano fu il nostro primo appuntamento…
«In una pizzeria?» - «Al cinema?» - «Forse ti porta a cena fuori!!» Furono le mille domande e supposizioni postemi da Rossana, Vittoria, Claudia, Anastasia e Titty.
«Ma no, ragazze, che dite! E’ impossibile!», rispondo loro.
«Allora, dove vi incontrerete?», chiese una curiosa Titty.
«All’ingresso della polizia.»
«Come, come? In un commissariato?!», enfatizzò Claudia, con volto sorpreso.
«Ora ho capito. Sarà forse il figlio di un poliziotto?», suppose Vittoria, tamburellando la guancia liscia con l’indice della sua mano.
«Sai che figata. Già ti vedo, la fidanzata di un poliziotto!», esclamò Rossana, davvero euforica.
«Comunque sia, tienici aggiornate, mi raccomando» concluse la saggia Anastasia, prima di salutarci tutte.
Il tutto terminò con una grossa grassa risata, tipica delle ragazze a quindici anni. Avete presente il film "Quattro amiche e un paio di jeans"? Eravamo proprio così con le ragazze, con alcune differenze, certo: sei amiche e un telefono. E non perché ci scambiassimo il cellulare proprio come nel film Tibby, Lena, Carmen e Bridget, le quattro amiche sedicenni, usavano scambiarsi quel particolare jeans, calzante in modo eccelle ad ognuna, ma perché non ci sfuggiva mai nulla. Sapevamo tutto l’una dell’altra, passando la maggior parte del tempo legate alla cornetta di un apparecchio telefonico. Avevamo tanto da raccontare, eppure erano sempre le solite storie: compiti, ragazze alla moda, i vip della scuola e ragazzi in generale, oltre alla solita frase: «Hai visto i capelli della Prof. oggi? Dovremmo comprarle una piastra», burlandoci spesso di lei.
Era il giorno della festa del papà, il giorno che mi avrebbe cambiato la vita per sempre. E io ancora non lo sapevo. Quel pomeriggio pioveva a dirotto, sembrava non volesse terminare mai.
Ma che sto facendo? Mi sto recando ad un appuntamento con una persona che nemmeno conosco. E se fosse un truffatore? Altro che figlio di un poliziotto! No, non può essere...non mi avrebbe chiesto, altrimenti, di vederci all’ingresso della polizia.
Vibra il telefono. Un sms.
Ti penso sempre, non è ancora finita.
Avrei dovuto lasciar perdere il cellulare per una volta. È ancora lui e proprio non vuole smetterla. Ma sì, ci vado all’appuntamento. Tanto peggio di Leo non c’è nessuno! Però, forse, sto sbagliando, forse dovrei dargli un’altra possibilità, forse…
Intanto, con i mille pensieri che mi avevano accompagnata durante il tragitto, ero giunta presso la polizia. Non c’era nessuno.
Ecco, iniziamo bene. Ma non dovrebbero essere le donne a far attendere gli uomini? E adesso, che faccio? Chiamo lei, Anastasia.
Tra le sei, era l’unica in grado di trasmettermi completa fiducia.
«Anna», la chiamavo così, «sono alla polizia ma lui non c’è, non è ancora arrivato.»
«Vedi, Michelle, questo è un segno. Torna a casa, sai benissimo come la penso. Non puoi incontrare uno sconosciuto conosciuto
su Facebook. Non sai nulla di lui.» La immaginavo disegnare virgolette con le dita per la parola conosciuto.
Anastasia era la più prudente e la più seria delle sei. Aveva solo quindici anni ma ragionava come una donna di quarant’anni, ed è stato merito della sua misura se mi sono da subito fidata di lei.
«Anna, credo sia arrivato! Ti aggiorno appena finisco», le comunico notando un passante.
«Ok, ma stai attenta», mi disse con la solita voce preoccupata.
«Puoi stare tranquilla. A dopo», cercai di rasserenarla.
Solo quando riagganciai il telefono mi accorsi che non era lui.
Uffa! E adesso che faccio?! Non posso chiamarla di nuovo! Chiamo le altre...sì, ma chi ?! No dai, meglio di no. Mi guardo intorno e non c’è ancora nessuno. Nessun passante, nemmeno una vettura scodinzolante per le strade deserte di un primo pomeriggio quasi primaverile.
Decisi di fare un giro del palazzo, poi sarei andata via. Ero quasi arrivata, ritornata direi. Mi fermai alla traversa precedente: di lì si scorgeva benissimo la polizia. Era alla mia destra, di fronte ai miei occhi. Vibrò il telefono in quel momento e riconobbi sin da subito il ritmo di un nuovo messaggio. Guardai il display, trovando due sms non letti. Era Leo, ancora. Sbuffo infastidita, alzo gli occhi e mi assale il ricordo dell’appuntamento. A quell’incontro che mi avrebbe cambiato la vita per sempre. E senza immaginarlo o aggiungerlo nella lista dei desideri, che me l’avrebbe ridata, quella vita strappata. Giro lo sguardo verso destra, era lui…anche perché era l’unico presente in quel momento. Non c’era nessun altro, proprio come i miei battiti in fibrillazione che, in combutta tra loro, decisero di arrestare il cuore per un’istante. Decido di non muovermi di lì, considerando il suo ritardo di ben venti minuti. Non si fanno attendere le donzelle, non credete?!
Consapevole di essere nel torto, è lui ad attraversare verso di me.
Appena ebbi modo di vederlo negli occhi, di persona, esclamo subito un freddo «Ma sei tu?». Ragazze, non potete capire che delusione. Il bono da paura visto su Facebook era in realtà un brutto anatroccolo e, a dirla tutta, non era nemmeno figlio di un poliziotto, come aveva fantasticato la mia amica sognatrice. #maiunagioia. Oggi, però, posso dirvi che, come nelle migliori favole, anche il brutto anatroccolo
può trasformarsi nel principe migliore, l’unico principe adatto a noi.
«Piacere, Fabrizio.» Si presentò con una determinazione mai incontrata prima. Con una voce melodica che ancora mi sconvolge la ragione.
«Piacere, Michelle.» Voglio sparire, anzi no…è meglio che sparisca lui! Continuavo a pensare.
«Hai fatto tardi» mi dice, sorridendomi.
Alzo il sopracciglio destro dal nervoso e con un sorriso a trentadue denti gli rispondo: «Sì, scusami, ho tardato a causa della pioggia. » Ah, pure! Ma se per aspettarti ho dovuto persino fare il giro del palazzo! Avrei dovuto urlargli esattamente queste parole.
«Seguimi, ti porto nel mio studio», mi disse con una certa nonchalance e senza perdere molto tempo con giri di parole.
«E dov’è?», domandai stranita e quasi sospettosa. Non che avessi avuto tanti primi appuntamenti prima di lui, a dire il vero solo uno, ma nemmeno Leo mi ha mai proposto una cosa simile. Leo…un metro di paragone davvero pessimo.
«A casa mia», rispose sicuro.
«Come a casa tua?» le mie paure aumentarono a vista d’occhio e le parole di Anastasia con tutte quelle raccomandazioni tornarono presto a bussare alla mia mente, quasi per far un passo indietro.
«Sì, a casa mia. Puoi stare tranquilla, non verrà nessuno» mi disse, intuendo il mio disagio.
O mio Dio, ma chi è questo, cosa vuole da me!? Pensai al guaio in cui stavo per cacciarmi ma non provavo vero turbamento. I suoi occhi, in una maniera che ancora fatico a riconoscere, mi tranquillizzavano.
A un certo punto avverto una mano pesante sulla mia spalla, una mano abbastanza ingombrante direi. Era lui che provava ad abbracciarmi. Oggi, a distanza di molti anni, associo quel gesto alla mano di un angelo posata sulla mia spalla. Un angelo che da quel momento in poi mi avrebbe protetta su tutta la mia strada.
«Che fai?» domandai infastidita, indicando con lo sguardo la sua mano.
«Ti abbraccio, non posso?», mi sorrise. In quel momento mi imbarazzai, eppure non ero solita e facile agli imbarazzi, piuttosto rigida alle emozioni.
Eravamo arrivati a casa sua, dopo aver assunto una dose di coraggio, quando fortunatamente compresi che il suo studio era al piano inferiore al suo appartamento. Ero impacciata e tutto mi sembrava strano, iniziando dal suo viso che aveva una forma totalmente bizzarra. Le sopracciglia troppo spesse e molto folte, delle ciglia lunghissime, persino più lunghe delle mie dopo aver messo il mascara.
«Questo è il tuo nascondiglio?», chiesi curiosando, mentre osservavo le pareti color canarino.
«Si e no. Comunque sia, qui vengo per dormire e per non essere visto da mamma.»
«Visto in che senso?»
«Lei crede che studio, invece dormo ore intere». Mi sorrise nuovamente e io non riuscì a controllare le mie risa, davvero divertita.
Quel suo sorriso mi imbarazzava terribilmente, eppure ero così sfacciata in quagli anni che perfino io stentavo a crederci di fronte a un disagio simile. Avete presente quella sensazione di benessere, quella che avvertite quando siete in compagnia di una persona che si conosce da tempo? Vi è mai capitata di provarla con uno sconosciuto?! Mi accade esattamente questo quella sera, quella sensazione di benessere quasi dimenticata. Ero, stranamente, totalmente a mio agio con il neo diciottenne. Tre ore, tre bellissime ore dedicate al sorriso, ai sogghigni, quelli di gusto che ti provocano dolore allo stomaco e lacrime agli occhi, quelli di quando non serve essere ubriaco per sentirsi felice davvero, e ridere così entusiasticamente.
«La tua ultima storia?», chiesi, dopo aver parlato ore di scuola, compiti e interrogazioni varie.
«Ultima, ultima?», chiese anche lui.
«Sì, certo.»
«Risale a Dicembre. E la tua invece?» Mi parve improvvisamente triste. Ebbi la sensazione che in quel Dicembre avesse detto addio a qualcuno di troppo importante.
«A qualche giorno fa» rispondo, questa volta ostacolata.
Credeva che la mia fosse una battuta. Rise, quasi divertito.
«Perché ridi?», domandai, curiosa di capire se avesse o meno creduto alla mia risposta.
«Perché sei bella.»
Arrossì. «Per un momento ho creduto che non avessi creduto ai due giorni! Scusa il giro di parole, ma quando mi agito inizio a farfugliare e non capisco nemmeno io cosa stia dicendo. Ok, sto zitta, altrimenti non la finisco più», rido per mascherare la mia agitazione.
«Ah, quindi non scherzavi?», pretese di sapere, con un volto sconcertato.
«No, no… è tutto vero.» Mi sistemai meglio sul divano. Avevo avvertito il suo stato di inquietudine.
«E allora perché sei qui?» Mi chiede infastidito, alzandosi dal divano, sul quale era seduto al mio fianco.
«Ma come? Sei stato tu a chiedermi di incontrarci!»
«Si, ma non pensavo tu fossi impegnata!»
«Guarda, ti ripeto che sono single. E’ vero, due giorni possono sembrarti pochi, lo sono in realtà, però credimi è da diverso tempo che ci siamo lasciati, poi è subentrata la pausa e infine la rottura definitiva, avvenuta qualche giorno fa. Ma di fatto non stiamo più insieme da tempo, sei libero di non credermi e poi…non sono tenuta a darti tutte queste spiegazioni», inizio ad alterarmi. Non mi è piaciuto dare spiegazioni alla gente sulla mia vita personale, specie in quel periodo, specie se ad uno sconosciuto. Specie a quel tipo sconosciuto, conosciuto sui social, che non mi ha ancora restituito il cuore.
«Sei sicura?» Prova a riavvicinarsi al divano.
«Certo, te lo sto dicendo! Vorresti saperlo meglio di me?»
Cambiò discorso in maniera celere. Evidentemente il mio fastidio intimorì anche lui. Tuttavia, non esitò nel chiedermi «Perché vi siete lasciati?»
«Scusami ma preferisco non dirtelo.»
Nel bel mezzo di una prima discussione-primo chiarimento al nostro primo appuntamento, avverto un rumore; era uno scricchiolio di una porta. Precisamente? Suo padre.
«Buonasera», disse un signore molto alto e abbronzatissimo. Lui dovrebbe essere il famoso poliziotto della fantasia di Vittoria?
«Buonasera», risposi timidamente.
«Che state facendo?» suo padre interpellò Fabrizio.
«Studiamo, papà», gli rispose, mascherando l’imbarazzo, specie perché non c’era nessun libro sulla scrivania.
«Bene, impegnatevi. Prendo un documento e vado via.»
«Arrivederci», reciprocamente salutammo.
«Scusa, ma non avevi detto che non sarebbe venuto nessuno? Che vergogna, mamma mia», rimproverai Fabrizio, una volta rimasti soli.
«Giuro che non è mai venuto.» Perfetto, capì con il tempo che l’adorabile Fabrizio quando utilizza la parola giuro
mente spudoratamente.
Guardo l’ora. «Oddio si è fatto tardi, devo proprio andare», esclamo con timore di ricevere un rimprovero dai miei genitori, piuttosto severi sull’orario da rispettare.
«Va bene, allora ti accompagno.» Si sollevò d’improvviso dal divano, con una reazione simile a quella avuta durante l’ingresso di suo padre.
«No, non serve. Vado da sola.» Ero abituata a questo, all’essere soli. Specie in quel periodo nero.
«Dai, non farti pregare. Almeno stiamo un po’ di tempo assieme», mi supplicò con faccino tenero, a cui è difficile dire un no
come risposta.
«Come vuoi, però sbrighiamoci» conclusi, prendendo la mia giacca dalla sedia posta vicino alla poltrona.
Nel tragitto ricomincia a piovere. «Dai, accelera, altrimenti ci bagnamo», gli dissi, aumentando la velocità. Abitavamo a trenta minuti di distanza ma il tempo trascorse in meno di cinque minuti.
«Ecco, siamo arrivati. Io abito lì.» Feci segno con la mano verso casa mia.
«Ok, ti accompagno fin sotto casa.» Ci eravamo fermati ad un isolato prima.
«Preferisco che ci fermiamo qui, così può bastare, grazie.» gli sorrisi timidamente, fermandolo dal braccio.
«Come vuoi. Allora, quando ci rivediamo?» Mi chiese, sicuro delle parole usate, con un sorriso radioso, più luminoso delle stelle che iniziavano ad ornare il cielo sopra di noi.
«Non penso che ci rivedremo. Perché dovremmo vederci di nuovo?» Ero certa di quel pensiero. Il mio inconscio mi suggeriva che quel ragazzo non