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A Yvan,
A mia mamma
e agli amici
Premessa : La diversità
1. FAMIGLIA E HANDICAP
1.1 I numeri dell’handicap
1.2 La famiglia
1.3 L’approccio psicodinamico
1.4 L’approccio evolutivo
1.5 Le relazioni precoci e l’handicap
2. PROBLEMI GENERALI
2.1 Il trauma originario e la scoperta dell’handicap
2.2 Le dinamiche familiari
2.3 I fratelli
2.4 L’iperprotezione
2.5 L’impossibilità di essere aiutati
2.6 L’isolamento sociale
2.7 Il punto di vista del figlio disabile
4. PROPOSTE OPERATIVE
La diversità
La diversità, tema oggi quanto mai attuale. Siamo infatti in una fase della nostra vita,
in cui la diversità sta assumendo un significato del tutto nuovo rispetto a quello che
aveva nel passato.
La diversità nasce con il bambino. C’è tanta gioia quando arriva un bambino in una
coppia, ma c’è anche tanta responsabilità nel pensare e nel trovare le modalità
precise per educarlo, per farlo crescere e per far sì che trovi il suo spazio nella vita di
oggi, che ha tante più risorse, ma che è sicuramente molto più complicata della vita
di venti o trenta anni fa.
E’ importante parlare della diversità perché tutti l’abbiamo vicina, tutti la conosciamo,
tutti sappiamo che esiste e che la diversità non è solo quella del soggetto disabile.
La diversità fa parte della nostra vita: sono diversi gli uomini dalle donne, gli anziani
dai giovani, i nonni dai genitori, i genitori dagli zii; eppure questa diversità ci suscita
sempre meraviglia perché non riconosciamo la diversità come una realtà che vive
con noi né tanto meno riusciamo a cogliere la sua entità, non dico di ricchezza, ma di
stimolo. Se noi riuscissimo a pensare quanto sarebbe noiosa e impossibile una vita
fatta di persone tutte uguali, riusciremmo anche ad apprezzare che questo continuo
confronto con chi non è come noi ci carica, ci impegna, ci stimola ad essere capaci di
ritrovare il punto di raccordo fra le diverse modalità di comunicare che hanno ad
esempio l’uomo e la donna, l’anziano e il giovane e così via. Tutto questo richiede, al
fine di recuperare l’armonia , lo sforzo di fare un po’ di riflessione.
Le aspettative che i genitori hanno sono aspettative figlie della società dei nostri
giorni. Noi siamo parte della società e di questa società assorbiamo i valori e i valori
presenti nella società contemporanea sono soprattutto quelli dell’efficentismo, del
successo, del denaro, del potere. Più che all’essere si è attenti all’avere.
Tutto quello che non è in linea con queste aspirazioni, che non è vincente, viene
considerato un fallimento e si cerca di rimuoverlo, mimetizzarlo. Non si vogliono
vedere limiti, problemi, handicap.
Quando nasce un bambino “normale” nella famiglia si riescono a creare equilibri,
abbastanza rassicuranti: anche se il bambino che nasce non è proprio il bambino
ideale, un genitore ha sempre la possibilità di trovare un sistema educativo per
“raddrizzarlo”, o almeno così spera.
Ma quando c’è una vera diversità, un qualcosa che non era previsto, un bambino con
una diagnosi chiara o che si chiarisce nel tempo, qualsiasi tipo di progetto viene
sconvolto e il tempo è come se si rovesciasse, non si riesce più a prevedere un dopo
chiaro. Ecco perché le domande del genitore agli specialisti, agli altri genitori, a
chiunque possa dare una risposta, sono così assillanti, tanto più assillanti quanto
meno è facile intravedere le risposte.
Questo bambino scombina allora l’armonia che si è creata a volte con fatica, proprio
perché si colloca al di fuori del tempo, non percorre più quei ritmi che sono previsti
per tutti ( asilo nido, scuola d’Infanzia, primaria, secondaria e poi magari l’università).
Se tutto si concentra troppo, come attenzione, come cura, come preoccupazione,
come essere sempre attorno a questo bambino, gli altri si sentono soli.
Allora scattano tutti quei sensi di colpa di chi non riesce più gestire il problema:
sembra di non aver fatto abbastanza, ci si sente in colpa per gli altri figli, si teme di
trascurare il partner. Ma il senso di colpa non ce l’hanno solo i genitori e soprattutto
la madre; ce l’hanno anche gli altri, i nonni, i parenti, gli amici, perché non sanno
cosa fare, perché vorrebbero fare ma non riescono.
La famiglia a questo punto è a un bivio: o si rende conto di non potercela fare da sola
ad affrontare il problema e quindi chiede aiuto e così recupera la ricchezza di quella
famiglia che ha alle spalle, e recupera i nonni, i vicini di casa, gli altri figli, o si
concentra attorno al problema e si destina alla perdita di fiducia e alla solitudine.
E' il proporre l'integrazione della diversità e della disabilità come una risorsa che darà
senso alla scuola, all'educazione e soprattutto all'intervento della famiglia.
Per comprendere meglio questo concetto, è utile e significativo il paragone con
l’energia, che per essere sfruttata ha sempre bisogno di differenze: differenze di
quota e di potenziale; le differenze di quota, determinano i salti d'acqua, le differenze
di potenziale determinano le scariche elettriche.
Queste differenze di potenziale se non vengono utilizzate, umanizzate, se non
vengono proposte in termini sociali possono essere pericolose e fare paura.
Se invece vengono umanizzate, utilizzate, vengono poste al servizio dell'uomo,
diventano una grande fonte di energia, per cui la scarica elettrica si trasforma in
energia elettrica utilizzabile. La differenza di potenziale, diventa possibilità per
riproporre nuove energie all'educazione così come l'handicap va culturalmente
proposto come diversità, come uno dei grandi propulsori, uno dei momenti
significativi per l'educazione del terzo millennio.
Il dromedario e il cammello
di Gianni Rodari
Questo brano ci aiuta a comprendere come spesso la diversità non viene accolta
perché si tende a rifiutare tutto ciò che è diverso da noi, a volte non per una
questione di intolleranza o di chiusura mentale, ma per la paura e l’insicurezza che
deriva dalla non conoscenza. Sono convinta infatti, che si può diffondere la cultura
della diversità, donando alle persone un nuovo paio di occhiali che li aiuti a leggere
la ricchezza che viene dalla diversità.
1. LA FAMIGLIA E L’HANDICAP
Ogni figlio per i genitori è fonte di gioia, non solo perché è la rappresentazione
concreta della loro unione, ma perché egli rappresenta un loro “frutto” ovvero la
manifestazione, in un certo qual modo, della loro capacità di generare la vita.
Fusione e rispecchiamento sono la base attraverso la quale il bambino si riconosce e
riconosce l’altro diverso da Sé. Il neonato non è ancora capace di far fronte alle
nuova realtà che incontra, ha bisogno dello “scudo protettivo” della madre.
Questa fase è quindi tutta permeata sia dalla capacità biologica e psichica del
bambino di rispondere alle diverse richieste, sia dalla capacità della madre di
accogliere-accettare questo bambino specifico. Tutto questo influenza la diade
madre-figlio; il figlio può essere vissuto come compensatore della delusione vissuta
nell’ambito coniugale oppure come intruso qualora la madre sia in difficoltà a vivere il
suo nuovo compito, perché ancora troppo investita del suo ruolo di figlia.
Se questi rischi sono sempre presenti con la nascita di un figlio, essi vengono
sicuramente amplificati se il bambino nato è un bambino diversamente abile.
Una madre ha difficoltà ad identificarsi quando il bambino è portatore di handicap.
A questo punto è molto breve il passo verso il rifiuto di questo nascituro e questo è
tanto più vero quanto più la madre non ha maturato i suoi compiti evolutivi per se
stessa, ovvero quando ci sono ancora conflitti sia intrapsichici che relazionali non
risolti. La nascita di un figlio diversamente abile, mette un dito sulle ferite ancora da
rimarginare, poiché il figlio nato non corrisponde alle aspettative e alle fantasie via
via alimentate.
Il rifiuto di un bambino diversamente abile in genere non è palese con abbandoni
concreti. Spesso il meccanismo di rifiuto è nascosto e confuso.
Winnicott, sempre per quanto riguarda il ruolo materno, parla della “madre
sufficientemente buona”, ovvero di colei che è capace di cure, ma anche di
permettere al piccolo di tollerare le frustrazioni che nella quotidianità si presentano.
Questa esperienza quindi non riguarda solo la fase della fusione, ma diventa
fondante anche l’esperienza della separazione, sempre a piccole dosi, dove il
bambino, cogliendo il non-sé, si apre al mondo circostante. Anche qui il ruolo della
madre è fondamentale poiché permette al bambino di “allontanarsi” da lei stessa, ma
anche di saperlo accogliere quando è bisognoso di “ritornarvi”.
A questo punto è facile chiedersi quanta difficoltà incontra una madre di un figlio
diversamente abile anche nella fase della separazione. Come può incoraggiare la
sua “separazione” se non è riuscita a rispecchiarsi e quindi ad identificarsi in lui?
E’ chiaro che queste difficoltà vissute sia nella fase della simbiosi che della
separazione, vanno a coinvolgere la costruzione dell’identità del figlio e a bloccargli
la possibilità di autonomia con tutte le difficoltà psicologiche e mentali che questo
comporterà, per il figlio prima di tutto, per la madre e il nucleo familiare poi.
Finora abbiamo messo in risalto la figura materna, non per escludere o sottovalutare
il padre, ma per rilevare quanta distorsione ci sia nei rapporti e nello sviluppo di un
figlio con handicap, dovuta alle inevitabili implicanze nella relazione primaria.
La prima vera relazione con il padre compendia la separazione dalla madre; è una
triade che si sostituisce alla diade madre-figlio. Per questo il ruolo paterno è di vitale
importanza perché favorisce quel “salto” che altrimenti madre e figlio non sarebbero
in grado di fare da soli.
Questa esperienza di crescita e di cambiamento è molto faticosa quando il figlio è
diversamente abile.
Per un padre è molto difficile entrare in quella diade per aprirla.
Con un figlio diversamente abile il padre deve fare i conti con i suoi sensi di
insuccesso, di fallimento, di menomazione della sua mascolinità e qui è facile che
avvenga una delega totale a carico della madre .
2. PROBLEMI GENERALI
Dopo la prima fase di shock, la presenza del bambino con handicap produce una
ristrutturazione delle relazioni familiari.
La madre assume l’impegno assistenziale in senso totale e talvolta ossessivo :la
rinuncia al lavoro è costante. Finché il bambino è piccolo le attività di cura sono
vissute come reali e normali, in seguito interviene una presa di coscienza di anomalie
fisiche, psichiche e comportamentali per cui i bisogni del figlio diventano
l’esteriorizzazione del suo stato patologico e quindi di una situazione fortemente
negativa: allo sviluppo fisico non segue quello della personalità e dell’autonomia.
Questa constatazione rafforza e prolunga la fase della dipendenza del figlio, anche
oltre i suoi bisogni oggettivi.
Il comportamento del padre oscilla fra tentativi di “fuga” (soprattutto attraverso la
ricerca di gratificazioni professionali), atteggiamenti di “rivendicazione” sociale e
culturale o posizioni di passività e di distacco (“padre assente”).
Le comunicazioni fra i genitori sono soprattutto centrate sui problemi dell’handicap e
si determina un’attenuazione o rimozione dell’affettività e della sessualità nella
coppia.
Un altro dato costante è una sorta di “immobilizzazione del tempo”. Tutti gli educatori
di handicappati adulti descrivono famiglie che vivono il rapporto coi figli come se
fossero bambini piccoli. La famiglia sembra bloccata sul trauma originario,
drammaticamente chiusa sulla sua sventura; il tempo si è fermato e nell’incoscio il
figlio è un eterno bambino. Anche dal punto di vista dei “cicli di vita” non si verifica
nessun distacco e non si conclude il processo di “separazione-individuazione”.
2.3 I fratelli
Per tutti gli anni ‘70 gli studi clinici sui fratelli e sorelle di disabili, hanno individuato
rischi di disadattamento e di sofferenza psicologica.
Gli effetti negativi sarebbero di tipo comportamentale (aggressività, impulsività,
ipercinesia) e di tipo nevrotico; le cause sono state attribuite alla mancanza di cure
parentali, dovute alla maggiore attenzione per il fratello handicappato e alle richieste
precoci di crescita e di collaborazione per l’assistenza.
Non sono solo i genitori a soffrire per i problemi familiari, ma anche i figli che
vengono coinvolti.
Se il bambino diversamente abile è il minore, il fratello più grande non si rende conto
fino in fondo cosa comporti l’handicap, cosa voglia dire avere un fratello
svantaggiato; avverte fino in fondo però, che la nascita di quel fratello ha creato
problemi per la famiglia. Il nuovo componente ha in qualche modo focalizzato su di
sé l’attenzione dei genitori.
Il fratello può sentirsi trascurato, può soffrire perché vede il dolore del papà e della
mamma. Egli può credere, a torto o a ragione, che il suo compito è essenzialmente
di consolare i genitori e di rassicurarli che in un futuro si faranno carico di questa
situazione e può quindi non sentirsi amato per se stesso.
Quando il bambino diversamente abile è il più grande, il fratello più piccolo non si
rende subito conto del problema. Se ne renderà conto più tardi nel momento in cui
avrà la possibilità di confrontarsi con altre realtà esterne alla famiglia.
Il bambino può sentire confusamente che i suoi progressi fanno male ai genitori
perché mettono in evidenza la lentezza dei progressi del fratello maggiore, al quale
spesso è paragonato. Il bambino coglie la sofferenza dei genitori senza essere in
grado di leggerla in modo corretto; questo può togliere la gioia che qualsiasi essere
umano ha diritto di provare, davanti ad un passo in avanti che è riuscito a compiere.
Ogni bambino ha bisogno del sostegno rassicurante e tenero dei genitori: ciò implica
che i genitori stessi sappiano evitare di opprimere i figli con la propria sofferenza.
Per i genitori il figlio normale, se è nato prima di quello handicappato deve
“responsabilizzarsi”, se è nato dopo deve riparare la ferita narcisistica che è stata
subita e prepararsi a sostituirli nei compiti di custodia e di assistenza.
E’ evidente che la presenza di un fratello disabile richiede azioni di consulenza e
sostegno psicologico e particolare attenzione da parte dei genitori.
2.4 L’iperprotezione
Il figlio handicappato è preso in carico dalla famiglia, salvo i periodi di delega alle
istituzioni scolastiche o ai centri diurni; tuttavia questo appoggio è vissuto come
anonimo, collusivo e talvolta persecutorio.
Quando la richiesta di aiuto è rivolta a parenti, amici o altre figure importanti, ciò
rappresenta per la famiglia il riconoscimento di una sorta di propria incapacità o
inadeguatezza nei confronti dei bisogni del figlio (per questo si lamenta la mancanza
di offerta di aiuto e nello stesso tempo si rifiuta qualsiasi possibilità di ottenerlo).
Il vero pericolo è quello di limitarsi a vivere solo in una dimensione privata, rifiutando
l’esterno e il confronto con gli altri, “…sto a casa mia, mi gestisco il mio problema e
non voglio avere nulla da spartire con nessuno”. Questa frattura con il mondo
esterno può portare ad un vero e proprio risentimento contro il mondo colpevole di
non fare abbastanza, oppure di essere troppo insensibile al problema dell’handicap.
Un aspetto particolare di questo tema è costituito dalle modalità con cui spesso si
svolgono gli interventi terapeutici, educativi e riabilitativi, che spesso vengono
comunicati e scelti con le famiglie e quindi sono vissuti come intrusivi e conflittuali,
ulteriori fonti di stress.
La prima legge che prevede l'inserimento e degli alunni portatori di handicap nelle
classi comuni entra in vigore nel 1971. Si ribadisce il diritto di studio, liberalizzando
la frequenza delle classi normali per la scuola elementare, senza abolire le classi
speciali. La legge n. 517 del 1977, agli articoli 2 e 7, definisce come devono essere
attrezzate le classi con soggetti portatori di handicap e che devono essere provviste
di insegnanti di sostegno. La legge n. 270 del 1982 definisce il ruolo amministrativo
dell'insegnante di sostegno e attribuisce alle scuole materne con soggetti
handicappati le attrezzature necessarie all'inserimento. L’inserimento e
l’integrazione sono prioritari per il recupero; il soggetto handicappato quindi può
ottenere dei benefici proprio dall’inserimento stesso, perché i modelli a cui si rifà
all’interno di una classe creano la motivazione per superare i suoi stessi limiti.
Grosso impulso all'integrazione dei portatori di handicap è stato dato dalla legge
nazionale n. 104 del 1992 “Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i
diritti delle persone handicappate”.
Le principali azioni promosse dalla legge 104 sono:
La legge quadro per l’handicap ribadisce l’importanza dei genitori nel percorso
dell’integrazione. La famiglia è titolare della richiesta di certificazione ed è presente
nei gruppi di lavoro sul singolo studente; è titolare di diritti perché autrice di
educazione e ricca di competenze guadagnate nel corso dell’itinerario fornito del
figlio.
Nell’ambito della pedagogia dei genitori si è proposto di affiancare alla diagnosi nel
percorso ufficiale di integrazione, la presentazione del figlio: un adempimento in
sintonia con le indicazioni legislative sulla dignità pedagogica delle scelte della
famiglia. Caratteristiche delle presentazioni dei genitori è dare continuità ad un
itinerario che viene spezzettato tra le varie agenzie che si occupano del figlio e nel
passaggio tra i vari ordini di scuola.
I genitori sono titolari dell’educazione e delle scelte che compiono nell’interesse del
figlio, lo conoscono intimamente e sono testimoni del tempo famiglia trascorso al di
fuori dell’impegno scolastico. Alla diagnosi e al profilo proposto dai genitori, si
affianca la relazione osservativa della scuola; si integra in questo modo la rete tra le
agenzie che contribuiscono alla crescita della personalità dell’allievo, ciascuna con le
sue competenze e specificità.
La metodologia è quella della pedagogia dei genitori: in primo piano la persona con
nome e cognome, la sua personalità e le sue capacità. Poi le difficoltà e le strategie
per superarle, praticabili da tutti. La presentazione fornisce ai docenti, ai compagni,
alle altre famiglie e agli esperti, i mezzi per interagire con il bambino diversamente
abile. E’ la base per un patto educativo nel quale le reciproche competenze di
genitori e professionisti si alleano nell’interesse della persona diversabile.
Il primo inserimento del minore portatore di handicap nel circuito scolastico inizia
nella fascia 0-6 anni quando negli asili nido e nelle scuole materne è già possibile
iniziare un intervento socio terapeutico precoce con l’assistenza di un insegnante
d’appoggio. Nella fascia scolastica della scuola primaria e secondaria, è necessario
uno stretto coordinamento tra gli organi scolastici, i Servizi Sociali Territoriali e l’Unità
Sanitaria Locale per garantire ad ogni singolo minore l’aiuto adeguato innanzitutto ai
fini della socializzazione e dell’autonomia necessaria per il raggiungimento del
risultato scolastico possibile e ai fini dell’organizzazione della fruizione del tempo
libero extra scolastico. I genitori quindi devono rapportarsi alla scuola come ad una
importante ma non unica agenzia formativa, con cui effettivamente collaborare alla
pari, senza comode e superficiali deleghe, perché il bambino possa realizzare due
obiettivi principali, quali l’imparare e il socializzare.
Insegnare ai bambini con handicap è alquanto diverso dall'insegnare ad una classe
perchè non ci sono percorsi prestabiliti validi per tutti. Nell'universo dell'handicap ogni
ragazzo è un pianeta diverso da qualsiasi altro; per poter intervenire bisogna innanzi
tutto scoprire le leggi che lo regolano, capirne i meccanismi di relazione, di
apprendimento, vedere a che stadio di evoluzione è giunto, stabilendo un rapporto
che permetta, insieme, di superare gli ostacoli, graduare i passaggi troppo impervi e
scoprire l'avventura dell'imparare a fare cose nuove.
3. SOSTEGNO ALLA GENITORIALITA’
Quando i genitori ricevono la notizia relativa al fatto che il loro bambino è portatore di
handicap, si trovano ad affrontare un momento emotivo di particolare angoscia e
confusione. Fin da subito questi genitori avrebbero bisogno di essere sostenuti.
Il sostegno psicologico può essere importantissimo anche per le dinamiche che si
possono scatenare all’interno della coppia. Se vi sono delle dinamiche relazionali
“non sane” latenti nella coppia, di fronte al figlio vissuto come problema, queste si
scatenano.
La nascita del bambino può diventare l’occasione perché la coppia inizi un percorso
di crescita grazie all’intervento terapeutico. Il sostegno psicologico, importante per le
dinamiche di coppia, è fondamentale naturalmente anche nella relazione
madre/bambino.
Fin da subito, alla famiglia del bambino disabile, si prospettano problemi di varia
natura:
• problemi di natura medica: spesso infatti alla condizione di disabilità possono
essere associate difficoltà respiratorie, problemi neurologici, cardiaci o altro;
• problemi di natura assistenziale, che vanno dai problemi connessi alla cura
della persona a quelli, per esempio, legati ai trasporti;
• problemi legati alla riabilitazione;
• problemi educativi.
Perché il contesto familiare possa al meglio accettarsi e riorganizzarsi dopo la
nascita di un figlio diversamente abile c’è bisogno di un immediato sostegno da parte
di professionisti e operatori, non tanto solo esperti di problematiche legate
all’handicap, ma soprattutto formati al sostegno e alla formazione permanente di una
coppia che si avvia a dover affrontare, con un maggior numero di ostacoli rispetto ad
altre, le tappe del ciclo vitale della propria famiglia.
La nascita di un figlio che presenta un deficit ha un impatto enorme sui genitori e su
tutto il sistema familiare.
Gli effetti di questo impatto sono imprevedibili e molto dipenderà:
• dal tipo di disabilità del bambino;
• dalla capacità dei genitori di rinunciare al bambino immaginato perfetto e di
affrontare un processo di “lutto”;
• dalla capacità dei genitori di adattarsi al bambino e al suo problema, per poter
vivere con lui prestandogli tutte le cure, affettive e materiali di cui ha bisogno.
“Un figlio disabile non vuol dire una famiglia disabile” : non necessariamente deve
rappresentare anche un limite per l’evoluzione positiva della famiglia ed è quindi
importante sostenere il nucleo familiare e la sua rete, affinché ciò non accada.
Se crediamo alla famiglia come prima risorsa, pensiamo sia prioritario progettare
interventi finalizzati:
• alla normalizzazione dell’esperienza dei genitori con un figlio con disabilità;
• ad aumentare il loro senso di competenza
• a valorizzare le loro capacità di adattamento;
• al sostegno reciproco dei coniugi;
• al ricorso al sostegno da parte di membri della famiglia allargata;
• all’utilizzo di risorse alternative.
Per aiutare e dare un supporto alle famiglie, si evidenziano tre fasi:
1. Nella prima fase che coincide con il disorientamento e lo shock per la nascita
del bambino diversamente abile, occorre aiutare i genitori a sostenersi
reciprocamente e a condividere il loro dolore, dando ad esso un tempo e uno
spazio in cui potere essere elaborato.
2. In una seconda fase che coincide con il superamento dello shock iniziale e,
talora, con la comparsa di forti sentimenti di negazione della realtà, occorre
aiutare i genitori a costruirsi un’immagine il più possibile realistica del proprio
bambino, delle sue risorse e dei suoi limiti.
3. Nella terza fase, occorre guidare i genitori nella costruzione del progetto
riabilitativo del bambino, in cui essi devono sentirsi protagonisti.
Le famiglie con figli disabili devono affrontare eventi critici aggiuntivi (malattie
croniche, cure e riabilitazione, angosce e preoccupazioni per il futuro) rispetto ai cicli
di vita normali. La famiglia con il figlio disabile è caratterizzata da un accumulo di
eventi stressanti e ha bisogno di un complesso di servizi e di supporti.
Si deve comunque riconoscere la difficoltà e la complessità di una progettazione di
interventi di integrazione e di riabilitazione, ma soprattutto si deve affermare che non
si possono disgiungere i problemi degli handicappati da quelli delle loro famiglie.
Si possono individuare le seguenti aree-problema distinguendo tra disabili in età
evolutiva e disabili adulti.
Per i primi emergono le seguenti esigenze:
• necessità di una corretta informazione sulle cause e la natura dei deficit e sulle
eventuali tappe di riabilitazione e di socializzazione;
• interventi psico sociali sui genitori per evitare o contenere reazioni di cordoglio, di
depressione e di iperprotezione (che ostacolano l’autonomia possibile del figlio);
• interventi per prevenire il distacco o la separazione della famiglia dal contesto
sociale, evitando la gestione privata dell’handicap o la ricorrente delega alle
istituzioni socio-assistenziali;
• consulenza interdisciplinare per le possibili terapie di recupero, per l’inserimento
scolastico, per sistemi di lavoro assistito o di terapia occupazionale, per la
sessualità, per la partecipazione all’attività di tempo libero come condizioni di
sviluppo e di indipendenza.
Per l’attuazione degli obiettivi indicati occorre evitare la frammentazione di
competenze e la molteplicità di operatori (sociali, sanitari, assistenziali, pedagogisti,
psicologi, ecc.) che per la diversità di approccio epistemologico costituiscono spesso
causa di distorsione e di confusione percettiva, motivo di contraddizione e di ulteriori
ansie per i familiari. Si deve proporre anche in Italia l’istituzione del tutor familiare,
una figura professionale con competenze interdisciplinari che segua la famiglia
durante i passaggi e le fasi del ciclo evolutivo, con specifico riferimento ai problemi
della riabilitazione e ai rapporti con gli operatori e le istituzioni socio-sanitari.
Per gli handicappati adulti le soluzioni positive (e ancora scarsamente realizzate)
sono:
• servizio di assistenza domiciliare
• servizi di emergenza assistenziale o di sollievo
• centri diurni
• residenze sanitarie assistenziali
• prestazioni di socializzazione.
Anche in età adulta risulta indispensabile una figura di appoggio e di rappresentanza
della famiglia con particolare e specifico riferimento ai problemi dell’invecchiamento
dei genitori, alla loro progressiva impossibilità di svolgere i compiti assistenziali ed
infine dell’inevitabile separazione e distacco esistenziale.
E’ importante sottolineare la diversa funzione nonché il diverso coinvolgimento
emotivo rivestito dalla madre e dal padre nel rapporto con il figlio.
L’accordo favorevole tra coniugi che stabilisce chi dei due se ne debba occupare
praticamente, e chi provvedere alle necessità economiche implica che:
• un genitore è costantemente con il figlio;
• l’altro genitore sarà vicino al figlio solamente in alcuni momenti del quotidiano.
Praticamente ciò significa che il genitore a casa (solitamente la madre) si assume la
responsabilità di soddisfare aspetti pratici, diventa mediatore tra il figlio e gli oggetti
relazionali, si configura come elemento di contenimento delle emozioni e sentimenti
del figlio.
Hanno come obiettivo principale la tutela della salute e dell’integrità psicofisica della
persona in età evolutiva (0-18).
Rientrano, inoltre, tra gli obiettivi strategici del servizio, l’azione preventiva e
l’integrazione sociale e si attuano attraverso:
• Interventi di prevenzione su progetti specifici di Area, di distretto o su richiesta di
Organi e Istituzioni del Territorio
• Integrazione scolastica e sociale dei soggetti disabili
• Problematiche connesse agli affidi famigliari ed il Tribunale per i Minorenni
• Attività di diagnosi, terapia e consulenza
• Attività di riabilitazione del linguaggio, psicomotoria e neuromotoria
• Attività di segretariato sociale
Gli interventi del servizio devono uniformarsi al concetto di unitarietà dell’esperienza
di crescita di ciascun soggetto, nella prospettiva di un raccordo sempre maggiore con
il Medico di Medicina Generale e del Pediatra di Libera Scelta, con il complesso dei
servizi educativi e dei servizi sociali comunali e del privato sociale e con gli altri
servizi sanitari e sociali.
Il personale che opera all’interno del servizio è così costituito:
Aumento della forza del nucleo familiare della persona con disabilità. La famiglia della
persona con disabilità è il primo ambito dove generalmente si manifesta la situazione
di bisogno, e contemporaneamente è il primo ambito in cui viene (o dovrebbe venire)
organizzata una risposta al problema. Di fronte ad una situazione problematica, la
famiglia nelle sue varie componenti attiva risorse interne ed esterne che dovrebbero
porla in grado di fronteggiare ed eventualmente risolvere il bisogno. Per questo
motivo le attività di intervento sociale, psicologico, psicopedagogico, di sostegno
della cooperativa La Rete sono la costruzione, lo sviluppo, l’aumento ed il
mantenimento di tutte le possibili «risorse familiari di gestione del problema». Tali
«risorse per la gestione del problema» risiedono primariamente all’interno del nucleo
familiare (risorse intrafamiliari) ma anche nel tessuto di relazioni di sostegno e di
aiuto che la famiglia sperimenta con parenti, vicini, amici, ecc. (risorse extrafamiliari,
di supporto sociale). L’obiettivo fondamentale della cooperativa La Rete è dunque
quello di potenziare al massimo la presenza e l’uso attivo di risorse intrafamiliari. La
famiglia con accresciute capacità a gestire le difficoltà può essere ora in grado di
affrontare meglio il problema.
In tale modo la famiglia con tutti i suoi membri, si trova ad avere più forza ed efficacia
nel gestire e/o risolvere il proprio stato di bisogno, diventando così «produttrice di
salute», ambito di prevenzione e non solo oggetto passivo di prestazioni e servizi. Il
nucleo familiare può inoltre diventare esso stesso risorsa per altre famiglie in cui vi
siano difficoltà più o meno analoghe, attivandosi in iniziative di auto/mutuo aiuto.
Aumento della disponibilità e della solidarietà della comunità verso il nucleo familiare. Il
secondo ambito in cui la cooperativa La Rete si attiva è quello proprio della
«comunità», intesa come cittadinanza tutta, gruppi specifici, associazioni. A questo
livello l’obiettivo consiste nel rendere attiva una quantità e qualità sempre maggiore
di risorse sociali esterne alla famiglia problematica che possano diventarne reale
supporto. Su questo obiettivo la cooperativa propone le proprie attività cercando di
produrre, in primo luogo, una diffusione della cultura della disabilità: la proposta del
Progetto Scuola (momenti di informazione/formazione nelle scuole) va sicuramente
in questa direzione. Il reclutamento, l’attivazione, il coordinamento, la formazione del
volontariato attivo è un’altra importante forma per promuovere e «sfruttare» le risorse
che la comunità offre.
• Progetto Scuola: attraverso un percorso di due o tre incontri per classe sui
temi della diversità e della disabilità promossi da un operatore; coinvolge
mediamente più di 500 studenti all’anno;
• Corso di formazione per volontari: percorso formativo-culturale aperto a tutti
coloro che sono interessati. Il corso affronta tre grandi temi: il volontariato, i
bisogni e le risorse della famiglia e della persona disabile;
• Promozione del volontariato: La Rete sostiene, coinvolge, forma i volontari
durante tutta l’esperienza del servizio, offrendo un supporto costante,
attraverso incontri individuali e di gruppo. Organizza momenti formativi di
aggiornamento;
• Mensile «La Rete»: rivista mensile di 24 pagine con una tiratura di 1500 copie
per 10 numeri all’anno. Raccoglie informazioni, curiosità, esperienze e notizie
sul mondo della disabilità a carattere locale e internazionale.
Lavoro sociale di rete: è la metodologia base con cui la cura di comunità può essere
in qualche modo sviluppata. L’ottica reticolare è una visione globale, un
atteggiamento presente in ogni aspetto del lavoro sociale svolto dalla cooperativa.
L’operatore professionale è un elemento della rete, che intenzionalmente stimola
risorse nuove, mettendo in relazione tra loro persone e indicando diversi strumenti e
strategie. I livelli del lavoro di rete sono molteplici: fra la persona e i suoi altri
significativi, fra le persone o nuclei familiari con problemi analoghi, fra vicini, fra
volontari, fra operatori dello stesso servizio con diversa professionalità, fra operatori
di servizi diversi.
Conclusioni
Il mio inserimento nel mondo dell’handicap è avvenuto molti anni or sono quando
una mia amica con una malattia terminale, mi ha chiesto aiuto nell’occuparmi di suo
figlio, Stefano, con la sindrome di down, allora di 3 anni, e di seguirne la crescita.
Io l’ho accompagnato per tutto il periodo in cui ha frequentato le scuole elementari e
giornalmente mi incontravo con lui per aiutarlo nel fare i compiti. Già allora avevo
iniziato a scoprire la bellezza del suo cuore e andare da lui era per me ogni giorno
una ricchezza, una scoperta, una gioia, perché con la sua semplicità, il suo modo
così limpido di avvicinarsi alle persone e di accoglierle, sviluppava in me una nuova
visione degli altri e della vita. Dava una ventata di umanità, di fratellanza e di
spontaneità a ogni suo gesto perché tutto in lui era dettato solo da amore, un amore
puro, vero, genuino. La perla di saggezza che mi diceva spesso e che mi ricordo con
più tenerezza è : “Ah Laura! Così è la vita! Un po’ in discesa e un po’ in salita!” .
Stefano mi ha insegnato, con il suo esempio, a cogliere come nelle relazioni umane
conta più il rispetto, l’essere, che non le capacità; lui mi accettava e mi amava per
quello che ero, non per quello che sapevo. Conoscere Stefano ha arricchito la mia
vita e mi ha fatto capire come ogni persona con handicap ha un mondo interiore tutto
da scoprire; ha uno straordinario potenziale che può essere liberato solo se noi
crediamo veramente in lui e gli diamo fiducia, assieme alle giuste opportunità.
Per questo motivo quando ho saputo che forse avrei potuto avere una bambina con
la sindrome di down non ho avuto un attimo di esitazione! L’ho subito accolta nella
mia vita come un dono, perché portatrice di talenti e quel suo cromosoma in più, l’ha
resa unica originale e preziosa ai miei occhi e nel mio cuore. E non passa giorno in
cui non sia felice della scelta fatta, specie quando Mariasole, la mia bambina, mi
saluta sorridendo con quei suoi vispi occhioni blù!
Ho scelto di fare questa tesi da un punto di vista personale perché mi sono resa
conto, frequentando l’associazione bambini down di Mestre e di Padova, di come ci
siano molti genitori che non avendo scelto come me la diversità come una risorsa,
ma che gli è piombata addosso nella loro vita stravolgendola, senza che fossero
preparati e pronti ad accoglierla, hanno bisogno di essere sorretti nella loro
genitorialità. In questo modo si cerca di evitare che la fragilità che nasce nei genitori
quando apprendono la notizia che il loro bambino è portatore di handicap, non dia
vita ad atteggiamenti di sfiducia, depressione o rifiuto verso il figlio e la vita stessa,
ma offra alle famiglie il sostegno necessario per instaurare un attaccamento positivo
con il figlio che sia fonte di gioia, amore e crescita per entrambi, per i fratelli e per
tutta la rete familiare e territoriale a loro attorno, pur nelle difficoltà quotidiane.
Il sostegno alla genitorialità deve iniziare nel periodo neonatale, quando le famiglie
decidono di accogliere una vita che già nell’utero materno non si presenta così come
la si immaginava. Bisognerebbe sensibilizzare i ginecologi, gli ecografi, ad aiutare la
famiglia a rielaborare il lutto per la perdita del bambino idealizzato, per iniziare la fase
dell’accoglienza, dell’accettazione, della rielaborazione di questo figlio così fuori da
ogni schema, ma che è comunque portatore di ricchezze personali per tutta la
famiglia. Il sostegno alla genitorialità deve poi proseguire nelle varie tappe evolutive
di crescita del bambino, per aiutare i genitori ad avere una maggiore consapevolezza
di quello che li attende, per prepararsi ricchi di risorse.
Ho toccato con mano la validità dei gruppi di Auto Mutuo Aiuto o dei gruppi di genitori
di bambini con lo stesso o un diverso handicap, perché le persone, unite da un
obiettivo o da un’esperienza comune, possono condividere il proprio vissuto,
incontrarsi, conoscersi e confrontarsi in uno spazio di scambio e di reciproco
sostegno, trovando così un luogo dove affrontare le proprie insicurezze ed esercitare
le proprie risorse. Si tratta di un'esperienza di gruppo che vede le persone impegnate
per il proprio e l'altrui benessere, promuovendo le reciproche potenzialità, attraverso
l’ascolto e il rispetto della storia di ciascuno. Ognuno partecipa al gruppo secondo la
propria disponibilità, portando se stesso e la propria storia di vita in un clima di
fiducia e ascolto.
Trovo molto utili, inoltre, gli incontri di formazione su temi specifici dell’handicap quali
le cure mediche, lo sviluppo del linguaggio, la comunicazione non verbale,
l’inserimento scolastico e lavorativo, la sessualità e tutte le esperienze che si stanno
attivando per costruire alloggi chiamati “Dopo di noi” per dar modo al portatore di
handicap di acquisire una maggiore autonomia personale andando a vivere per
conto proprio, staccandosi dalla famiglia.
Concludendo, in una società in cui prevalgono canoni che lasciano poco spazio al
“diverso”, al “meno abile”, a chi non raggiunge il successo, i bambini portatori di
handicap, ci indicano la strada da seguire, i veri valori in cui credere, una dimensione
ed uno stile di vita più sobrio e più felice. Ci insegnano a ridisegnare la nostra scala
di valori, a dare un senso più ampio e compiuto alla vita stessa perché solo se siamo
disposti a cambiare noi stessi nel rapporto con gli altri e a metterci in gioco come
persone, possiamo saper davvero accogliere la diversità lasciandoci cambiare con
essa!
Proprio come avviene nel film “ Figli di un Dio minore” o che è raccontato nel film
“L’ottavo giorno”, in cui il protagonista George, un ragazzo down, che vive in un
istituto, incontra per caso un professionista dei nostri giorni tutto preso dal lavoro e
che ha dimenticato la ricchezza datagli dalla sua famiglia; insieme a George
riscoprirà la bellezza delle piccole cose e i veri valori: l’amore e le persone care.
Bibliografia:
• “ Legislazione e handicappati. Guida ai diritti civili degli handicappati.”
Autore: Selleri Gianni Editore: Edizioni Del Cerro 2002
Articoli:
• “Handicap e famiglia” di Gianni Selleri (presidente dell'Associazione
nazionale per la promozione e la difesa dei diritti sociali e civili degli
handicappati)
• “Famiglia ed Handicap” di Padre Giuliano Franzan
• “Con i nostri occhi. Valorizzare le competenze educativi dei genitori e
demedicalizzare il percorso dell’integrazione” di Riziero Zucchi (comitato per
l’integrazione scolastica degli handicappati)
• “L’integrazione possibile” di Riziero Zucchi
• “Diagnosi funzionale, profilo dinamico e piano educativo” di Dario Ianes
Siti web
• www.conosciamocimeglio.it
• www.disabili.com
• www.edscuola.it
• www.grusol.it
• www.iss.it
• www.lanostrafamiglia.it
• www.portalefamiglie.it