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I SOGGETTI DI DIRITTO.
Come nel diritto moderno anche in quello romano i soggetti di diritto si distinguono in persone
fisiche e persone giuridiche.
Perché la persona fisica possa essere soggetto di diritto deve esistere: l’inizio ed il termine della
persona fisica è segnato dalla NASCITA e dalla MORTE.
NASCITA: la nascita si identifica con il completo distacco del feto dal corpo materno, e con la vita
autonoma del nuovo essere. La prova della nascita può essere data in qualsiasi modo. Questioni
sorgevano, presso i romani, soltanto per l’accertare se il neonato fosse nato vivo ed avesse avuto
quindi un’esistenza separata. Non era richiesto come requisito autonomo la “vitalità” (la capacità di
sopravvivenza autonoma). Solo nei casi dubbi si discuteva tra i giuristi romani sul modo in cui
accertare l’effettiva vita extrauterina del feto.
CONCEPIMENTO: ai fini dell’esistenza di una persona fisica e dell’integrazione di tutte le
fattispecie connesse rileva solo il fatto della nascita. Il periodo della gravidanza non ha importanza
per il diritto. Ai fini della capacità a succedere i giuristi romani anticipavano al momento del
concepimento effetti che si sarebbero dovuti produrre soltanto con la nascita. Nel periodo fra il
concepimento e la nascita, si potevano dare effetti preliminari rispetto a quelli prodotti dalla nascita.
MORTE: viene accertata con qualsiasi mezzo e senza limiti di prova. Per quanto riguarda la
determinazione della cronologia relativa fra la morte di più persone (concernente soprattutto la
successione ereditaria) ove la prova (liberamente somministrata) non riuscisse a fissare il rapporto
temporale tra le singole morti, la giurisprudenza classica optava per la regola della
COMMORIENZA.
La capacità giuridica non era riconosciuta a tutti gli essere umani, in quanto ne erano sprovvisti gli
schiavi.
Nella comunità monarchica e nella prima repubblica per avere la capacità giuridica il soggetto
doveva non soltanto essere libero, ma anche cittadino.
Per tutto il principato la capacità giuridica continua ad essere connessa alla condizione che la
persona libera sia SUI IURIS (non soggetto alla PATRIA POTESTAS).
La dottrina moderna imposta il problema della capacità in diritto romano nel senso che per avere
tale capacità la persona umana deve godere dei tre STATUS:
1. LIBERTATIS.
2. CIVITATIS.
3. FAMILIAE.
A partire dalla media repubblica, lo STATUS CIVITATIS è necessario soltanto per una completa
capacità giuridica. Lo straniero in quanto tale usufruisce del IUS HONORARIUM e del IUS
GENTIUM. Dagli inizi del principato, la capacità giuridica di diritto privato è riconosciuta ai
FILIIFAMILIAS.
I romani non hanno in alcun modo formulato al teoria degli STATUS, né usano le espressioni
STATUS LIBERTATIS, CIVITATIS O FAMILIAE. Il termine STATUS è usato in modo assoluto
per indicare un qualsiasi condizione della persona.
CAPITIS DEMINUTIO: solo nei confronti di tale istituto si riscontra un’impostazione che
considera i tre status. Con questi termine i romani intendono un cambiamento di uno degli STATUS
della persona umana; tale istituto viene trattato da Gaio in modo unitario distinguendone tre specie:
1. CAPITIS DEMINUTIO MAXIMA: perdita della LIBERTAS.
2. CAPITIS DEMINUTIO MEDIA: perdita della CIVITAS.
3. CAPITIS DEMINUTIO MINIMA: mutamento dello STATUS FAMILIAE.
Gaio definisce la CAPITIS DEMINUTIO come PRIORIS STATUS MUTATIO (cambiamento del
precedente STATUS). Tale definizione risulta troppo generica perché non ogni cambiamento di
STATUS costituisce, secondo i romani, una CAPITIS DEMINUTIO. È essenziale che la STATUS
MUTATIO coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi, a cui si accompagna l’estinzione dei rapporti
giuridici attivi o passivi, facenti eventualmente capo alla persona che li subisce.
Agli inizi del III sec. a. C. sul piano del diritto privato della differenza tra i liberi e gli schiavi si
esauriva nell’ambito delle persone sottoposte al PATERFAMILIAS, nel fatto che alla morte del
PATER i figli divenivano SUI IURIS ed acquistavano la capacità giuridica, gli schiavi rimanevano
tali.
Nel corso del III sec. a. C. la situazione muta profondamente. Le condizioni di vita e di lavoro degli
schiavi erano generalmente pessime. L’unico limite allo sfruttamento della mano d’opera servile era
dato dall’ammortamento del capitale in essi investito. Contemporaneamente si venivano
sviluppando forma socialmente differenziate di schiavitù(schiavitù agricola, domestica, patriarcale).
I LIMITI AL POTERE DEL DOMINUS: fino a tutto il periodo repubblicano, tali limiti non
esistevano sul piano del diritto; il DOMINUS di uno schiavo ne aveva la disponibilità giuridica e
materiale e poteva trattarlo nel modo che riteneva più opportuno, fino ad ucciderlo. Il controllo
dell’opinione pubblica sul modo in cui il padrone esercitava i poteri sullo schiavo poteva essere
molto penetrante. Nella media e nella tarda repubblica questo controllo venne sostituito dal
REGIMEN MORUM di censori (una generale sorveglianza che questa magistratura esercitava sul
comportamento individuale soprattutto degli appartenenti ai ceti più elevati).
Solo con il principato si rinvengono interventi della giustizia imperiale, nelle forme della
COGNITIO EXTRA ORDINEM. Sanzioni penali colpiscono nella COGNITIO il proprietario che
abbia messo a morte lo schiavo senza ragione; nel caso di maltrattamenti ingiustificati ed eccessivi
il DOMINUS poteva essere costato ad alienare il servo.
Questa tendenza si accentua nel tardo antico, dove l’uccisione dello schiavo veniva sempre punita
(a meno che esso non fosse morto al di là delle intenzioni del DOMINUS, a seguito delle punizioni
corporali).
Il trattamento dello schiavo come RES comportava la totale incapacità dello stesso di essere
soggetto di diritti ed obblighi sul piano del diritto privato. Ciò valeva sia per i diritti di natura
patrimoniale, ma anche per i rapporti di carattere personale e familiare.
CONTURBERNIUM: è una relazione sessuale continua tra schiavi. Ha rilevanza soltanto di fatto e
dura fin quando il padrone o i padroni lo vogliano.
COGNATIO NATURALIS: è la parentela tra schiavi. È giuridicamente irrilevante, in linea di
massima anche dopo l’affrancazione (se non ai fini della capacità matrimoniale ed eventualmente a
quelli penali)
Sul piano del diritto pubblico l’irrilevanza dello schiavo è completa. Egli non poteva essere titolare
né di diritti né di poteri pubblici. La sua incapacità era totale anche sul piano processuale sia nel
sistema delle LEGIS ACTIONES che nell’ORDO IUDICIORUM PRIVATORUM.
Per quanto riguarda la posizione del servo sul piano della repressione degli atti illeciti, bisogna
distinguere tra:
1. DELICATA: del diritto privato.
2. CRIMINA: del diritto pubblico. Lo schiavo non ha capacità in ordine al processo criminale
e non può quindi venir accusato nel processo comiziale né, nell’ORDO IUDICORUM
PUBLICORUM, dinanzi ad una QUAESTIO. Ciò significa che per lo schiavo l’esercizio
della COERCITIO del magistrato (la potestà punitiva compresa nell’IMPERIUM) non
incontrava limiti di carattere costituzionale. A pari gravità del crimine commesso, lo schiavo
era punito generalmente con pene più severe. Le forme procedurali in cui avveniva
l’accertamento della colpevolezza erano fissate a garanzia del proprietario (il cui diritto
poteva astrattamente configgere con la pretesa punitiva pubblica).
Per quanto concerne il IUS SACRUM è difficile non riconoscere una generica capacità agli schiavi,
partecipi di riti e di feste religiose. Quando le qualifiche del IUS SACRUM rilevano sul piano del
IUS HUMANUM la qualità di persona umana del servo viene a trovare una rilevanza mediata
anche su quest’ultimo piano.
In Roma si è posto il problema del trattamento delle fattispecie di questo genere. Si trattava di
salvaguardare gli interessi del proprietario dello schiavo e di contemperare tale salvaguardia con la
tutela dei terzi.
Questa trova attuazione mediante il sistema della NOSSALITA’ per i DELICATA mentre il diritto
civile era rigorosamente ispirato al principio che lo schiavo poteva rendere migliore la posizione del
DOMINUS ma non deteriorarla. Egli acquistava per il proprietario diritti reali e diritti di
obbligazione, ma non poteva, in linea di massima, alienare cose del proprietario. Lo schiavo non
poteva neanche estinguere diritti di cui il proprietario era titolare, né il proprietario rimaneva
obbligato, nell’ambito del IUS CIVILE, per atti negoziali compiuti dallo schiavo.
Il diritto onorario sancisce la responsabilità del proprietario per i negozi compiuti dallo schiavo,
quando ricorrano particolari requisiti che giustifichino la responsabilità del DOMINUS per le
obbligazioni che sarebbero gravate sul servo (se fosse stata una persona libera). Ciò avvenne
mediante la concessione delle ACTIONES ADIECTICIAE QUALITATIS.
L’ACTIO QUOD IUSSU: il PATER autorizza, col IUSSUM, un terzo a concludere un contratto
con il proprio schiavo e risponde IN SOLIDUM per le obbligazioni nascenti dal negozio così
autorizzato. In assenza del IUSSUM è sufficiente, per integrare la responsabilità dell’avvenuta
potestà, la successiva ratifica (RATIHABITIO).
L’ACTIO DE PECULIO: con il termie PECULIUM i romani indicavano l’insieme di beni e di
diritti, che il proprietario attribuiva al proprio schiavo, perché questi li amministrasse. Una volta che
il peculio sia stato costituito, ne vengono a far parte i beni ed i crediti che lo schiavo acquisti
mediante l’utilizzazione dei beni peculiari. Lo schiavo ha di fatto l’amministrazione del peculio:
può amministrare ed anche disporre dei beni peculiari, compresa l’esazione dei crediti. Questi atti di
disposizione hanno effetti nei confronti del DOMINUS, che di diritto rimane titolare dei beni e dei
crediti che fanno parte del peculio. In base all’ACTIO DE PECULIO il DOMINUS risponde per
qualsiasi obbligazione assunta dal servo, nei limiti dell’attivo del peculio. Il proprietario ha quindi
un diritto di prelazione rispetto ai terzi creditori nel soddisfacimento dei propri crediti nei confronti
dello schiavo.
L’ACTIO TRIBUTARIA: introduce per un caso particolare una più ampia responsabilità DE
PECULIO per il proprietario. Se, anche implicitamente, abbia dato allo schiavo l’autorizzazione ad
esercitare con il peculio un’attività commerciale, il proprietario perde la prelazione per i propri
crediti e deve concorrere con gli altri creditori sull’attivo lordo del peculio steso. Tale concorso non
avviene secondo il principio PRIOR IN TEMPORE, POTIOR IN IURE, ma ove l’attivo lordo non
basti a soddisfare tutti i creditori, ognuno di essi (compreso il proprietario) ottiene il
soddisfacimento del proprio avere in una percentuale eguale per tutti.
L’ACTIO DE IN REM VERSO: si ricorre a tale azione quando manchino altri criteri per imputar al
proprietario l’obbligazione assunta dal servo. Il DOMINUS stesso risponde nei limiti in cui abbia
tratto vantaggio economico dal negozio posto in essere dal servo.
Diverso è il regime nel caso i cui l’obbligazione dello schiavo nasca da un delitto privato.
Configgono due esigenze:
1. non lasciare impuniti gli atti illeciti commessi da uno schiavo.
2. salvaguardare i diritti del proprietario.
Per le pene pecuniarie si adottò il sistema dalla NOSSALITA’: il proprietario è tenuto a pagare la
pena pecuniaria che sarebbe dovuta dallo schiavo, autore del delitto, ove fosse stato libero, ma può
evitare tale pagamento abbandonando lo schiavo all’offeso (NOXAE DEDITIO). La responsabilità
nossale grava su chi sia proprietario dello schiavo nel momento in cui l’offeso eserciti l’azione
penale. Se viene manomesso lo schiavo diventa direttamente obbligato al pagamento della pena
pecuniaria.
Altra principale causa di schiavitù è la prigionia di guerra. Bisogna distinguere due profili:
1. LA RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ DEL NEMICO CATTURATO DEI ROMANI: era
un’applicazione dell’acquisto per occupazione delle cose del nemico. Alle origini i
CAPTIVI divenivano schiavi del singolo soldato romano che se ne fosse materialmente
impadronito. Successivamente il bottino spettava unicamente allo stato, e con esso i
prigionieri di guerra, che venivano venduti all’incanto.
2. LO STATUS DEL CITTADINO ROMANO CAPTIVUS: l’ordinamento romano ammette
che lo stato del cittadino caduto in prigionia del nemico sia quello di una IUSTA
SERVITUS. In virtù della CAPITIS DEMINUTIO MAXIMA subita, il soggetto perde la
capacità giuridica, compresa la capacità di avere eredi. I suoi beni divenivano RES
NULLIUS e si estinguevano i debiti ed i crediti di cui era titolare. Se ritornava in patria in
base al IUS POSTLIMINII il CAPTIVUS ridiventava automaticamente libero ed
INGENUUS (come se non avesse subito nessuna schiavitù) e riotteneva la titolarità dei
propri diritti. Dagli inizi del I sec a. C. una LEX CORNELIA emanata sotto Silla sancì la
validità del testamento del CAPTIVUS deceduto in stato si schiavitù presso il nemico. Il
CAPTIVUS doveva considerarsi morto nel momento in cui era stato fatto prigioniero, con la
conseguenza che la successione si apriva in base al testamento stesso.
Il liberto incorre in talune incapacità specifiche della sua condizione ed in una serie di doveri nei
confronti del proprietario che lo ha manomesso (patrono).
LE INCAPACITA’: sono particolarmente gravi nel campo del diritto pubblico. In età repubblicana
al liberto è vietato l’accesso alle cariche pubbliche e incontra ovunque difficoltà ad essere trattato
alla stregua degli INGENUI. In età imperiale queste difficoltà permangono anche se nell’ambito
dell’amministrazione imperiale i liberti assumono posizioni di notevole importanza (resta
l’incapacità di accedere all’ORDO SENATORIS ed al relativo CURSUS ONORUM).
Sul piano privatistica le incapacità di carattere generale sono molto ridotte. La più importante è
quella che vieta ai liberti di contrarre matrimonio con membri del ceto senatorio.
Le altre incapacità si inquadrano nel rapporto di patronato e sono fissate dal pretore:
1. il liberto non può citare in giudizio il patrono, senza l’autorizzazione del magistrato
2. il liberto perde la capacità di testare per la metà del proprio patrimonio, se muore senza figli
o diseredandoli, in quanto per tale quota il pretore concede al patrono la BONORUM
POSSESSIO CONTRA TABULAS.
I DOVERI:
1. il liberto deve al patrono l’OSSEQUIUM, al quale corrisponde un potere disciplinare del
patrono (che non include mai il IUS VITAE AC NECIS).Con Costantino si generalizza il
potere del patrono di chiedere la revoca della manomissione nei confronti dello schiavo
ingrato.
2. il liberto aveva l’obbligazione di prestare servizi di varia natura (OPERAE). Tali OPERAE
si commisuravano a giorni ed erano fissate dal patrono (il quale non poteva determinarle in
modo tale da impedire al libero di procacciarsi il sostentamento per sé e per la propria
famiglia). A queste prestazioni il liberto era tenuto soltanto se l’avesse promesse dopo
l’affrancazione. Le OPERAE si distinguevano in:
a. OFFICIALES: prestazioni di servizi non valutabili sul piano economico. Potevano
essere adempiute soltanto nei confronti del patrono e dei suoi discendenti.
b. FABRILES: prestazioni soggette ad una valutazione economica. Il liberto può essere
delegato dal patrono ad eseguirle anche nei confronti di un terzo.
ISTITUTI DEL CONUBIUM E DEL COMMERCIUM: sono due istituti che appartengono al
periodo in cui la partecipazione all’ordinamento privatistica romano era collegata al possesso della
CIVITAS ROMANA. Concedono allo straniero un più o meno ampia capacità giuridica nell’ambito
dell’ordinamento di una città-stato. Questi astuti potevano riguardare singoli soggetti di un
ordinamento straniero (ma essi, in linea di massima, esistevano fra tutti gli appartenenti a due
comunità cittadine).
IL CONUBIUM: comportava la capacità di contrarre matrimonio tra gli appartenenti a CIVITATES
diverse. In base ad esso un cittadino romano poteva sposare una straniera, munita del CONUBIUM,
con la conseguenza che da tale unione nascessero figli legittimi, liberi e CIVES ROMANI. La
cittadina romana aveva un vincolo legittimo, anche ai fini della filiazione, secondo l’ordinamento
della città cui apparteneva il marito.
IL IUS COMMERCII: dava allo straniero il potere di compiere i GESTA PER AES ET LIBRAM: è
dubbio se ed in quali limiti aprisse ai PEREGRINI la possibilità di partecipare alla SPONSIO ed
alla protezione delle LEGIS ACTIONES.
L’acquisto della cittadinanza avviene di regola per nascita: in costanza di matrimonio è cittadino
romano chi nasca da padre romano. Nel caso della filiazione al di fuori del matrimonio, chi nasca da
madre romana. Per la filiazione fuori dal matrimonio un’innovazione importante fu introdotta da
una LEX MINICIA (inizi del I sec. a. C.) la quale stabilì che il figlio nato dall’unione tra una
romana e uno straniero seguisse comunque la cittadinanza del padre (anche se nato al di fuori del
matrimonio).
La CIVITAS ROMANA veniva poi concessa da organi dello stato a singoli o ad intere comunità.
Nella repubblica ciò avveniva mediante una LEX oppure con atto del magistrato autorizzato dalla
legge. Nel periodo imperiale mediante senatoconsulto o con una costituzione imperiale.
La cittadinanza si perde in seguito alla perdita dello STATUS LIBERTATIS, che ne è il necessario
supporto. Pochi sono i casi in cui si perde lo STATUS CIVITATIS ma non quello LIBERTATIS. In
epoca repubblicana si perde la cittadinanza romana per acquisto di una cittadinanza straniera e
soprattutto in seguito all’esercizio del IUS EXULANDI. Fa perdere la cittadinanza l’AQUA ET
IGNI INTERDICTIO (serviva ad impedire il ritorno dell’esule in patria).
I “LATINI”.
Dagli inizi della repubblica una posizione particolare riguardo allo STATUS CIVITATIS era
assunta dei Latini.
Dal 493 a. C. Roma e le altre città latine formavano la LEGA LATINA.
La lega latina era una confederazione regolata dal FOEDUS CASSIANUM, in base al quale era
regolata la posizione dei cittadini delle singole città rispetto agli ordinamenti delle altre città facenti
parte della lega.
Nell’89 a.C., dopo il BELLUM SOCIALE, viene estesa la cittadinanza italiana a tutti i SOCII
ITALICI. Ciò fece cesare l’esistenza di città latine in Italia, ma contemporaneamente si
cominciarono a fondare colonie latine in provincia. Successivamente la LATINITAS venne
concessa, altre che a singole città, ad intere province e regioni (come alla Gallia Nerborense, alla
Sicilia e alla Spagna).
Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico applicato ai latini, la situazione varia a seconda dei
periodi:
1. EPOCA DELLA LEGA LATINA: ogni città che ne faceva parte aveva un proprio
ordinamento.
2. ROMA INIZIA A FONDARE COLONIAE CIVIUM LATINORUM: non abbiamo
documentazione su come fosse regolamentato questo aspetto. Sembra di poter escludere che
nei singoli statuti coloniari fosse contenuta una completa disciplina di rapporti privatistici.
Non risulta neppure che si provvedesse mediante un rinvio generale all’ordinamento di una
città latina determinata.
3. ETA’ IMPERIALE: soccorre per i MUNICIPIA LATINA, la regolamentazione fissata nella
LEX IRNITANA. Si stabilisce che per le materie non regolate dallo statuto, si applica il
diritto romano. La previsione era stata fatta per il IUS CIVILE ma non era stata sentita come
necessaria per il IUS HONORARIUM.
Nel corso del IV sec. a. C. si pone il problema della tutela giuridica e della difesa giudiziaria dello
straniero. La soluzione viene trovata mediante l’intervento del magistrato in sede giurisdizionale.
Il pretore organizza per gli stranieri una tutela giudiziaria fondata sul proprio IMPERIUM, mentre,
il IUS GENTIUM viene esteso agli stranieri.
Adottando il principio della territorialità del diritto, il sistema romano si conformava al modello
città stato per quanto riguarda l’ordinamento che regola i rapporti con gli stranieri.
Ai peregrini viene applicato il diritto onorario creato per loro nella relativa IURISDICTIO e poi le
norme di diritto civile che rientrano nello IUS GENTIUM.
Dalla fine del III sec. a. C. Roma affrontò il problema dell’organizzazione delle provincie.
Sull’individuazione del diritto da applicare ai cittadini e ai sudditi provinciali poteva influire anche
l’istituto della doppia cittadinanza.
Secondo l’ordinamento romano, fino alla fine della repubblica, il cittadino romano non poteva
essere contemporaneamente cittadino di un’altra città stato.
La CONSTITUTIO ANTONINIANA.
Con tale provvedimento, nel 212 d. C. l’imperatore Antonino Caracalla concesse agli abitanti
dell’impero che ne fossero ancora sprovvisti la CIVITAS ROMANA.
Non tutti gli abitanti dell’impero hanno ricevuto la cittadinanza; ne rimasero esclusi:
1. i LATINI IUNIANI.
2. Coloro che avevano perso la cittadinanza per effetto di condanna penale.
3. I DEDITICII AELIANI.
Con la generale concessione della cittadinanza tutte le città dell’impero sono divenute città romane
e sono venute meno le CIVITATES PEREGRINE.
Nel periodo tardo-repubblicano la società romana si basa sulla FAMILIA PROPRIO IURE (in
senso stretto).
L’unico soggetto di diritti in questa FAMILIA è il PATERFAMILIAS, in relazione al quale le altre
persone facenti parte della FAMILIA sono soltanto oggetto di un diritto assoluto di natura
personale.
Le persone soggette alla PATRIA POTESTAS sono sprovviste di capacità giuridica per quanto
attiene i rapporti privatistici.
Della FAMILIA si viene a fare parte per nascita da IUSTUM MATRIMONIUM, ma anche in
seguito ad altri atti (ADOPTIO) che sottopongono persone alla POTESTAS del PATER.
La soggezione alla PATRIA POTESTAS dura sino alla morte del PATER stesso, quando i
discendenti immediati divengono tutti SUI IURIS.
Lo scioglimento anticipato del vincolo familiare comporta una CAPITIS DEMINUTIO, con la
conseguente cessazione di qualsiasi parentela civile od agnatizia, con la famiglia d’origine e con gli
ADGNATI della stessa.
Nel regime della PATRIA POTESTAS sui discendenti e in quello della proprietà sugli schiavi e
sulle altre cose sono state rilevate una serie di analogie:
1. la protezione giudiziaria avviene in entrambi i casi mediante la REI VINDICATIO.
2. per la sottrazione di persone libere e di cose il PATER può agire con l’ACTIO FURTI.
3. Il figlio può essere trasferito con la MANCIPATIO.
Sul piano del diritto privato il potere del PATERFAMILIAS non conosce limiti.
La posizione del figlio si differenza da quello dello schiavo in ordine alla capacità giuridica:
1. SUL PIANO DEL DIRITTO SACRALE: la capacità del FILIUSFAMILIAS è totale.
2. SUL PIANO DEL DIRITTO PUBBLICO: alla completa incapacità dello schiavo corrisponde la
completa capacità del figlio.
3. SUL PIANO DEL DIRITTO E DEL PROCESSO CRIMINALE: il figlio è pienamente capace
alla stregua di una persona SUI IURIS.
4. SUL PIANO DEL DIRITTO PRIVATO: nei confronti del PATERFAMILIAS i discendenti
sono soltanto oggetto di un diritto assoluto (PATRIA POTESTAS). Nell’ambito del diritto
familiare essi hanno una capacità per quanto riguarda il matrimonio che concludono con
l’AUCTORITAS del padre stesso. Per quanto riguarda i diritti patrimoniali l’incapacità del
FILIUSFAMILIAS è totale.
Verso la fine della repubblica la situazioni muta: ai maschi si riconosce (e non alle figlie) la
capacità di obbligarsi sul piano del diritto civile in quanto abbiano posto in essere una atto
produttivo di obbligazioni. Essi possono venir convenuti in giudizio per tali obbligazioni, ma non si
può agire contro di loro in via esecutiva finché non siano usciti dalla potestà paterna.
Con Augusto comincia a svilupparsi l’istituto del PECULIUM CANSTRNSE. Esso si contrappone
al PECULIUM (PROFECTICIUM) concesso dal PATERFAMILIAS. È costituito dai beni
acquistati dal FILIUSFAMILIAS durante il servizio militare e dagli altri beni che ha ottenuto
mediante l’utilizzazione dei primi.
Gli imperatori e la giurisprudenza sono arrivati (II sec. d. C.) a riconoscere al FILIUSFAMILIAS
una piena capacità giuridica sul PECULIUM CASTRENSE, rispetto al quale il figlio può avere
rapporti giuridici con qualsiasi persona. Su tali beni egli può subire l’esecuzione forzata e ne può
disporre per testamento.
Costantino da vita al PECULIUM QUASI CASTRENSE che ricomprende tutti i beni acquistati
nell’esercizio dell’attività burocratica e poi anche ecclesiastica.
Dei beni che il FILIUS riceva dalla madre (BONA MATERNA) viene riconosciuta la nuda
proprietà al figlio mentre il padre ne ha l’usufrutto legale. Tale regime è definitivamente sanzionato
da Giustiniano per i BONA ADVENTICIA (tutti i beni acquistati dal FILIUS senza utilizzare
risorse economiche provenienti dal PATER). Anche le FILIAEFAMILIAS possono essere titolari
di BONA ADVENTICIA.
La PATRIA POTESTAS continua fino alla morte del PATER per quanto riguarda i poteri di natura
personale. Il FILIUSFAMILIAS acquista in nome del PATER soltanto quando utilizzi risorse
provenienti da quest’ultimo, ed il PATERFAMILIAS conserva, sui BONA ADVENTICIA
l’usufrutto legale ed il conseguente potere di amministrazione.
Il PATER continua a rispondere in via adiettizia ed in via nossale, per le obbligazioni assunte dal
FILIUSFAMILIAS.
Alla difesa della PATRIA POTESTAS (che si applicava nel sistema delle LEGIS ACTIONES, con
la LEGIS ACTIO SACRAMENTO IN REM) si aggiunse, nel II sec a. C., l’ACTIO IN REM PER
SPONSIONEM.
Nel principato, la tutela della PATRIA POTESTAS si otteneva attraverso i PRAEIUDICIA.
L’acquisto della PATRIA POTESTAS avviene per il solo fatto della nascita, ameno che il padre
non abbia esercitato il IUS EXPONENDI o si sia rifiutato di riconoscere il neonato come suo figlio.
Può adottare soltanto un cittadino maschio pubere. Si poteva adottare qualsiasi persona ALIENO
IURI SUBIECTA pubere o meno, maschio o femmina, a parte il limite per cui l’adottante non
poteva essere più giovane dell’adottato.
Giustiniano compie una profonda innovazione in ordine agli effetti dell’ADOPTIO: l’imperatore
statuisce che l’adozione non estingue in alcun modo i vincoli con la famiglia naturale, che rimane la
vera famiglia dell’adottato (la PATRIA POTESTAS continua ad essere esercitata dal padre naturale
nonostante l’adozione).
L’estinzione della PATRIA POTESTAS avviene con la morte del PATERFAMILIAS: i figli
diventano persone SUI IURIS ed i maschi PATRESFAMILIAS acquistando la POTESTAS sui
propri figli ed ulteriori discendenti.
In questi casi l’estinzione della PATRIA POTESTAS comporta una CAPITIS DEMINUTIO e la
conseguente rottura del vincolo agnatizio.
La CAPITIS DEMINUTIO dell’emancipato non incide sulla COGNATIO: per il IUS CIVILE,
l’unico rapporto parentale è con il PARENS MANUMISSOR. La CAPITIS DEMINUTIO non crea
problemi dal punto di vista patrimoniale, dato che il figlio era, prima dell’emancipazione, privo di
capacità giuridica.
Nel periodo classico il figlio ha la capacità di obbligarsi civilmente. La CAPITIS DEMINUTIO
estingue, anche nell’emancipazione, anche le obbligazioni che egli abbia, su questa base, contratte,
ma il pretore dà azioni onorarie contro l’emancipato concedendo il BENEFICIUM
COMPETENTIAE.
MATRIMONIO E CONVENTIO IN MANUM.
La struttura della FAMILIA trova il suo fondamento essenziale nel matrimonio.
La donna poteva anche conservare l’originario STATUS FAMILIAE. In questo caso non aveva
nessun rapporto di parentela civile (ADGNATIO) né con il marito né con i propri figli.
L’ingresso nella famiglia del marito (CONVENTIUM IN MANUM) era realizzabile mediante:
1. CONFARREATIO: consisteva in una serie di atti di intonazione religiosa e culminava
nell’offerta a Giove di una focaccia di farro. Si tratta di un rito matrimoniale di carattere
religioso, che faceva entrare la donna nella famiglia agnatizia del marito.
2. COEMPTIO: è un’applicazione della MANCIPATIO ed era alle origini configurata come un
modo di porre in essere il matrimonio, in alternativa alla CONFARREATIO.
3. USUS: è un istituto di età remota, connesso alla MANCIPATIO, di cui sanava vizi di forma o di
legittimazione. Nel I sec a. C. l’USUS era in vigore e cadde in desuetudine nel I sec. d. C.
Fin dalla media repubblica il matrimonio si fonda soltanto sul consenso durevole dei coniugi
In periodo classico il consenso deve essere manifestato personalmente dagli sposi, anche se si tratti
di persone ALIENO IURI SUBIECTAE, ma in questo caso occorre anche l’assenzo dell’avente
potestà. Il consenso del PATERFAMILIAS al matrimonio della persona sottoposta doveva
perdurare perché continuasse il rapporto di coniugio.
In epoca imperiale l’acquisto della MANUS sulla moglie avviene solo in base alla COEMPTIO.
Nel periodo postclassico, il matrimonio fu in primo piano fra gli istituti verso cui la religione
cristiana mostrava il maggiore interesse. L’influenza cristiana sulla struttura del matrimonio si
manifestò nel tentativo di limitare lo scioglimento del rapporto al solo caso di morte di uno dei due
coniugi.
Soprattutto nelle classi elevate, il matrimonio è preceduto dal fidanzamento (SPONSALIA) che nel
periodo classico sono un atto non formale con effetti molto limitati.
Nel periodo arcaico invece il fidanzamento era un atto che, compiuto nelle forme della SPONSIO,
vincolava alla conclusione del matrimonio attraverso la responsabilità personale di colui che avesse
promesso di contrarre il matrimonio stesso o mediante l’assunzione di pagare una somma di denaro
nel caso in cui il matrimonio non seguisse.
Durante la media repubblica l’azionabilità della SPONSIO cadde in disuso.
Nel periodo postclassico il fidanzamento non vincolava alla conclusione delle nozze; ma quando lo
SPONSUS avesse dato alla fidanzata o al padre di essa una somma di denaro a titolo di ARRHA
SPONSALICIA, si instaurava una coazione indiretta al matrimonio da far valere entro due anni
dalla dazione: se non voleva più contrarre il matrimonio, il futuro marito perdeva l’ARRHA, mentre
la futura sposa o il padre, che rifiutassero le nozze, erano tenuti a restituire un multiplo della somma
ricevuta.
La libertà di contrarre matrimonio è ridotta dalla legislazione augustea che si compendia nella LEX
IULIA DE MARITANDIS ORDINIBUS del 18 a. C. ripresa dalla LEX PAPIA POPPAEA del 9 d.
C.
Alcuni requisiti per aversi un valido matrimonio sono già fissati nelle XII Tavole:
1. gli sposi devono essere puberi
2. gli sposi non devono essere in rapporto di parentela naturale (COGNATIO) o civile
(ADGNATIO) in linea retta all’infinito, in linea collaterale entro il settimo grado.
3. Entrambi gli sposi devono essere cittadini (o stranieri con i quali esisteva la reciproca capacità
matrimoniale, e cioè il CONUBIUM).
In periodo tardo-repubblicano e classico, questi requisiti sono precisati. Oltre alla maturità fisica si
richiede anche la sanità mentale.
Nell’epoca classica il matrimonio si scioglie in seguito all’accordo delle parti diretto allo
scioglimento del rapporto coniugale o al REPUDIUM (dichiarazione unilaterale recettizia) di uno
dei due coniugi rivolto all’altro e diretto a far cessare il rapporto coniugale stesso.
Anche se si tratta di PERSONA ALIENI IURIS il coniuge può divorziare senza l’assenso del
PATERFAMILIAS; e la donna senza l’assenso del tutore.
Lo scioglimento del matrimonio per divorzio lascia sussistere, se esistente, la POTESTAS sulla
donna del marito o del PATERFAMILIAS di costui. La donna usciva da tale POTESTAS mediante
l’emancipazione. Secondo Gaio il marito era costretto, mediante l’intervento del pretore, a liberare
l’ex moglie dalla MANUS dopo il divorzio.
Il divorzio consensuale rimane valido in ogni caso e non viene sottoposto a sanzioni di nessun
genere per tutto il periodo classico.
LA DISCIPLINA DELLE SECONDE NOZZE: né promosse né osteggiate dal diritto non erano mai
state viste con molto favore né dalla società antica né dalla repubblica. La legislazione matrimoniale
augustea aveva introdotto l’obbligo di contrarre matrimonio per i celibi e le nubili ma anche per i
vedovi e i divorziati. Nel tardo-antico l’influenza del cristianesimo, sfavorevole alle seconde nozze,
portò ad una serie di misure che tendevano a proteggere i figli di primo letto, il che comportava
svantaggi matrimoniali per il binubo.
L’ISTITUTO DELLA DOTE: l’origine della dote è oscura. Sembra che essa emerga nel
matrimonio CUM MANU, in cui la donna troncava, con la CAPITIS DEMINUTIO, i rapporti con
la famiglia d’origine, rispetto alla quale perdeva qualsiasi aspettativa successoria. A tale scopo alla
donna, che si sottometteva alla POTESTAS del marito, era assegnata dalla famiglia di origine una
certa quantità di beni a soddisfazione delle aspettative successorie: i beni confluivano nel
patrimonio del nuovo avente potestà sulla donna ed erano destinati al sostentamento e al benessere
della nuova unione coniugale. I beni che costituiscono la dote assumono una posizione particolare
nell’ambito del patrimonio del marito. La funzione della dote è quella di contribuire all’economia
della famiglia. A questa funzione si aggiunge quella di far fronte alle necessità economiche della
donna dopo lo scioglimento del matrimonio.
La DOTIS DICTIO è una VERBORUM OBLIGATIO che si compie UNO LOQUENTE (una sola
delle parti, il debitore emette una dichiarazione). Può essere compiuta dall’avente potestà sulla
donna, dalla donna stessa, dal debitore di quest’ultima a ciò delegato.
La PROMISSIO DOTIS era un’applicazione della STIPULATIO in cui in questo contratto si faceva
menzione della causa della causa della obbligazione assunta e cioè della costituzione della dote.
La DATIO DOTIS consisteva nella trasmissione della proprietà delle cose facenti parte della dote
mediante MANCIPATIO, IN IURE CESSIO e TRADITIO.
Originariamente oggetto della dote potevano essere soltanto cose corporali, destinate ad essere
trasferite in proprietà. Si ammise poi che qualsiasi diritto patrimoniale potesse essere oggetto di
dote: diritti reali parziari e diritti di credito potevano essere costituiti o trasferiti al marito a titolo di
costituzione di dote.
Nel periodo classico l’obbligo di restituzione della dote era subordinato all’evento che avesse
causato lo scioglimento del matrimonio e della persona che avesse costituito la dote.
1. se il matrimonio si scioglie per morte della donna la dote rimane, se ADVENTICIA, al marito:
nel caso di DOS PROFECTICIA, spetta al padre che ha costituito la dote stessa l’ACTIO REI
UXORIAE, mentre il marito ha diritto alla RETENTIO PROPTER LIBEROS (il diritto di
trattenere un quinto del patrimonio per ogni figlio nato dal matrimonio).
2. se il matrimonio si scioglie per divorzio, la donna ha il diritto di richiedere la restituzione,
chiunque abbia inviato il REPUDIUM. Se il divorzio può essere imputato alla donna, il marito
ha diritto alla RETENTIO PROPTER LIBEROS (un sesto per figlio) e ad una RETENTIO
PROPTER MORES per la condotta sconveniente della moglie.
3. se il matrimonio si scioglie per morte del marito, la donna può richiedere la restituzione della
dote agli eredi di quest’ultimo, senza possibilità di RETENTIONES: se il marito le ha lasciato
un LEGATUM DOTIS o PRO DOTE, il pretore la costringe ad optare fra l’acquisto del legato e
l’esercizio dell’ACTIO REI UXORIAE (EDICTUM DE ALTERUTRO).
Nel periodo postclassico tale regime non si modifica. Se la dote rimane al marito in seguito alla
morte della moglie, egli acquista solo l’usufrutto legale, in quanto la nuda proprietà è destinata ai
figli nati dal matrimonio che li acquistano come BONA MATERNA.
Nel caso di divorzio cessano le RETENTIONES, e la dote si devolve al coniuge senza colpa.
Nel caso di morte del marito, anche la DOS PROFECTICIA va alla donna che sia SUI IURIS. Le
RETENTIONES vengono formalmente abrogate da Giustiniano.
Nella compilazione giustinianea l’azione per ottenere la restituzione della dote assume il nome di
ACTIO EX STIPULATU, che era l’azione spettante nella DOS RECEPTICIA: il regime di
quest’azione coincide con quella dell’ACTIO REI UXORIAE.
Il quadro dei rapporti patrimoniali tra coniugi diventa più complesso nel periodo postclassico a
seguito dell’introduzione della DONATIO ANTE (e PROPTER) NUPTIAS. La donazione
antenuziale viene fatta dal marito alla moglie ed acquista efficacia definitiva con il verificarsi del
matrimonio. L’istituto è destinato ad assicurare il mantenimento della moglie dopo lo scioglimento
del matrimonio: a seguito della morte della moglie la dote va restituita al marito (che in presenza di
figli ne ottiene solo l’usufrutto legale). Se muore il marito, la donazione resta alla moglie (cui viene
attribuito solo l’usufrutto legale in presenza di figli). In caso di divorzio la donazione va al coniuge
senza colpa.
Giustiniano permette la costituzione della donazione obnuziale anche dopo l’inizio del matrimonio
(DONATIO PROPTER NUPTIAS).
Oltre che per nascita da IUSTUM MATRIMONIUM, la parentela agnatizia sorge in base a tutti gli
atti che fanno acquistare la PATRIA POTESTAS, come l’ADROGATIO, l’ADOPTIO, la
CONVENTIO IN MANU.
Accanto all’ADGNATIO è limitata la rilevanza della COGNATIO (parentela del sangue). Essa è
tenuta presente agli effetti della capacità patrimoniale oltre che a quelli penali e sacrali.
È il pretore che inizia a prendere in considerazione la COGNATIO ai fini successori, con la
BONORUM POSSESSIO (SINE TABULIS) UNDE COGNATI.
Soltanto in piena epoca giustinianea rileva la COGNATIO sia nell’ambito della filiazione legittima
che in quella al di fuori del matrimonio.
Nell’ambito della COGNATIO vanno considerati i figli procreati fuori dal matrimonio (VULGO
QUAESITI o CONCEPTI). Fin dal momento della nascita essi sono persone SUI IURIS (perché la
madre non può essere titolare di POTESTAS, né con essa i figli stanno in rapporto di ADGNATIO
poiché tale rapporto si crea soltanto per linea maschile).
I figli VULGO QUAESITI non sono parenti di nessuno, perché l’ADGNATIO si fonda sul rapporto
con il padre, e questi non hanno con il padre stesso alcuna relazione. Nessun diritto possono vantare
i figli VULGO QUAESITI nei confronti del padre, né quest’ultimo nei loro confronti.
Con la madre i figli VULGO QUAESITI si trovano in un rapporto di COGNATIO.
Nel tardo-antico la posizione dei figli VULGO QUAESITI (ora chiamati FILII NATURALES)
subisce un cambiamento nei rapporti con il padre, quando si tratti di figli nati in un rapporto di
concubinato, i quali possono assumere la qualità di figli legittimi.
A ciò si accompagna un’istituzionalizzazione del concubinato: perché ricorra questa figura si
richiede una volontà dell’uomo e della donna che configuri l’unione come duratura ed esclusiva.
Nel concubinato manca l’aspetto dell’AFFECTIO MARITALIS che assicura la DIGNITAS della
donna e quindi l’HONOR MATRIMONI.
Tutto ciò porta a configurare nel concubinato un matrimonio da cui nascono non figli legittimi ma
LIBERI NATURALES.
I figli naturali possono ricevere MORTIS CAUSA dal padre solo per testamento: Giustiniano
riconosce loro diritti nella successione AB INTESTATO. A differenza dei figli VULGO
QUAESITI solo i figli naturali possono acquistare la qualità di figli legittimi, mediante la procedura
della LEGITIMATIO.
In diritto romano la capacità di agire può essere esclusa o diminuita da cause attinenti all’età
(IMPUBERES e MINORES XXV ANNIS), al sesso (donne), a vizi della sfera mentale (FURIOSI)
e caratteriale (PRODIGI).
Il diritto civile prevede l’INFIRMITAS AETATIS come causa di esclusione o di diminuzione della
capacità di agire.
Il IUS CIVILE fissa un limite d’età entro il quale si presume manchi l’idoneità a curare i propri
interessi: il soggetto che vi rientri è incapace o parzialmente capace di agire. In linea di principio il
limite è rappresentato dalla pubertà.
Il carattere obbligatorio si estese alla tutela testamentaria in epoca classica: il tutore designato nel
testamento non poteva più compiere l’ABDICATIO TUTELAE. Per tutto il periodo classico il
tutore legittimo rimase escluso dal sistema delle EXCUSATIONES, perché non era obbligato a
gerire la tutela. È solo in epoca postclassica che anche per questo tipo di tutore si configurò un
obbligo a gerire la tutela e ad assumere la amministrazione del patrimonio tutelare.
È capace ad assumere l’ufficio della tutela legittima chi sia maschio e pubere: egli deve essere
necessariamente SUI IURIS.
In epoca classica invece né il tutore testamentario né il tutore dativo devono essere SUI IURIS.
Nel periodo postclassico poi le donne vengono ammesse ad esercitare l’ufficio tutelare.
Nei confronti del tutore legittimo e testamentario non esiste un’azione di rendiconto, ma si danno
soltanto mezzi contro il tutore malversatore.
Intorno al 210 a. C. la LEX ATILIA introduce la tutela dativa: per questo tipo di tutela fu introdotta
l’ACTIO TUTELAE che è un IUDICIUM BONAE FIDEI. E’ una tipica azione di rendiconto, che
si fonda sull’effettiva gestione tutelare e sull’amministrazione del patrimonio. Essa può essere
esperita quando il tutore cessi dall’ufficio e viene intentata dal nuovo tutore quando la cessazione
sia avvenuta prima che il pupillo stesso abbia raggiunto la pubertà. Tale azione può essere data
come ACTIO TUTELAE CONTRARIA a favore del tutore, quando il rendiconto stesso portasse un
saldo a suo favore. Il campo di questa azione si amplia, ed essa viene impiegata per sancire la
responsabilità del tutore dativo che non si curi della tutela e che non amministri il patrimonio
tutelare.
Nel periodo postclassico si verifica la definitiva fusione dei tre tipi di tutela. Il tutore legittimo che,
obbligato o no, volesse amministrare il patrimonio del pupillo doveva prestare la garanzia che il
patrimonio del pupillo non subisse nocumento (SATISDATIO REM PUPILLI SALVAM FORE).
L’AUCTORITAS è l’assenso del tutore contestuale alla conclusione del negozio e presuppone la
partecipazione del tutore stesso al compimento dell'atto.
Per l’amministrazione del patrimonio tutelare esistevano delle regole che imponevano al tutore un
certo impiego dei beni pupillari. Nel periodo postclassico e giustinianeo si sviluppa una generale
inalienabilità del patrimonio pupillare.
La responsabilità del tutore nei confronti del pupillo varia da epoca ad epoca:
1. EPOCA PIÙ ANTICA: ci si limita a reprimere la dolosa malversazione dei beni pupillari da
parte del tutore.
2. FINE DELLA REPUBBLICA: il tutore legittimo che volesse amministrare il patrimonio
pupillare doveva prestare la SATISDATIO.
In base alla SATISDATIO il tutore risponde negli stessi limiti in cui sarebbe stato tenuto con
l’ACTIO TUTELAE: e risponde anche per la mancata gestione dell’ufficio tutelare che
ricomprende anche l’amministrazione del patrimonio pupillare.
Sul piano del diritto privato, le donne erano incapaci per gli atti e per i rapporti che coinvolgevano
la PATRIA POTESTAS. Non potevano essere istituite eredi nel testamento di un cittadino
appartenenti alla prima classe del censo (neanche in quello del proprio padre). La disposizione
cadde in disuso nel principato.
La donna sottoposta a tutela legittima non poteva fare testamento.
Nel I sec. d. C. le donne non potevano assumere obbligazioni nell’altrui interesse, in qualsiasi
materia ciò avvenisse. Il divieto rimase in vigore fino all’epoca giustinianea.
Nel corso dell’Impero la donna poteva essere esonerata dalla tutela, quando conseguisse, sulla base
della LEX IULIA ET PAPIA, il IUS LIBERORUM (avendo partorito 3 figli, se ingenua, 4 se
liberta, nell’ambito di un matrimonio conforme alle prescrizioni di detta legge).
LE CURATELE.
L’assenza o la menomazione della capacità d’agire stanno anche alla base delle CURATELE che
riguardano:
1. il minore di 25 anni.
2. il pazzo.
3. il prodigo.
Nel diritto della tarda repubblica e in quello classico il FURIOSUS pur essendo soggetto di diritto è
completamente incapace di agire sia a proprio vantaggio che a proprio svantaggio. Ciò vale per gli
atti leciti ed illeciti per cui il pazzo non ha neanche capacità di diritto penale, privato e pubblico.
La CURA del FURIOSUS spetta agli ADGNATI, ed in mancanza ai GENTILES. Non esistono
curatori testamentari: dalla fine della repubblica in mancanza del curatore legittimo provvede il
pretore. L’intervento di quest’ultimo permette un controllo sulle condizioni della salute mentale del
soggetto da sottoporre a curatela.
Il curatore deve preoccuparsi della sorte della persona e dell’amministrazione del patrimonio del
pazzo.
I rapporti tra curatore e pazzo non sono regolati da una specifica azione: si applica in questo caso la
generica ACTIO NEGOTIORUM GESTORUM, DIRECTA E CONTRARIA.
La CURA PRODIGI: gli ADGNATI e i GENTILES sono chiamati ad esercitare la curatela su colui
che dissipa il proprio patrimonio. In questo caso è necessario un provvedimento del pretore
(INTERDICTIO).
Il prodigo era pienamente capace dal punto di vista del diritto penale pubblico e privato.
Tra prodigo e curatore il rendiconto della curatela si ottiene mediante un’ACTIO NEGOTIORUM
GESTORUM data in via utile.
La CURA MINORUM non è disciplinata dal IUS CIVILE. Nel periodo più antico all’uscita
dall’impubertà i ragazzi si trovavano a 14 anni completamente capaci di agire e non sottoposti a
nessun controllo.
Ai primi del II sec. a. C. la LEX LAETORIA DE CIRCUMSCRIPTIONE ADULESCENTIUM
(LEX MINUS QUAM PERFECTA vieta l’atto ma non ne dispone la nullità ma irroga una pena
che colui che ha violato il divieto) si riferisce a coloro che non hanno ancora compiuto i 25 anni e
fissava una pena pecuniaria a carico di coloro che, nel concludere un atto a rilevanza patrimoniale,
avessero abusato della inesperienza di un minore, il quale ne avesse riportato un danno.
La vicenda della CURA MINORUM parte da questa normativa.
I rapporti tra curatore e minore erano regolati in base ai principi vigenti in tema di gestione degli
affari altrui: era esperibile l’ACTIO NEGOTIORUM GESTORUM, anche quando sembra, il
curatore fosse richiesto dal minore e l’incarico accettato volontariamente dal curatore.
L’esistenza di associazione che costituiscono soggetti di diritto autonomi rispetto alla personalità
dei singoli associati si ha per gli enti pubblici: lo stato, e gli enti territoriali minori (CIVITATES
ROMANAE, COLONIAE o MUNICIPIA).
Persone giuridiche sono anche le CIVITATES ROMANAE che a partire dalla media repubblica
rappresentano lo strumento essenziale per l’amministrazione del territorio connesso allo stato
romano.
Nei confronti del POPULUS ROMANUS le città “sono considerate alla stregua di privati cittadini”,
il che significa che anche con le città il POPULUS ROMANUS entra in rapporti fondati sulla
propria supremazia e non su un pianori parità. Con i propri cittadini le CIVITATES hanno rapporti
di diritto pubblico e di diritto privato:
1. il diritto pubblico regola i rapporti senza una diretta rilevanza patrimoniale. I magistrati
pongono in essere gli atti di diritto pubblico i cui effetti si ripercuotono direttamente sulla
città in base al rapporto della rappresentanza organica.
2. il diritto privato regola i rapporti con una diretta rilevanza patrimoniale. Gli atti di diritto
privato possono essere posti in essere dagli stessi magistrati.
La rappresentanza delle CIVITATES è regolata dalla statuto che ogni città ha ricevuto dal
POPULUS ROMANUS e, per quanto concerne il processo, dall’editto del pretore.
L’autonomia patrimoniale del POPULUS ROMANUS e delle altre CIVITATES comporta che i
rapporti di carattere patrimoniale facenti capo alla persona giuridica non riguardino gli associati in
quanto tali e viceversa.
I età classica si riscontra un minor livello di indipendenza tra la situazione giuridica degli associati e
il patrimonio dell’ente.
Ciò si può isolatamente riscontrare nel regime delle RES PUBLICAE: l’USUS PUBLICUS cui una
parte di tali cose sono destinate sembra non essere tanto una concessione dello stato ai cittadini,
quanto l’esercizio di un potere che sulle RES PUBLICAE stesse spetta ai CIVES come titolari delle
RES in questione nella loro qualità di membri del popolo inteso come collettività dei cittadini stessi.
Più evidente ancora è l’aspetto rappresentato dall’incapacità delle CIVITATES ad essere istituite
eredi.
È evidente che in questi casi, i giuristi romani non riescono a concepire la persona giuridica
rigorosamente distinta dall’insieme degli associati che la compongono, anche se non ne traggono
ulteriori conseguenze.
Esistono anche altri tipi di associazioni nelle quali si sanciva la libertà dei SODALES di dare ai
rispettivi COLLEGIA la normativa che ritenevano più adeguata.
La LEX IULIA DE COLLEGIIS, dell’epoca di Cesare, impediva che si celassero attività illecite di
carattere politico dietro lo schermo offerto dall’associazione.
La LEX IULIA stabiliva alcuni requisiti di struttura per la concessione del riconoscimento della
personalità giuridica ai COLLEGIA e alle SODALITATES:
1. necessità dell’esistenza di almeno tre SOCII.
2. previsione di un patrimonio dell’associazione.
Nell’esperienza romana non sono note le fondazioni come enti con autonomia patrimoniale e quindi
con personalità giuridica.
Essa ammette solo quelle che si possono chiamare FONDAZIONI FIDUCIARIE: in queste sui
affida ad un soggetto la titolarità di determinati beni, perché gli stessi ed il loro reddito sia destinato
ad un determinato scopo. Così un insieme di beni può essere attribuito ad una persona di carattere
associativo, soprattutto ad una CIVITAS, con l’onere di destinare i proventi ad un certo scopo,
generalmente di beneficenza.