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Il sole entrò sotto terra,

nell'Oceano con cavalli e carri.

Mentre Ermes di corsa


giungeva ai monti della Pieria,
dove i buoi degli dei avevano la stalla,
e pascolavano nei prati inviolati.
Ermes, dall'occhio acuto e rapido,
ne rubò cinquanta.

Li spingeva ubriachi attraverso il terreno sabbioso,


cancellava le loro orme: memore dell'arte dell'inganno;
gli zoccoli invertiti, davanti dietro, dietro davanti:
lui frontale.

E subito, sulla sabbia del mare, si mise ad intrecciare


con i giunchi sandali che non si possono dire,
incomprensibili, cose meravigliose:
univa tamerici e rami di mirto.

Poi legò insieme un fascio di quella verzura,


senza fare danno strinse ai piedi i sandali leggeri
con le foglie, che egli stesso, la gloria, aveva spiccato,
per nascondere il ritorno dalla Pieria,
come chi si affretta per un lungo viaggio,
contando su se stesso, unicamente.

Ma un vecchio dalla sua vigna fiorente lo vide


che correva verso la pianura, attraverso Onchesto adagiata sull'erba;
per primo Ermes gli si rivolse:
“Vecchio incrocchiato che zappi,
certo molto vino avrai a fine raccolta:
ma, anche se hai visto, non hai visto, se hai udito,
niente hai sentito; stai zitto, il tuo è sicuro”.

Così parlò. E spinse i buoi testa grossa.

Per quanti monti ombrosi, e quante vallate tonanti


e campi fioriti si avanzò la testa gloriosa.

Nera soccorrevole era passata la divina notte


quasi tutta; presto l'alba maestra;
da poco in cielo la luna,
figlia di Pallante megalomane,

quando Ermes al fiume Alfeo sospinse i buoi,


che freschi giunsero alla stalla
e agli abbeveratoi dinanzi a uno splendido prato.
Là, fece pascere i buoi, poi li spinse tutti nella stalla,
- mangiavano trifoglio e cipero umido -,
raccolse molta legna e impastò le mani nel fuoco.
Prese un bel ramo di alloro e lo fece girare
in un ramo di melograno,
tenendolo fra le mani: ne scaturiva un soffio caldo.
Ermes per primo mandò nel sopramondo fuoco e mezzi
per accenderlo.
Raccolse molta legna secca e compatta e la custodì in un fosso
sotterraneo.
Lampeggiò la fiamma, lanciando lontano la folata del fuoco,
che forte bruciava.

E mentre Efesto accendeva il fuoco,


egli trascinò fuori due buoi mugghianti,
vicino al fuoco – aveva grande forza -:
li gettò entrambi a terra, sul dorso, ansanti;
poi, piegatosi, le girò, e toccò loro il tempo.

Aggiungeva un lavoro ad un altro, tagliando le carni


pingui di grasso,
e dopo averle infilzate insieme al dorso negli spiedi di legno,
le arrostiva col nero sangue spurgato dalle viscere.

Queste cose rimasero lì.

Invece, tese le pelli su un'aspra roccia,


dove tuttora giacciono. Dopo
Ermes lieto poggiò le belle carni
su una pietra larga e levigata
e tagliò dodici parti assegnandole
a sorte:
rese ciascuna un dono perfetto.
Allora Ermes voleva per sé le sacre carni:
l'odore lo tormentava – ed era un immortale! -;
tuttavia non le mangiò, e quanto le desiderava!
Ma conservò nella stalla e appese alte grasso e carni,
trofeo del recente furto;
poi, elevato un cumulo di legna secca,
gettò nel fuoco zampe e teste.
E compiuta ogni cosa come conveniva,
buttò i sandali nell'Alfeo,
fece morire la brace, coprì di sabbia la cenere nera.

Per tutta la notte, la luna in alto splendette.

Subito dopo raggiunse le cime luminose di Cillene,


all'alba: nessun dio, nessun uomo
nel lungo cammino né cani.

Ermes, curvandosi, entrò dalla serratura


come brezza, come nebbia.
Difilato giunse nell'intimo della grotta,
a passo lieve, senza far rumore.
E subito saltò nella culla,
con le spalle fasciate da bimbino,
con una coperta sulle ginocchia,
nella sinistra la tartarughina.

Ma il piccoletto era un dio - non sfuggì alla madre, la dea:

“Ma cosa fai, diavolino, da dove arrivi, a quest'ora, spudorato?


Credo proprio che fra non molto
in catene passerai per quella porta passerai
per le mani di Apollo finirai
fra pochissimo di fare il furfante per le valli.
Torna indietro! Tuo padre ha generato un aborto
per uomini e dei”.

Ermes di fino:
“Mamma, perché vorresti spaventarmi,
non sono un bambino,
che nulla sa di monellerie, non sono timoroso,
né temo i rimbrotti della mammina!
Piuttosto mi impossesserò dell'arte migliore,
pensando a me e a te per sempre;
né noi due soli fra gli dei sopporteremo
- senza offerte, senza preghiere -
di restare qui, come tu comandi.
Meglio essere per sempre uniti agli immortali
-ricco, ricchissimo, sfamato – che poltrire a casa,
- che dico! - in questa grotta buia; e, quanto all'onore,
avrò gli stessi diritti di Apollo.
E se mio padre non me li concederà, io stesso,
io proprio io
proverò – e ci riesco! - ad essere il capo degli ingannatori.
E se Apollo mi cercherà, altro guaio
e più grande lo aspetta.
Infatti, andrò a Pito e penetrerò nel suo grande santuario;
di là molti e bellissimi tripodi e lebeti
ruberò, e oro, e molto ferro infuocato
e molti abiti; vedrai...”

Così parlavano Ermes e la madre.

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