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IL SEGRETO È DIRLO

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NO COPYRIGHT

Prima edizione: SCRIBLERUS CLUB, Verona, dicembre 1983


Seconda edizione: EL P ASO - PORFIDO , Torino, aprile 2010

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Anonimo

IL SEGRETO È DIRLO

Vita e avventure di Salvatore Messana.


Con il racconto di come sia stato ladro,
pescatore, adultero, marinaio, rapina-
tore, militante dell’estrema sinistra,
truffatore, e infine licenziato di me-
stiere accumulando grande fortuna.

TORINO 2010

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INTRODUZIONE

a Bengi
[Angelo Morabito 1973-2008]
per sempre, col dente avvelenato…

Salvatore Messana è una truffa. Ovviamente.


È uno pseudonimo, dietro cui si cela l’identità di
qualcuno che ha praticato, con metodo e dedizione,
l’arte di sottrarsi allo sfruttamento e di riservargli
in più qualche dispetto di ritorno.
O forse no. Forse Salvatore Messana non esiste.
È solo un nome di fantasia, nella cui storia si raccol-
gono e si intrecciano le avventure di tante vite, espe-
rienze sovrapposte di una generazione impertinente
e refrattaria.
O forse nemmeno. Forse non è vero niente, è tutta
un’invenzione.
Non lo sappiamo. Oppure non ve lo vogliamo dire.
Del resto non è importante: tutte queste ipotesi possono
essere vere, e in un certo senso lo sono…

Tra assegni a vuoto e pianificate vendette, occu-


pazioni di condomini e truffe memorabili, Salvatore
Messana, con ironia fulminante, fa scempio di ogni
pretesa serietà residua di questa società decrepita.
È una fucilazione, irresistibile e implacabile, di
ogni senso del dovere, sia esso nei riguardi di impro-
ponibili esigenze produttive, che di presunte respon-
sabilità sociali di seriosi militanti.
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È la voce degli scansafatiche fieri di esserlo.
È una voce limpida e irriverente, non perché priva
di contraddizioni, ma, anzi, proprio perché capace
di assumersele senza falsi pudori, e di giocarci a
carte scoperte.
Contro chi ci ruba il tempo della nostra unica
vita, ci ricorda Salvatore Messana, ogni resistenza,
ogni slealtà, ogni vendetta, è non solo lecita, ma
doverosa. E, quando riesce, sublime.
È un sonoro ceffone alla lamentela, anche a
quella – oggi così diffusa – sulla precarietà del posto
di lavoro, essendo proprio “la certezza del posto
fisso” quell’incubo che Salvatore Messana ha fuggito
come la peste. Riuscendo anche, in questa fuga dive-
nuta una vita, a spassarsela con allegri complici e a
infliggere ai suoi inseguitori pesanti dispiaceri.

N on è un’ideologia o un progetto politico a gui-


dare le scelte o a disegnare i percorsi dell’avventura
di Salvatore Messana, ma un istintivo, viscerale
“schieramento di campo”: quello degli sfruttati
contro quello degli sfruttatori. Ed è proprio contro
di loro, contro i potenti e gli aguzzini di ogni tempo,
che Salvatore Messana ha deciso di rivelare, a noi e
a chi verrà, il suo semplice “segreto”: non esitare
mai a scagliare la prima pietra; mirando, se possibile,
alla testa.
Noi, ripubblicandolo, ci siamo fatti soltanto umili
testimoni di tale imperituro verbo. Nei secoli dei secoli.
Così sia.

Torino, 2010

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PREMESSA BREVE

a Gianfranco,
Caterina e Bruno
[dedica alla prima edizione]

Voglio innanzitutto ringraziare il professor Lapo


Meneghetti per aver avuto la pazienza di correggere il
mio diario disordinatamente scritto, rispettandone lo spi-
rito e limitandosi a tradurlo in lingua italiana: il lettore
noterà infatti una prosa che non è certo tutta farina del
mio sacco.
Ho deciso di pubblicare questo libro dopo una violen-
ta litigata con un avvocato coglione il quale (spalleggiato
da tre sindacalisti più coglioni di lui) insisteva nel consi-
gliarmi di non divulgare i miei sistemi di incremento del
reddito ai danni del padrone.
Le mie beffe non vogliono essere in alcun modo una
“linea politica”, né io ho la pretesa di essere un “militante”.
Ma non ho affatto vergogna della mia esistenza e ritengo
vi sia più criminalità nella fondazione di una società per
azioni di quanta non se ne possa scorgere in queste poche
pagine. Hanno anzi il solo pregio di essere vere. Ai pru-
denti calabrache sempre pronti a sussurrare appelli al si-
lenzio, ai miserabili arruffoni che si attaccano alle briciole
mormorando che il segreto è non dirlo, voglio fare questo
torto. Non mi interessa se il giuoco si chiude; un’anima
ribelle è capace di trovarne un altro.
Amici lettori, il segreto è dirlo!

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PARTE PRIMA

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I

Sono nato il 6 febbraio 1937 a ***, una piccola


cittadina delle Puglie, poco più di un borgo, mise-
rabile e perennemente invasa dalla polvere. Da
buoni cristiani quali erano sempre stati, i miei ge-
nitori avevano subito provveduto al Battesimo,
iscrivendo nel registro della Parrocchia il nome vero
di Salvatore Messana: le circostanze mi avrebbero
spinto a mutarlo sovente e anche ora sto utilizzan-
do uno pseudonimo (me ne scuso con i lettori) pro-
prio perché ho ritenuto bene riacquistare l’esatta
identità. Conservo ancora una sbiadita fotografia
di quella cerimonia: un fascista con la camicia nera
sorrideva impettito al mio fianco, dopo aver con-
segnato una piccola somma alla famiglia. Lo Stato
regalava infatti del danaro a fronte di ogni lieto
evento così da meglio popolare l’impero e aumen-
tare il numero delle future baionette. Fu per il regi-
me un cattivo investimento, riflettendo su ciò che
di là a poco sarebbe accaduto; a me piace tuttavia
considerare quel contributo come la mia prima truf-
fa ai danni del governo, una sorta di involontaria
prova del fuoco.
Noi si viveva tutti insieme e in una sola stanza,
con il pavimento di pietra grezza sempre sul punto
di essere sopraffatta dal secco terriccio sottostante.
Al calar della notte ci addormentavamo in dodici,
sparsi secondo una precisa gerarchia fra letti e gia-
cigli; durante il giorno la luce entrava per una fine-
stra dalle dimensioni volutamente ridotte così da
impedire (o meglio: arginare) i guai delle gelate in-
vernali e della canicola.

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Sotto il grande scalone, non lontano dalla porta
d’ingresso della nostra abitazione, si apriva una sorta
di cunicolo buio che conteneva i recipienti di ter-
racotta. Si entrava a turno e aiutati, per lo più, da
un lume di candela li si riempiva con i nostri escre-
menti. Mia madre aveva poi il gravoso incarico di
accorrere al suono della trombetta che annuncia-
va il passaggio di un carro a botte e di svuotarli.
La pubblica autorità aveva infatti creato quello stra-
no servizio affinché la mancanza di fogne non riu-
scisse insopportabile, dimostrandosi già allora di-
sponibile a raccogliere tutta la merda della piccola
comunità.
Mio padre – un bracciante a giornata che non si
stupiva di doversi spaccare la schiena a vantaggio
esclusivo di pochi proprietari terrieri – partì ben
presto, chiamato al servizio militare di leva, nono-
stante i carichi di famiglia. E, soprattutto, nonostan-
te avesse ingenuamente consegnato i suoi peraltro
esigui risparmi a un maresciallo furbacchione che gli
aveva promesso il congedo senza avere la minima
possibilità di ottenerlo davvero.
Fu tra i primi a essere spedito verso le zone di
combattimento. Io lo rividi (ma forse sarebbe esatto
scrivere “mi fu presentato”) nel 1942.
Indossava l’uniforme dei poveracci, il grigioverde
del fante; puzzava di grasso e di caserma, faceva
ancora più schifo di quando tornava dai campi su-
dato come un cavallo da tiro. Non appena varcato
l’ingresso, mi suggerì subito una sensazione di mor-
te, chiara e profonda anche se non razionalmente
spiegabile. A distanza di anni io ricordo ancor oggi
perfettamente di essere stato certo che quello era il
suo ultimo ritorno a casa.

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Tutti la pensavano come me e del resto sembrava
rendersene conto lui stesso. Se ne stava silenzioso,
disabituato ormai alla quiete domestica, fumando
una sigaretta dopo l’altra, senza curarsi di violare la
religione del risparmio cui pure aveva dedicato
l’esistenza. Osservava gli oggetti e le persone con
quei suoi occhi da arabo, neri, incavati oltre misura;
osservava attento ma infinitamente triste. Rassegna-
to alla condanna, al termine della licenza, ci ab-
bracciò senza eccessiva foga e andò a farsi uccide-
re in Russia, evitando accuratamente di chiedersi il
perché.
Noi eravamo poveri, ma il cibo non ci mancava.
Non ho, alla fin fine, un cattivo ricordo di quei pri-
mi rapporti con il mondo. Mi è rimasta anzi una
qualche tenera nostalgia per le bande di bimbi chias-
sosi e per i disperati affetti di quella promiscuità
che pur oggi trovo intollerabile, squallida.
Arrivò la guerra. Dapprima sotto l’aspetto del
comunicato governativo che mi rendeva ufficial-
mente orfano, poi in tutta la sua violenza. Ci si tra-
sferì a Lecce in una stanza ancor più angusta e con
la quotidiana angoscia della fame, in eterna attesa
di qualche guaio. L’unico svago, in quella noia mista
a terrore, era rappresentato dalle corse improvvise
verso i rifugi antiaerei ove sostavamo poi per ore
interminabili prima del segnale che annunciava il
cessato pericolo. Troppo piccolo e troppo inco-
sciente per avere davvero paura, mi preoccupavo
principalmente di non rimanere escluso ogni-
qualvolta veniva distribuito un po’ di cibo. Avevo
anche maturato una certa indifferenza nei confronti
dei cadaveri, non di rado depredati dai cosiddetti
sciacalli.

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Furono quelli i primi malviventi che mi capitò
di vedere. Penetravano nelle abitazioni bastonando
o forse uccidendo eventuali feriti, si appropriavano
degli oggetti più incredibili, immagazzinavano senza
alcuno scrupolo le merci che avrebbero poi rivenduto
guadagnando stima e rispetto dei benpensanti. La
borsa nera frattanto imperava: anche i generi ra-
zionati finivano come per incanto nelle mani degli
speculatori senza raggiungere quasi mai (grazie alla
complicità di funzionari corrotti) i destinatari in
modo diretto. I gatti non potevano più definirsi ani-
mali domestici, ma erano divenuti selvaggina ri-
cercata tanto che tendevano a estinguersi. Qualcu-
no affermava di aver già cominciato a cuocere i topi
anche se io, in tutta sincerità, non ho mai avuto
occasione di mangiarli.
I fondatori dell’Impero avevano dichiarato la
guerra ma non si erano minimamente preoccupati
di spiegare alla popolazione come comportarsi du-
rante i bombardamenti o, più genericamente, in caso
di difficoltà. Così, in breve, il trovare una coperta,
un pezzo di sapone, un medicinale divenne quasi
impossibile; ognuno peggiorava la situazione cer-
cando di arrangiarsi alla meglio in mezzo alla con-
fusione. Una volta una donna impazzita – convin-
ta che io fossi suo figlio morto pochi giorni prima –
mi trascinò a viva forza in casa, incurante delle mie
proteste, e mi cosparse la testa di petrolio per di-
struggere i pidocchi in effetti numerosi sul capo.
Questa operazione, sgradevole ma assai utile, fu
ripetuta in seguito anche dalla mia vera famiglia,
sempre più spesso. Non serviva però a frenare le
pulci, attirate dal sangue di bimbo e davvero sca-
tenate. Mi abituavo ai loro morsi mentre osservavo

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la particolare arroganza dei mosconi che la face-
vano ovunque da padroni, alacri nel trasmettere
malattie.
Gli attacchi aerei mi fecero conoscere Saverio,
un coetaneo assai intraprendente, con i capelli a
spazzola e la pelle nerissima. Suo nonno – un cini-
co ubriacone che riusciva inspiegabilmente a colti-
vare il suo vizio nonostante quella buriana – lo
mandava a rubare le candele in una grande chiesa
di cui non ricordo il nome, ma che mi suggestiona-
va per gli immensi dipinti alle pareti e per la ric-
chezza delle decorazioni. Io lo accompagnavo. Men-
tre fingevo di pregare assistevo incredulo alla facili-
tà con la quale faceva scivolare, insieme a quanto
gli era stato ordinato, anche qualche moneta che
subito utilizzava dividendo con me. Non so se es-
sergli grato della sua indubbia generosità o se male-
dirlo per i rimorsi che invariabilmente mi coglieva-
no l’indomani; certo è che, pur essendo un mangia-
preti, non ho mai avuto il coraggio di prendere da-
naro nelle basiliche! Saverio invece non se ne dava
per inteso, non c’era azione davanti alla quale si
sentisse intimidito. Io lo ammiravo e questa ammi-
razione non fu l’ultimo motivo dei guai cui sarei
andato incontro insieme al mio compare.
Misteriosamente come era cominciata, la guerra
finì, ma ci volle molto tempo prima di tornare alla
normalità. Un ritorno non ci fu anzi mai più, per-
ché tutto era definitivamente mutato. Le comunità
agricole che mi avevano visto nascere non avevano
futuro e sarebbero state spazzate via dagli eventi.
Noi non tornammo più a ***, ma ci stabilimmo a
Lecce, dove mio zio e mio cugino avevano trovato
lavoro.

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Per la città si aggiravano gli americani con le
tasche piene di quattrini, vincitori e colonizzatori,
ingenui forse, ma di certo irritanti. Poche persone,
fra quelle che avevano conservato rispetto di se
stesse, li amavano e li sopportavano. I più miravano
al loro denaro recitando sorrisi da prostituta; i pa-
droni li usavano senza scrupoli per scoraggiare gli
agitatori socialisti e comunisti e per evitare som-
mosse; i sottoproletari riottosi li derubavano
ogniqualvolta se ne presentava l’occasione. Saverio
mi condusse subito, con mano decisa, fra questi
ultimi.

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II

Bianchi, gialli o neri i militari degli Stati Uniti


d’America chiedevano a noi bambini, gesticolando
ed esprimendosi in uno stentato italiano, reso per noi
ancor più difficile dall’abitudine a parlare soltanto il
dialetto. Ci chiedevano di tutto, dal prezzo dei risto-
ranti ai nomi delle vie. Ma soprattutto chiedevano
“quella cosa” agitando i biglietti da un dollaro e gra-
tificandoci di un sorriso complice. Io e Saverio ci guar-
davamo perplessi e dapprima non riuscivamo a capi-
re. Per non sbagliare, tuttavia, intascavamo quanto
ci veniva offerto e cominciavamo a trottare – senza
un senso preciso – per i vicoli della città, con aria
sicura, sperando di essere aiutati dal caso. Alla prima
distrazione di coloro che ci seguivano, ce la filavamo
a gambe levate rifugiandoci in una casa di amici e
lasciandoli di stucco. Un giorno però un ragazzone
magro, rossiccio, pieno di foruncoli, con i denti gua-
sti, ci riconobbe, prese per un braccio il mio compa-
gno e cominciò a tirargli le orecchie gridando in in-
glese delle parole probabilmente offensive.
Intervennero alcuni sfaccendati che bivaccavano
ai tavolini di un bar intimandogli di smettere subi-
to. Dopo un concitato scambio di opinioni (parte in
lingua pugliese e parte in lingua estera, senza che
nessuno capisse un bel nulla) passarono tutti con-
temporaneamente alle vie di fatto e si scatenò una
rissa furibonda, come del resto frequentemente ac-
cadeva in quel periodo.
Ci stavamo leccando le ferite e rievocavamo le
varie fasi della lotta già esagerandone i particolari,
quando gli uomini ci spiegarono che “quella cosa”

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erano le puttane e che i soldati vagavano sempre alla
ricerca di ruffiani o fratelli minori per raggiungerle.
I bordelli erano per la verità liberi e permessi, si
potevano perfino riconoscere per via di un segnale
in vernice posto all’inizio e alla fine della strada.
Molte donne non ne volevano sapere di farsi mar-
chiare sperando di abbandonare al più presto la pro-
fessione momentaneamente intrapresa per fame e
d’altra parte la polizia militare, là, poteva colpire
sicura con le retate. La solitudine dei clienti e la
miseria delle fornitrici si concretavano in una vera
e propria folla che caratterizzava il settore; ma il
genere non era di nostro gradimento. Prima di trala-
sciare la piccola iniziativa trasportammo però an-
cora qualche gruppo di marines a spasso, mollan-
doli (questa volta a ragion veduta) nei vicoli più
malfamati: in fondo potevano trovare ciò che desi-
deravano senza soverchie difficoltà ed esportare ma-
lattie veneree originali italiane.
Gli anni passavano e i notabili avevano già ri-
preso interamente il controllo della situazione. Il
Fronte Popolare era stato travolto, i comunisti
emarginati, i vecchi fascisti tornati ai loro posti fra
l’indifferenza di una popolazione abituata a essere
presa in giro. Nel 1949 io e Saverio eravamo ormai
uomini fatti nonostante avessimo solo dodici anni.
Cresciuti dalle circostanze, sapevamo smontare sen-
za difficoltà le ruote di ogni autovettura, portar via
qualche piccola valigia dalla stazione centrale e per-
fino (ma con il fiato in gola) sfilare l’orologio dal
polso di una persona distratta. Avevamo maturato
una profonda avversione al lavoro, osteggiata dalle
nostre famiglie che non intendevano sfamare due
perdigiorno e che non esitarono quindi ad affidarci

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– dopo breve trattativa sul compenso incamerato
direttamente da loro – al nostro primo padrone per
un impiego saltuario.
Si trattava di un individuo assai grasso (seppur
non obeso) che ci utilizzava come facchini cavan-
dosela con pochi centesimi. Dovevamo caricare di
maglie, magliette e camicie un furgone di media
portata, sudando senza un attimo di tregua. Alla
prima sosta, infatti, quel bastardo si affrettava ad
allungare pesanti calcioni (per raddrizzarci la schie-
na, diceva) così da accelerare di nuovo il ritmo. In
capo a due o tre mesi se non avevamo accumulato
risparmi, avevamo però immagazzinato tanta rab-
bia in corpo e tanto odio da desiderar la morte di
quell’aguzzino in un qualche incidente stradale pro-
vocato dalla Divina Provvidenza. Tornava invece,
e puntualissimo. Tendeva anzi a incrementare il
numero dei suoi viaggi (e di conseguenza della no-
stra fatica), agitandosi sempre più man mano che
gli affari prosperavano. Ci mandava a comprar da
bere, ma non ci offriva nulla; poi sputava per terra e
rideva delle sue stesse battute cretine, ripetendole
all’infinito fino a quando non dimostravamo di ap-
prezzarle. Non ne potevamo più e si decise di porre
finalmente rimedio alla nostra situazione.
Dopo aver preparato un piano e studiato atten-
tamente lo svolgimento dei fatti, una volta saltai
dentro il camioncino mentre stava per partire. But-
tai giù subito un paio di scatoloni scelti a casaccio
nel mucchio, poi scesi anch’io approfittando del
primo semaforo e raggiunsi Saverio che mi aspetta-
va di guardia alla refurtiva. L’aguzzino non si ac-
corse di nulla fino alla consegna della merce; si li-
mitò quindi a sospettare della nostra onestà e a non

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chiamarci più. Avevamo preso i due classici piccio-
ni con una fava: da un lato eravamo esentati da
quell’increscioso servizio, d’altro lato avevamo pure
guadagnato qualche lira dalla nostra impresa.
Il timore di qualche nuova “sistemazione” mi
spingeva a fughe sempre più frequenti da una casa
in cui ero sempre meno desiderato. Dormivo alla
stazione ferroviaria e non era difficile accomodarsi
in maniera conveniente; là però mi acchiappavano
e, con le buone o con le cattive, mi riconducevano
«al luogo di residenza» ove prendevo regolarmente
una sonora dose di legnate ad opera dell’adulto
maschio di turno. Durante i vagabondaggi ebbi
modo di conoscere le solite persone abituate a vi-
vere di loschi affari o di espedienti; Saverio se ne
entusiasmò in maniera incontrollabile e riuscì a con-
vincermi che era giunta l’ora di mettere in atto quan-
to avevamo appreso di male. Su ordini e indicazio-
ni assai precisi ci dedicammo pertanto a rubare in
una lavanderia le divise dei soldati, ricevendo tre
lire per ciascun capo. Naturalmente ci scoprirono
quasi subito, ma, poiché eravamo ragazzini, i pro-
prietari si accontentarono di schiaffeggiarci per due
o tre ore senza dar seguito all’episodio.
Nel nostro quartiere ci tenevano tutti d’occhio e
fu necessario mutare la zona operativa; ci trasfe-
rimmo così in una grande piazza di intenso traffico,
un vero e proprio punto strategico. Sei strade sfo-
ciavano là, creando facilmente l’ingorgo di mezzi
intorno all’obelisco innalzato nel centro. Per i vei-
coli in transito (e fra questi i camion che riforniva-
no la caserma americana di vettovaglie) era
giocoforza fermarsi. Al segnale di Saverio ci avven-
tavamo sul carico come falchi sulla preda, depre-

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dando quanto era possibile in pochissimi minuti.
Prima ancora che gli autisti accennassero a una rea-
zione, noi eravamo già scomparsi, correndo, in una
miriade di viuzze intricate e apparentemente ugua-
li. Si trattava quasi sempre di riso o di scatolame;
ma di tanto in tanto finiva nelle nostre mani il pez-
zo pregiato ed era festa. La nostra piccola econo-
mia prosperava e noi eravamo ben consapevoli di
essere diventati fior di mascalzoni. Saverio era de-
cisamente un fanatico troppo spericolato, ma sape-
va vincere ogni critica con il sorriso e la istintiva
simpatia che ispirava. Così il senso del limite fu per-
duto da tutti quanti e ci si vantava in pubblico, ad
alta voce, delle nostre imprese illecite. La banda si
era stabilizzata in sei membri effettivi e un paio di
simpatizzanti arruolati solo per occasioni partico-
lari; alla sera ci si riuniva insieme fra i colonnati
della Chiesa di Santa Croce. Di rado qualcuno man-
cava all’appello e piaceva a tutti passeggiare o gio-
care nei giardini, rubando la frutta dagli alberi. Poi
ci si comprava il gelato, si fumavano le Kent o le
Pall Mall di nascosto, ci si raccontava delle prime
scopate con le solite vecchie zoccole mammone.
Di lavorare non si parlava neppure più se non per
andare in gruppo a sfottere qualche nostro amico
finito a fare il garzone di bottega.
Non poteva durare, anche perché altri gruppi di
piccoli teppisti avevano seguito l’esempio, così che
i furtarelli erano aumentati oltre il limite di guardia
fissato dalle autorità. La gente aveva dimenticato in
fretta fascismo e guerra, stenti e miseria. Nelle cam-
pagne ricominciavano i disordini, nel mondo c’era
la guerra fredda, nelle fabbriche si scioperava a getto
continuo. I democristiani pensarono bene di dare una

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strigliata e fornirono istruzioni alla polizia; que-
sta, non potendosela certo prendere con i mafiosi
del posto, trovò un assai comodo obiettivo nei ra-
gazzini ladruncoli: “lo scandalo” sarebbe cessato!
Un brutto giorno circondarono mezza città e co-
minciarono con delle retate a colpo sicuro. Ci pre-
sero naturalmente con la refurtiva e la nostra car-
riera di scugnizzi terminò bruscamente. Fummo rin-
chiusi senza tanti complimenti in un campo di con-
centramento e alloggiati, di notte, in grandi capan-
noni con robusti chiavistelli alla porta d’ingresso.
Superavamo i cento ragazzi e i giornali si prodiga-
rono in grandi elogi alla pubblica sicurezza e al mi-
nistero per aver così brillantemente risolto un serio
problema cittadino.
Saverio – nel frattempo rimasto solo al mondo
per una catena di disgrazie – riuscì a vendere bene
il suo volto simpatico tanto da riuscire spregiudi-
catamente a conquistarsi l’adozione presso una ric-
ca famiglia italo-americana. Se ne andò all’estero,
non lo rividi più e non seppi neppure, mai, nulla di
lui: è tuttavia probabile che abbia trovato altri guai.
Noi, i “responsabili”, cominciammo a essere lenta-
mente registrati e poi, altrettanto lentamente, sche-
dati. Dopo quindici giorni presero a dividerci in
gruppi, a lavarci, a tosarci, a disinfettarci. Final-
mente giunsero all’obiettivo che riassumeva in sé
la punizione e la redenzione: ci costrinsero al lavo-
ro coatto e chi non si mostrava contento buscava
sberloni. Di mattina o di pomeriggio ci radunavano
e ci facevano delle ramanzine sul nostro futuro e
sulla necessità di cambiare vita, ma anche gli orato-
ri erano ben consapevoli di spendere parole inutili.
In me, oltretutto, si agitava un desiderio di avven-

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tura troppo prepotente per essere spento da un fun-
zionario ottuso, preoccupato soltanto di arrivare alla
pensione.
Mia madre e tutti i parenti erano felici del mio
sequestro, non so neppure come giuridicamente giu-
stificato. Avevano una bocca in meno a tavola e
speravano che così mi si calmassero in poco tempo
i bollori. Io invece non ne potevo più di essere rin-
chiuso e di pulire i pavimenti nel comando di una
piccola caserma situata vicino al porto; ero deciso
anzi a cogliere al volo la prima occasione per cam-
biare ambiente, a qualunque costo. Non esitai così
ad accettare una collocazione a tutti invisa e diven-
ni inserviente generico (o ultima ruota del carro)
presso l’ospedale psichiatrico. Quel compito dav-
vero ingrato fu una indimenticabile esperienza e
nessun luogo di lavoro mi è sembrato, in seguito,
peggiore di quella fortezza adibita a inferno. Non
appena ebbi confermato l’intenzione di accettare,
mi fecero subito firmare dichiarazioni già preparate
che non mi preoccupai di leggere anche perché ero
semianalfabeta: per larghe linee si diceva che ero
un volontario, che mi impegnavo per un periodo,
che ero consapevole del fatto mio e che conoscevo
tutti i regolamenti. Poi mi consegnarono – una vol-
ta a destinazione – la vestaglia di servizio, forse
bianca in un lontano passato, ma divenuta certo in-
dumento lurido e puzzolente.
Le cure erano molto moderne. Come in guerra
si usava il petrolio per combattere le prosperose
colonie di pidocchi (animali su cui potrei scrivere un
trattato concernente abitudini e comportamenti);
i malati di mente o anche semplici epilettici sfortu-
nati venivano legati per un nonnulla con delle ca-

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tene ad appositi anelli fissati sul pavimento. Se ciò
non bastava (e in effetti poteva accadere) gli inser-
vienti anziani, ormai abbrutiti dal loro stesso me-
stiere, li bastonavano senza pietà: né quelli, inde-
boliti dalla mancanza di cibo e disgraziati, poteva-
no certo pensare alla vendetta. Il cibo superava qua-
lunque fantasia di sadico; basterà dire che io stesso
mi trovai a essere il macellaio di cavalli morti quasi
per la vecchiaia e che non si buttava via neppure la
testa. Funzionari di specchiata onestà, cittadini
modello e sicuramente incensurati, intascavano la
differenza fra speso e dichiarato e si arricchivano
sotto gli occhi di quegli stessi poveracci che oggi si
scappellavano per timore e domani magari sareb-
bero finiti piangendo fra le loro grinfie.
Dalla padella alla brace, dunque. Dopo tre mesi
ne avevo abbastanza di quell’orrendo manicomio,
del tanfo di urina e di escrementi, dell’incontrollata
cattiveria dei miei colleghi, ma soprattutto dei la-
menti continui che percepivo, addormentandomi,
provenienti dalle camerate, e che mi risuonavano
nelle orecchie, subito appena sveglio, nel chiuso
della mia stanzetta. Chi ha parlato delle fosse di
serpenti non mi par proprio sia stato eccessivo. Per
fortuna avevo subito fornito un nome falso, simile
sì a quello reale, ma inesistente e inventato. La pre-
cauzione si rivelò utile permettendo la mia improv-
visa fuga strategica, senza che ne venissi a subire le
conseguenze. Prima di andarmene decisi di com-
piere un gesto folle forse, ma necessario per poter
vivere senza la sgradevole compagnia di un rancore
rimasto invendicato. Non mi vergogno ad affermare
di essermi tolto una soddisfazione capricciosa, e però
grande. Provocai con diligenza un incendio che di-

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strusse, fra l’altro e non a caso, l’autovettura nuova
fiammante di quel vigliacco del vicedirettore, ma
non una vittima (se si esclude un albero secolare
quasi umano). In mezzo a quel trambusto guadagnai
elegantemente l’uscita e me la filai senza dar più
notizia di me. Era il mese di settembre dell’anno 1954
e io ero tornato finalmente libero.

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III

L’esperienza mi aveva insegnato che, per vi-


vere dignitosamente, non si può elemosinare l’al-
trui favore, ma bisogna invece utilizzare astuzia e
ingegno, senza chinare la testa come le pecore del
gregge. Invece di tornare fra i vecchi amici della
malavita leccese (ed essere subito arrestato per l’in-
crociarsi cartesiano di fatti delinquenziali e
astrazioni giuridiche) incominciai a percorrere la
costa, diretto verso il nord, a piedi, vestito come
uno straccione. Portavo pochissime cose e scarse
provviste (pane nero e riso bollito). Dopo due gior-
ni di cammino forzato e non so quanti chilometri,
arrivai, completamente sfinito, a un piccolo paese
portuale, abitato da pescatori, caratterizzato da
numerose barche ormeggiate e da un certo movi-
mento.
Per tutto il giorno, dall’alba fino alla sera, rimasi
sdraiato accanto a un gigantesco e inutile blocco di
pietra granitica, quasi fossi un fantasma, senza più
l’energia per proseguire oltre. L’umanità mi sfilava
davanti senza chiedere nulla, né io ero ormai in gra-
do di rivolgere la parola a nessuno. Credendo di non
essere visto, durante la notte, mi azzardai a mangiare
qualche frutto rubato in un giardino di abitazione
che dava sulla strada; poi mi accomodai a dormire
sul ponte di un motore in riparazione, tirato a riva e
incustodito. Le luci dell’alba mi sorpresero ancora
con le ossa bisognose di riposo, ma preferii cercare
di rimettermi un po’ in sesto con l’acqua del pub-
blico lavatoio, gradito dono alla popolazione di non
ricordo quale famiglia nobile.

26
Nettai tutti gli abiti, e in particolare la camicia;
poi tornai al mio masso, senza più muovermi per
tutto il secondo giorno, deciso a sostenere una vera
e propria prova di forza con l’altrui diffidenza. Il mio
atteggiamento, davvero inusitato, aveva ormai in-
curiosito tutti quanti, ma né io ritenevo opportuno
farmi avanti per primo (perché così mi suggeriva
l’istinto) né alcuno si decideva a smettere di igno-
rarmi. Di aiuto a sopravvivere furono i soliti frutti,
arricchiti da un pesce dimenticato (forse voluta-
mente) nella cesta di una barca e clandestinamente
bollito con il favore delle tenebre.
Le novità – è cosa risaputa – cadono sempre il
terzo giorno. Finalmente mi si fece vicino un
brav’uomo, di nome Ferdinando Cavaliere, affer-
mando di aver capito quale era la mia situazione e
chiedendo, per rompere il ghiaccio, se avessi biso-
gno di qualche cosa.
«Mica sono nato qui, io. Ci siamo arrivati venti-
due anni fa e ti posso dire che ci si trova bene».
«Vorrei lavorare. È possibile? Non mi piace es-
sere così».
«Chi ne ha voglia, trova sempre da fare, ragazzo.
Tu sei giovane e sei solo. Non hai famiglia?».
«Sono morti tutti in guerra, non so dove sbattere
la testa. Voglio diventare un marinaio, in città non
resisto. Volete aiutarmi?».
«Sei troppo magro per questo, sei un chiodo. Vie-
ni a mangiare in casa mia e ne parleremo. Sei sano?
Sei capace di nuotare? Sai muovere i remi?».
«Certamente… e da un pezzo».
Con una sola risposta riuscii a dire ben due bu-
gie, ma anche a cambiare una parte della mia vita.
Quando – di lì a poco – capirono che di mare non

27
sapevo un bel nulla già facevo parte della comu-
nità e non se ne ebbero a male. Passai cinque anni
molto sereni e credevo di aver per sempre sepolto
in me il giovane brigante, la vocazione di avventu-
riero. Sgobbavo senza che mi pesasse, mi voleva-
no bene e imparavo un po’ alla volta i trucchi del
mestiere. Dapprima ricevevo come paga solo il
cibo e il letto; in seguito anche un piccolo stipendio
tanto da riuscire ad acquistare una vecchia Vespa.
Ero felice.
Il peschereccio di Cavaliere conteneva dodici
uomini e gli rendeva. C’era una specie di cella fri-
gorifera raffreddata come si poteva con dei blocchi
di ghiaccio, ma puzzava peggio di un mercato. Usci-
vamo con le lampare, accompagnati dalle barche
battitore che attiravano la preda con luci raccolte
ma potenti. Da come ero salito la prima volta a bor-
do già i miei compagni si erano resi conto – senza
ombra di dubbio – che io non ero mai andato a pe-
sca neppure con la canna e lo spago; tuttavia non
dissero nulla e si fecero in quattro per farmi diven-
tare come loro, ottenendo molto di più in quel modo
silenzioso che con cento urli offensivi. Cavaliere –
patriarca e padrone – mi disse anzi che la mia ine-
sperienza risvegliava in lui lontani ricordi e riaccen-
deva la nostalgia per il suo paese d’origine.
L’inverno era assai lungo, interminabile quasi.
Si usciva di rado e anch’io passavo serate ascol-
tando nell’unica bettola i racconti dei marinai che,
prima di fermarsi, avevano viaggiato per il mondo.
La verità e l’invenzione si intrecciavano continua-
mente, né era possibile distinguere l’una dall’altra:
il tempo aveva creato una strana fusione, forse, nella
stessa mente dei narratori.

28
Ai giudici piace (per loro sciocca deformazione)
controllare l’esatto sviluppo di frammenti inutili del-
la realtà e ciò ho notato nel corso dei miei successi-
vamente frequenti rapporti con loro; perdono così
il senso delle vicende. A me piaceva invece sentire
di navi affondate, di terre lontanissime e diverse, di
piovre immense, di balene e – perché no? – di mostri
alati, di draghi, di sirene. Né la mia concreta astuzia
di lestofante, addestrato nei vicoli della città, costi-
tuiva un freno alla ingenua passione per simili sto-
rie. Mi rattristava soltanto non averle udite anche
da bambino.
Si faceva un gran parlare del governo di centro
sinistra quando l’incantesimo si ruppe; ma non fu
certo per quello. Più modestamente un certo Giu-
seppe, ubriacone violento e sgradevole, pretese sen-
za ammettere repliche di portarmi a casa sua e non
ne voleva sapere di togliersi di torno, se non accet-
tavo. Lo seguii di malavoglia, trascinato per un brac-
cio da quell’essere malfermo sulle gambe; ebbi così
il modo di conoscere sua moglie Maria. Fui subito
colpito dalla bellezza di questa giovane donna, ob-
bligata a essere la serva di un marito rospo senza
avere in cambio né agiatezza né affetto. Appena en-
trati Giuseppe rotolò sul pavimento sghignazzando
e provocando il risveglio dei suoi due figli di primo
letto. Quando la sposa bambina ritornò dopo aver
riaddormentato quelle creature non sue, il bestione
stava già ronfando ma io esitavo ad andarmene. Ero
giovane e solo; lei non poteva certo essere soddi-
sfatta di un matrimonio imposto. Così fu quasi na-
turale per noi divenire amanti e la mia moto si rive-
lò assai utile per proteggere la nostra relazione da
occhi indiscreti. Nonostante l’agitazione (non era

29
difficile, in quel tempo, beccare un proiettile o una
coltellata per le corna) ci divertivamo molto insie-
me e scopavamo come i conigli; per ore e ore ci
arrovellavamo a studiare come incontrarci pochi
minuti e ogni scusa era buona a giustificare lo sfogo
dei nostri sensi.
Sentendosi desiderata Maria diventava ancor più
desiderabile e la sua disponibilità fu la levatrice della
mia natura che riprendeva il sopravvento. Comin-
ciai ben presto a fingermi malato per essere pronto
a stare con lei ogniqualvolta se ne presentava l’oc-
casione e riuscii a superare con pieni voti le prime
“visite fiscali” di Ferdinando Cavaliere, uomo assai
profondo nell’esame dell’animo umano.
Lavoravo sempre meno e sempre con minor vo-
glia, specie dopo aver ottenuto la complicità di una
certa comare Rosa, prestatasi ad aiutare la tresca non
solo grazie alle piccole somme che periodicamente
le regalavo, ma anche per odio antico nei confronti
di Giuseppe. Le sensazioni precedono gli occhi non
di rado e, se pur nessuno poteva dire di avermi vi-
sto, tutti avevano la certezza che io nascondevo
qualche cosa: un equilibrio saggio si andava alteran-
do e la comunità reagiva con l’indagine. La corda,
troppo tesa, rischiava di spezzarsi da un momento
all’altro; mi sentivo pedinato in ogni istante ed en-
trambi avevamo capito che di lì a poco ci avrebbero
scoperti con tutte le conseguenze del caso.
La forza di ribellarci mancava e stabilimmo di
lasciarci, di non vederci mai più. Una simile deci-
sione costò assai a entrambi; ci pareva però di non
avere altra scelta e forse era davvero così. Il taglio
netto parve la cosa preferibile e mi trovai coinvolto
in una volontaria condanna all’esilio al seguito di

30
un marinaio che aveva combinato per me l’imbarco
su una grandissima nave, chiamata Mar della Plata
e diretta verso un Oriente a me non meglio specifi-
cato, con partenza dal porto di Genova. In oltre
vent’anni avevo percorso poche decine di chilome-
tri e d’improvviso si parlava di nuove distanze che
la mia mente neppure riusciva a catalogare fra i con-
cetti comprensibili.
Davanti alla corriera, a mezzo mattino, aspetta-
va Ferdinando Cavaliere che mi abbracciò con l’af-
fetto di chi pensava fossi caduto in un errore umano
e che la mia partenza fosse giusta decisione di un
uomo a cui voleva bene. «Mi dispiace», disse sem-
plicemente e io ne fui commosso. Quando – molti
anni dopo – ebbi a chiedere di lui, seppi che era morto
di un dolorosissimo tumore e ne soffrii. Di tutte le
finzioni, l’assenteismo ai suoi danni è stata quella
che mi è costata maggior fatica, la più difficile.

31
IV

Mar della Plata levò le ancore dal porto di Ge-


nova, puntualissima, ma senza Salvatore Messana
a bordo. Il vostro amico se l’era filata proprio al-
l’ultimo momento e aveva preferito rimanere con
Marcella sulla terra ferma, trascorrendo giornate
oziose, affascinato dalle novità che gli sfilavano
davanti agli occhi. Privo di mezze misure come
sono sempre stato, mi ero subito convinto di non
poter vivere senza quella brunetta timida e minuta,
capace di travolgere nell’intimità. Ero innamorato
come uno zucchino lessato nel brodo e trovai na-
turale chiederla in sposa dopo solo venti giorni.
Fu un disastro; non si parli mai più con ironia della
mentalità meridionale. Mi trovavo nella capitale
della nordica Liguria, ma la reazione alla mia pre-
tesa non aveva nulla da invidiare a quella presumi-
bile della natia ***. Innanzitutto non fu ben visto
il fatto che – per continuare a esser vicino a quel
fiore – mi fossi dimenticato e disinteressato del li-
bretto di navigazione e avessi quindi perduto l’im-
barco, il lavoro, lo stipendio; colpì poi sfavorevol-
mente l’evidente tranquillità con cui accettavo uno
stato assolutamente precario, senza garanzie per il
futuro.
Deciso tuttavia a superare ogni ostacolo per
convolare a giuste nozze, parlai con la madre di
Marcella, arbitra unica da quando il padre, tempo
addietro, aveva raggiunto il Creatore. L’anziana si-
gnora mi fece accomodare su una poltrona di legno
ricoperta di velluto damascato, improntata a un cer-
to qual pessimo gusto come del resto l’intero salotto.

32
Mi sentivo oppresso, circondato com’ero da Loreti
impagliati e Venezie a mosaici, da mobili mai usati,
dall’insieme di cianfrusaglie di scarso valore acqui-
state ad alto prezzo presso un abile commerciante.
Il mio sguardo non riusciva a distaccarsi da un vo-
luminoso porro che adornava la parte superiore del
labbro della signora e che rendeva ancor più sgra-
devole il sorriso di circostanza un po’ imbarazzato
e un po’ bugiardo. Il bitorzoletto tondeggiante, ru-
vido, duro come un callo, si agitava seguendo i mo-
vimenti determinati dall’uscita della voce chioccia
(invano tentava invero di nascondere la forte ca-
denza ligure) che mi proponeva del nocino. Senza
attendere il mio cortese rifiuto, la madre di Marcella
ne versò una dose nel bicchierino decorato di ver-
nice argentea; subito il sapore dolciastro e nausean-
te mi consigliò un consumo lento, per evitare la se-
conda razione, probabilmente fatale a chiunque non
fosse cronico etilista.
«Ti stimo, – disse, – e capisco che sei un ragazzo
in gamba; potrei anche volerti bene perché sei sim-
patico. Ma mia figlia te la scordi, non la sposi. Ho
capito subito che non ti piace lavorare e non sei
neppure delle nostre parti».
Circa la voglia di lavorare pensai si trattasse di
una fattucchiera o di una indovina, ma negai ugual-
mente tentando di convincerla con una appassio-
nante recitazione nella parte del fannullone redento
per amore. Quella era però irremovibile e concluse
sul patetico: «Io e Marcella abbiamo sofferto trop-
po. Tu non devi vederla più e anzi le ho già trovato
un buon marito, adatto al suo carattere, tranquillo.
Per aiutarti, tuttavia, mi sono permessa di farti
fare il libretto di navigazione… eccolo qua, tieni!

33
Se vuoi, rivolgiti a questo indirizzo e fra tre giorni
puoi imbarcarti sulla nave chiamata Sultana e partire.
Contento, Salvatore?».
Aveva davvero pensato a tutto, quella megera.
Con l’aiuto del mio concorrente (ufficiale di marina
mercantile) era riuscita a togliermi di mezzo. Rice-
vevo una pugnalata al costato e stavo anche ringra-
ziando! Capii subito che Marcella non si sarebbe
mai ribellata a una simile genitrice e così me ne an-
dai senz’altro presso la compagnia di navigazione a
firmare il contratto d’imbarco su quelle dodicimila
tonnellate dirette in America. Mi guardavo allo spec-
chio mentre mi radevo la barba e mi piaceva pensare
di essere un eroe che si sacrificava per il bene altrui;
ma intuivo che non ci sarebbe stato il lieto fine con
cui si concludono i fumetti. Lei era destinata a di-
ventare una casalinga nevrotica; io a sgobbare come
un somaro.
Bando alle malinconie! Avevo realizzato un so-
gno per lungo tempo covato e potevo finalmente
considerarmi un marittimo. Raggiunsi l’imbarcazio-
ne a Marsiglia, provando così l’emozione del pas-
saggio di frontiera: a sentir tutti parlare in francese
mi veniva da ridere. Quanto alla nave, mi sembrò la
cosa più bella che avessi mai visto. Non mi stanca-
vo di osservare e toccare la cabina, la doccia, i ser-
vizi, il letto comodo, le rifiniture curate, la pulizia,
la tappezzeria applicata da mani esperte. Nei locali
comuni intere pareti erano ricoperte di fotografie;
si trattava di volti di donna con il nome, la data
dell’incontro e il luogo. Nei primi giorni mi teneva-
no compagnia con i loro eterni sorrisi ammiccanti,
così diversi da quelli dei ritratti che troneggiano
nelle case contadine.

34
Non voglio annoiare i miei lettori con un reso-
conto troppo particolareggiato; avendo io trascorso
ben otto anni esercitando questo mestiere, non ba-
sterebbero cento romanzi a descrivere tutte le mie
sensazioni e tutte le mie piccole avventure. Mi an-
davo impadronendo di una certa professionalità e il
vagabondare per il mondo rendeva meno pesante la
fatica.
Diventavo a poco a poco un operaio del mare,
sempre un po’ ribelle, ma non insoddisfatto. Lo sti-
pendio non è favoloso come molti potrebbero cre-
dere, ma si può considerare buono. Non avendo fa-
miglia, disponevo di qualche piccola somma; in parte
dilapidavo e in parte depositavo i risparmi nel con-
to corrente aperto presso la banca di La Spezia con-
venzionata con l’armatore. La conoscenza del si-
stema di deposito e credito mi sarebbe poi tornata,
come vedremo, assai utile.
La navigazione ci rendeva desiderosi di rappor-
ti sessuali non frettolosi, ma le sirene che aspetta-
vano in terraferma costavano una cifra. Ci tengo a
far osservare come – per essere davvero un buon-
gustaio dell’amore – sia necessario avere la borsa
piena di quattrini e una naturale propensione a spen-
derli. Per chi non si voleva abbrutire in infimi
bordelli o rinchiudere in squallide camere di pen-
sione con l’intonaco cadente, non c’era scelta. Pran-
zi, taxi, alberghi, balli, così da trascorrere, da vero
Romeo, ore felici con una Giulietta disponibile; e
infine un regalo capace di lasciare un ricordo non
troppo fuggevole. Eravamo tutti consapevoli di
essere dei randagi e ci era indispensabile rimanere
ancorati almeno alla memoria delle persone cono-
sciute: non a caso marittimi e camionisti sono i pro-

35
letari con le mani bucate e, quando si fermano, mal
sopportano l’onesta parsimonia del metalmeccanico
o il gradualismo innato dell’operaio della grande
fabbrica.
Il danaro speso per agganciare le donne conduce-
va alla bella vita durante le soste e la bella vita ri-
chiedeva sempre più danaro. Un circolo vizioso, dun-
que, come il giuoco o la droga. Subito scartata l’idea
di limitarmi, capii che dovevo darmi da fare nei modi
più svariati. Ricordo di aver creato – con due com-
pagni di lavoro – una vera e propria distilleria clan-
destina a bordo della Sultana; dopo numerosi ten-
tativi falliti eravamo anzi riusciti ad approntare una
ricetta gradita ai nostri clienti. Raccoglievamo tutti
gli avanzi di frutta e verdura, le bucce, i rifiuti e
riempivamo di quell’intruglio una serie di piccole
bottiglie. Quando la parte superiore incominciava a
colmarsi di muffa, si mescolava tutto in un diabolico
impasto, aggiungendo farina, zucchero e ancora ciò
che la fantasia suggeriva fra lo svariato materiale a
disposizione. Si passava l’intruglio un paio di volte
nella serpentina (per ridurre l’alcool metilico) e na-
sceva il liquore. Totò (uno dei soci) aveva acquistato
in Spagna delle etichette e c’era scritto «Aguardiente
de Torre Vega» o qualche cosa del genere. Ricordava
un po’ alla lontana la grappa e aveva un gusto ama-
rognolo; in Finlandia, comunque, non si riusciva mai
a soddisfare la richiesta mentre in Sud America tut-
ti i ristoranti si servivano da noi spacciando a caro
prezzo il prodotto straniero. Le somme incassate –
con l’inevitabile arrotondamento del più multiforme
contrabbando – venivano tutte, per accordo preciso,
destinate ai bagordi, così da non generare sospetti
con una eccessiva mole di risparmi. Tale argomento,

36
da me personalmente escogitato e imposto senza
fatica ai compagni, serviva più che altro a far tacere
la coscienza, giustificando di fronte a noi stessi le
spese più pazze e a divertirci senza inutili rimorsi.
La mia formidabile capacità di trovare valide scuse
a ogni mascalzonata ha sempre determinato una fa-
vorevole accoglienza al vostro Salvatore Messana
presso tutti coloro che amano ingaglioffarsi senza
ritegno.
Un bel giorno facemmo rotta verso il Mar Nero,
con molte soste, ogni volta caricando e scaricando;
il ritorno doveva invece essere diretto e con merce
rumena a bordo. Passato lo stretto attraccammo a
Costantinopoli, in Turchia, ultimo scalo prima della
meta.
Istanbul… ci sono tornato di recente ed è ormai
diventata una metropoli spersonalizzata, con tante
case a schiera e tanti turisti. Solo pochi anni addie-
tro non aveva subìto l’aggressione violenta del pro-
gresso che rende tutto uguale; possedeva una sorta
di fascino difficile da spiegare, dava una sensazione
di paura e bellezza insieme. Se i vicoli e i numerosi
delinquenti in circolazione intimidivano anche gente
abituata a viaggiare, nessuno poteva evitare ammi-
razione per il paesaggio da cartolina costituito da
moschee e case basse e mare e cielo.
La porta dell’Oriente era poi aperta a tutti i pia-
cevoli vizi che la mente umana può concepire; e per
consentire di pagarli era aperta, spalancata anzi, a
tutte le attività illegali. Ogni moneta veniva accet-
tata e cambiata dal più miserabile commerciante; ogni
oggetto veniva contrattato e venduto (volevano ac-
quistare un panino mangiato a metà, per strada, ri-
cordo); non c’era merce introvabile fra quella marea

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umana in perenne movimento e naturalmente la dro-
ga poteva essere reperita già allora con la stessa fa-
cilità di un pacchetto di sigarette. Poiché i rari stu-
denti fumavano sul posto e non pensavano – come
più tardi avrebbero fatto – a speculare sul paradiso
e a trasformarsi in trafficanti, i marinai rimanevano
i maggiori sospettati di piccolo spaccio.
Tutte le navi provenienti dalla zona venivano per-
ciò – a seguito di un accordo internazionale non
scritto, ma funzionante – minuziosamente perqui-
site. Non appena la Sultana giunse in Romania, nel
porto di Costanta, se non erro, l’equipaggio fu scos-
so da micidiali burocrati. Tutti erano ancora abitua-
ti all’ambiente del bordello (con sole venti lire tur-
che giovanissime donne erano disponibili per l’in-
tera notte e non passivamente) così che l’impatto
risultò disastroso: a nulla portarono le immediate
offerte di dollari, di vestiario, di liquori. I militari
presero subito a guardarci con occhio fanatico né
mi sono mai imbattuto in servitori dello Stato (come
si usa chiamarli oggi) tanto meticolosi e scorbutici.
Si comportavano con noi assai duramente, quasi
avessero trovato la direzione strategica del complot-
to antisocialista; frugavano nervosamente nelle ca-
bine e nei bagagli, confabulando fra di loro, senza
cedere per un solo istante alla simpatia umana. Non
trovarono questa dannata droga, nonostante il gra-
duato che li comandava si dichiarasse a più riprese
convinto del contrario, invitando a confessare e pro-
mettendo clemenza a chiunque collaborasse. Io ri-
tengo che su quel punto sbagliassero, anche perché
le spie non sarebbero certo mancate (la solidarietà
è un mito, se riferita all’ambiente marinaro). Non
sbagliavano affatto, invece, nel definirci fuorilegge

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e briganti. Durante la perquisizione fu requisito di
tutto: dal mio liquore alle riviste pornografiche, dalle
casse di sigarette ai tappeti delle moschee. C’erano
anche (e qui scoppiò il casino) quarantacinque fu-
cili automatici Remington, con binocolo di preci-
sione, destinati (secondo voce attendibile) a un
mercante dell’Africa del Nord disposto a pagarli una
cifra astronomica. Sequestrarono ogni oggetto che
non era stato preventivamente dichiarato, perfino
pepe e caffè sui quali di solito le dogane del mondo
intero chiudono un occhio. Il capitano spiegò che
era una ripicca dovuta a beghe politiche; comun-
que finirono con l’arrestare tutti quanti e iniziò la
trattativa con la Compagnia, conclusasi presto con
il nostro rilascio e una salatissima multa.
Seguirono venti giorni di sosta: l’armatore pa-
drone brigava da lontano per non pagare e cavarse-
la senza troppi danni. A noi non ce ne fregava nien-
te, una volta avuta la libertà e la garanzia dello sti-
pendio: ci lanciammo alla caccia di fate slave e sco-
primmo subito che il popolo era più disponibile del
governo alle nostre lusinghe. Erano anzi poco abi-
tuate alla presenza di occidentali le ragazze del po-
sto e ci saltavano quasi addosso: coinvolto in varie
storie finii con lo spendere tutto il contante, vendere
gli abiti di ricambio e anche le penne a biro, non so
per quale misteriosa ragione particolarmente ricer-
cate in quei luoghi.
Il console italiano (nazionalità dell’equipaggio)
e quello liberiano (nazionalità della nave) si misero
in mezzo alla faccenda e trovarono una soluzione,
ponendo fine a una presenza che infastidiva le auto-
rità socialiste e provocava decadimento di sani co-
stumi. Ripartimmo con la stiva piena e con il diverso

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nome di «Kirta»: quel figlio di puttana del proprie-
tario doveva aver trovato il sistema di fregare legal-
mente anche i coriacei rumeni! Non so, infatti, se la
multa sia stata pagata, ma, per quel che mi risulta,
mai.
Se gli azionisti potevano tirare un sospiro di sol-
lievo e ricominciare a contare gli utili, Salvatore
Messana era invece in crisi economica. Lo stipendio
non mi era sufficiente (a causa dei numerosi vizi ac-
quisiti) e non potevo neppure disporre della distille-
ria clandestina o di altri proventi illegali. Cominciai
così, per la disperazione, a vendere pezzi della nave.
Dapprima mi limitavo ad appendere qualche guar-
nizione al collo e, una volta uscito, a cercare l’inte-
ressato fra i probabili acquirenti. Poi (al solito senza
limite) cominciai a portare loschi figuri a bordo,
spacciandoli per compaesani o per parenti emigrati:
mostravo loro la mercanzia e raccoglievo gli ordini.
Gli affari andarono subito a gonfie vele e disponevo
ormai di una piccola rete commerciale in ogni porto.
Non potendo, anzi, provvedere di persona al trasporto
degli oggetti (o perché numerosi o perché volumi-
nosi) avevo organizzato prelievi notturni con l’aiuto
esterno; nonostante si trattasse di un sistema com-
plicato e rischioso, nessuno si accorse mai di nulla
durante le azioni. La canzone poteva essere suonata
ancora molto a lungo, vuoi perché a demolire una
nave del genere non basta un’esistenza, vuoi perché
le assicurazioni pagavano oltre il valore effettivo e il
tempo per una seria inchiesta – durante lo scalo –
non era mai sufficiente.
Facevo tutto da solo per timore di bocche scucite
e per non dover dividere il ricavato con nessuno.
Ero stato sempre ben attento a non far intendere

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nulla ai compagni di lavoro e simulare anzi un certo
stupore per le misteriose sparizioni. Ma se avevo
ingannato i colleghi, non ero riuscito a sfuggire agli
occhi attenti, sottili e porcini, del nostro coman-
dante, il quale aveva una percentuale precisa su ogni
illegalità consumata nel suo territorio e intendeva
conservarla. La sera prima di sbarcare a Buenos
Aires, mi chiamò, dopo cena, nella sua cabina e mi
fece accomodare di fronte a lui, con un tono sor-
nione che non prometteva nulla di buono. Aprì il
suo armadietto, posò due bicchieri sulla scrivania e
li riempì senza parsimonia di Calvados, la mia be-
vanda preferita.

41
V

U
« pim», mi disse quasi d’improvviso dimostran-
do di conoscere benissimo il mio soprannome.
«Upim, io avanzo da te la mia parte… e gli interessi
anche. Quando pensi di darmela? Subito è già trop-
po tardi, non credi?». Il suo tono non ammetteva
repliche. Non scherzava affatto, era sicuro di se stes-
so, perfettamente a suo agio nel minacciare educa-
tamente, abituato al terrore che esercita lo spaven-
toso potere di un comandante. Mi fissava con il suo
sguardo duro, ma quasi paziente, masticando una
sigaretta con filtro; la divisa era impeccabile, in or-
dine come sempre, indossata da uomo capace di
essere uguale nell’onestà e nella prepotente illegali-
tà. Mi sentivo tremare, piangevo ormai dalla rabbia
e intanto annaspavo nel disperato tentativo di sal-
vare almeno la faccia. Lui godeva del mio imbaraz-
zo e del mio malessere; mi scrutava sogghignando
e attendeva una risposta mentre tentavo di ucci-
derlo con la forza del pensiero alla maniera degli
indigeni di Haiti. Niente da fare… a noi pugliesi la
cosa non riesce!
«Ho i soldi in ballo, signore. Non appena sbarcati
troverò la maniera di pagare…».
«Ne sei sicuro? È bene, per te, che tu ne sia dav-
vero sicuro, giovanotto… noi dobbiamo passare
molto tempo insieme».
«È certo, signore. L’ultima… come chiamarla?…
l’ultima fornitura non mi è stata saldata. Troverò un
accredito a Buenos Aires e tale somma è Vostra».
Era una trovata un po’ stupida, tanto per guada-
gnar tempo. Ma mi ripugnava proprio cedere senza

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lottare, senza provare a farla franca. Tanti sforzi e
tanti rischi a vantaggio di quel bestione: non riuscivo
a digerire il colpo inferto da un destino malvagio e
ostile. Quella esperta carogna mi congedò dicendo:
«Non cercar di fare il furbo, rispetta l’impegno e
ricorda che io detesto essere preso in giro». Non
appena terminate le operazioni di sbarco e le for-
malità di polizia, volai con un taxi nel quartiere di
Baires chiamato Boga, una specie di Spaccanapoli
dove si ritrovava tutta la gente più losca dell’Ar-
gentina. Non feci fatica a pescare i miei soci e rac-
contai loro che il nostro traffico era finito metten-
doli al corrente di come erano andate le cose. Quel-
li guadagnavano bene con me e andarono su tutte
le furie, bestemmiando e maledicendo il mio per-
secutore. Volevo consigliarmi sulla via migliore per
superare l’inghippo, ma un ragazzo moro e smilzo
mi assicurò che ci avrebbe pensato lui. Aveva due
baffetti alla nobile siciliano, si puliva le unghie con
un coltello a scatto e si aggiustava ogni trenta se-
condi uno strano vestito a righe (doppio petto e cal-
zoni alla zompafuossi). «Non ti preoccupare», dice-
va e intanto mi chiamava “amigo”, mi dava manate
sulle spalle e rideva di un riso proveniente dal petto,
tipico del pazzo lucido.
Ci pensò lui, infatti, e alla sua maniera. Quella
sera stessa il comandante fu aggredito mentre usci-
va dal ristorante. In due lo tenevano fermo e il terzo
gli spezzò prima una gamba, poi un braccio. Tanto
per non lasciargli dubbi o incertezza sul significato
da attribuire a una simile operazione, il moro smilzo
lo avvertì che quella era la sua parte con gli interessi.
E aggiunse: «Se ne vuoi ancora, porco figlio di put-
tana, basta che me lo domandi e sarai subito accon-

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tentato… non hai neppure idea di quante ossa è
capace di rompere un chirurgo come me… adios».
Lo fecero caricare da una macchina pubblica e tra-
scinare in un buon ospedale, ove diagnosticarono
due mesi di degenza e cure.
Sarà stato il desiderio di vendetta o l’aiuto di
qualche Dio (se mai esiste un Dio dei bastardi) ma
quel dannato si rimise in sesto prima del previsto e ci
raggiunse per via aerea a Santos nel Brasile, ove la
nave nel frattempo si era spostata. Io, al solito per-
fetto incosciente, avevo in pochi giorni cancellato
tutto dalla mente e badavo solo a spassarmela con
una compagnia particolarmente piacevole. Facevo
il turista e galoppavo con vetture a nolo per chilo-
metri a vedere un Cristo enorme proteso sulla città
o magari alla ricerca dei ristoranti per ricchi con il
tavolo illuminato dalla candela (una mia piccola ma-
nia). Mi ero fidanzato con la figlia di un commer-
ciante di origine tedesca (un ex nazista? chi lo sa?) e
– fra una promessa di matrimonio e l’altra – mi ap-
partavo con lei nella stanza con balcone di un al-
bergo arredato in stile coloniale. Passai l’ultima notte
brasiliana guardando il mare dal balcone, felice,
spensierato, senza neppure essere sfiorato dal so-
spetto di quanto mi sarebbe accaduto l’indomani.
Ma ciò caratterizza le disgrazie.
Quando vidi in coperta colui che avevo troppo
facilmente dimenticato, mi riuscì di non mostrare
rigidità. «Chi non muore si rivede», dissi con grande
cordialità, come se nulla fosse accaduto. La bile sem-
brò accecare un istante quell’uomo poco avvezzo
alle altrui battute di spirito e ad atteggiamenti in
genere non improntati a timoroso rispetto. Riprese
però il controllo di sé e proprio quella calma mi fece

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presagire la tempesta. «Upim, – sussurrò prima di
ritirarsi, – chiedi in giro qual è il piatto che si serve
freddo. Oppure lo sai?».
Ora mi era ben chiaro di esser rovinato, attende-
vo la punizione e la consideravo ineluttabile. Pensai
con malinconia che probabilmente non avrei più ri-
visto l’allegra compagnia di Santos e che mi avrebbe-
ro atteso invano, di lì a quattro mesi, in occasione
del ritorno della Kirta. L’imbarcazione si stava d’al-
tra parte muovendo e la fuga era preclusa.
Ero certo di non avere scampo, ma decisi di ca-
dere con dignità, per il gusto di rendere ben recitata
la tragedia. Non ebbi bisogno di aspettare a lungo:
dopo neppure due ore già mi era stata comunicata
la convocazione “urgente” in cabina. Niente Calvados
questa volta! Il molosso pretese senza tanti compli-
menti il “suo” danaro e annunciò la restituzione di
quello che beffardamente chiamava l’anticipo rice-
vuto. «Ho 1437 dollari, – replicai umile, – e li vado
a prendere subito». I ruffiani si erano disposti in modo
tale da guastarmi lo spettacolo e ci fu un mormorio
quando mi videro tornare con la mazzetta in bella
vista. «Non ho mai pensato di non mantenere il no-
stro patto, signore. Come potete vedere, ho conser-
vato per Voi il dovuto. Anche se non ha valore da-
vanti ai Tribunali un patto è un patto: deve essere
sempre rispettato». A questa mia ultima afferma-
zione, si mise a ridere fragorosamente, dandomi del
vigliacco. Voleva ristabilire il suo potere e nel modo
più crudele. «Ti eri messo in testa di essere il più
furbo, mezza sega! Ma ti ho gabbato io. Caro il mio
vecchio Upim, adesso che hai saldato il conto ti spet-
tano gli interessi e li avrai: l’ho giurato in ospedale».
I ruffiani appostati fuori non perdevano una sola vir-

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gola guardando attraverso la porta aperta; si dichia-
ravano l’un l’altro soddisfatti e la mia umiliazione
era il premio della loro ignavia. «Coglione, – com-
mentavano, – la finirai di passare per una volpe! Ora
pagherai un prezzo salato e imparerai a rispettare
chi è più grande di te».
Nel trovarmi vicino quel cumulo di espressioni
vigliacche, vennero a cadere gli ultimi dubbi. Fu un
attimo. Cavai fuori dalla manica della giubba un
bastone di legno scuro e robusto che avevo nasco-
sto; poi cominciai con una lucida inconsulta calma
a picchiare – usando tutta la mia forza – sulla testa
e sulla schiena del comandante, trasformandomi in
animale furioso, incontrollabile; fino a quando non
sentii decine di mani, piedi, oggetti calare insieme
sul corpo e il buio: non vidi più nulla.
Al risveglio provai una sgradevole sensazione alle
ossa. Ma ogni tentativo di toccare con le mani i pun-
ti di più intenso dolore fu inutile perché ero incate-
nato. Mi trovavo nel buco di lamiera tristemente noto,
appunto, come “pozzo catene” e là ero destinato a
rimanere fino a Dackar, nel Senegal. Per una strana
ironia della sorte, io, operaio bianco, percorrevo, a
ritroso e nelle stesse condizioni, la medesima rotta
degli schiavi. Il sole equatoriale arroventava il me-
tallo facendomi soffrire pene d’inferno per tutto il
giorno; di notte mi faceva compagnia la febbre pro-
vocando incubi e batter di denti quasi senza sosta.
La tortura – perfezionata nel corso dei secoli – pre-
vedeva che mi si passasse quel tanto di acqua e cibo
necessario a una incerta sopravvivenza; ma chi prov-
vedeva all’incombenza aveva soffocato ogni cedi-
mento all’umanità e non osava – per timore del ti-
ranno – scambiare una sola parola con me. Perfetto

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esecutore di una collaudata formula, il comandante
aveva deciso di presentarmi come un pazzo furioso
e mi stava preparando a recitare nel migliore dei modi
la parte che il suo copione prevedeva. La solitudine
era terribile tanto che di lì a un paio di giorni spro-
fondai in una specie di angoscioso dormiveglia, da
cui mi sollevavo soltanto quando mi liberavano una
mano per consentirmi il nutrimento: era quello il mio
unico rapporto con la realtà esterna. Nel corso delle
mie allucinazioni rivedevo sovente i fotogrammi di
una pellicola ambientata nei tempi antichi, Barabba
mi pare. Mi identificavo nel protagonista che esce,
miracolosamente salvo, dalla miniera nella quale tutti
i compagni erano morti. Purtroppo non era un so-
gno; io avevo perso ormai la sensazione del tempo e
ogni ironia era venuta meno.
Se non morii credo sia stato solo per ripicca o
magari per istinto di conservazione; certo mi fu di
aiuto la debolezza che impediva di ragionare sulla
sorte toccata al povero Salvatore Messana. L’odore
ripugnante dei bisogni corporali, depositati attorno
al mio involucro umano fin dalla partenza, si faceva
sempre più forte; né era gradevole il continuo con-
tatto con il ferro che causava ampie vesciche alla
pelle, in svariati punti. Sapevo bene, inoltre, che
nel non improbabile caso di collasso, sarei stato
buttato senza complimenti in pasto ai pescecani e
non si sarebbe saputo mai nulla di me.
Secondo successive ricostruzioni il calvario durò
– pare – diciassette giorni e sedici notti. Non appena
la nave consentì la vista del porto africano, con ap-
posite bandierine, fu segnalata la presenza a bordo
di un pazzo pericoloso, con la implicita richiesta di
pronto intervento sanitario e di ricovero d’urgenza.

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Quanto a me, riuscii a comprendere (senza conosce-
re il futuro) l’arrivo e la sosta dal rumore atroce delle
ancore calate che rimbombavano nel pozzo catene.
Fu agonia nell’agonia, lunga serie di attimi intermi-
nabili fra un suono e quello successivo: io non riu-
scivo tuttavia a distinguere e ordinare con il pensiero
alcunché. Il dubbio di essere irreversibilmente dive-
nuto un malato di mente si era impadronito di me e
ancor oggi mentirei se mi dicessi certo di aver supe-
rato la sconvolgente esperienza.
Quando mi tirarono fuori dalla penombra incan-
descente gli occhi bruciavano a causa della luce di-
retta che mi mancava da tempo; se la memoria non
mi inganna (e la guida turistica non ha mentito) un
tale morì per una cosa simile, uscendo dalla prigione
di un castello della Loira ove mi aveva trascinato in
visita – molti anni dopo – certa Marinella, studen-
tessa fuori corso di Lotta Continua. A me andò me-
glio: con uno sforzo immenso riuscii anzi a intrave-
dere tre giganti negri, con la testa pelata e il camice
bianco, avvicinarsi a me. Mi afferrarono con vio-
lenza, ma mi sembrarono ugualmente liberatori ve-
nuti da una lontana galassia: il loro arrivo coincide-
va con la fine dell’incubo. Dopo un mesto sorriso di
circostanza (non so se apprezzato o meno) persi co-
noscenza e mi svegliai, legato sul letto dell’ospeda-
le psichiatrico di Dackar. La Kirta sarebbe di lì a
poco ripartita senza di me e non ne avrei saputo
notizie fino al mio ritorno in Europa.

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VI

Mi avevano disinfettato a dovere e io non riu-


scivo a resistere più di un paio di minuti senza la-
mentarmi sonoramente a causa delle piaghe che bru-
ciavano rimarginandosi. Tuttavia capivo di ripren-
dermi e nonostante fossi ancora ben legato al mio
lettino mi sentivo ogni giorno meglio. Non mi di-
spiaceva neppure il continuo via vai di sanitari e
curiosi al mio capezzale; l’isolamento riservatomi
come pericoloso si concretava, in fondo, nel van-
taggio di essere esentato dal quotidiano del mani-
comio e mi consentiva un graduale contatto con la
realtà. Gli inservienti avevano poi un certo rispetto
per l’unico internato occidentale. Debbo anzi pre-
cisare che mi era sembrato assai più terrificante la
precedente esperienza italiana e che i pazzi del
Senegal godono certo di maggior rispetto e di mag-
giori cure rispetto a quanto avviene nel nostro
civilissimo Paese.
Una volta ripulito e parzialmente restaurato (rin-
grazio Dio o chi per Lui di avermi concesso una
robusta fibra) medici, inservienti, autorità varie si
resero conto di come il mostro venuto dal mare non
era brutto come lo avevano descritto. Così fui final-
mente slegato e, camminando, le ferite presero a gua-
rire celermente. Con gesti e parole si creava il rap-
porto umano fra me e quelle genti diverse, riavvi-
cinandomi alla vita. Dovete sapere, inoltre, che a
Dackar tutti si stringono la mano per un nonnulla e
la cosa mi divertiva non poco: quella sorta di giuoco
penetra nello spirito e contribuisce all’ottimismo,
magari irrazionale ma ugualmente profondo. I negri

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della costa atlantica saranno anche primitivi o sel-
vaggi, ma con me furono proprio adorabili e gli abi-
tanti delle periferie industriali (luoghi certo meno
praticabili, per le persone indifese, dell’Africa di
Nord-Ovest) dovrebbero impararne alcuni lati ca-
ratteriali per elevare la qualità – se non della vita –
almeno della convivenza. Io confesso di aver avuto
fino a quel periodo radicati pregiudizi razziali (per
esempio rifiutavo categoricamente di fottere le don-
ne di colore e sostenevo puzzassero) ma la vicenda
finì con il guarirmi da una simile sciocchezza, di
cui, oggi, mi vergogno.
Nonostante il clima gradevole, la gioia delle pri-
me passeggiate fra i giardini e il calore umano non
mi si scrollava di dosso l’apatia e il professor Xavier
Bonghor non se ne faceva una ragione. Il clinico –
cinquantenne, ironico, smaliziato figlio delle colo-
nie e scettico sostenitore del socialismo nazionale
– mi aveva in simpatia, mi interrogava a lungo, vo-
leva vedermi dimenticare le atrocità subite. Io gli
spiegavo di avere il terrore del ritorno a casa; né
aveva un senso il recupero per trovarsi poi in galera,
a scontare, come minimo, diversi anni dopo, un pro-
cesso per tentato omicidio. E quand’anche non mi
avessero processato, mi attendeva certo la vendetta
di un altro marinaio, alla mercè di aguzzini con il
camice bianco.
La pazienza pervicace del mio protettore portò
alla scoperta che avevo invece avuto fortuna (tutto
è relativo, naturalmente!). Il guaio era infatti acca-
duto in acque internazionali, a bordo di una nave
liberiana. Il governo di quella parodia degli Stati
Uniti non aveva alcun interesse a perseguitare un
poveraccio come me, rischiando fra l’altro di tro-

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varsi una bocca in più da sfamare nelle poche celle
a disposizione; né rientrava fra i miei progetti futuri
recarmi in quello Stato lontano e privo di lusinghe.
Tutti pensavano poi di avermi inflitto una punizio-
ne sufficiente (e non lo pensavano a torto!): mi tro-
vai così, inaspettatamente, libero da carichi ulteriori
e padrone del mio destino. Accettai pertanto di es-
sere dimesso e rimpatriato, con il morale alto e grandi
speranze; per la prima volta nella mia esistenza mi
apprestavo, fra l’altro, a salire su di un aeroplano,
pagato dalla diplomazia italiana presente in quella
sgangherata rappresentanza estera.
L’addio fu una piccola cerimonia. Salutai molte
persone care e in particolare il medico dalla pelle
nera che mi aveva salvato due volte. Credo di do-
vergli tantissimo né ho mai dimenticato il suo sguar-
do buffo che sfociava in una aperta risata ogniqual-
volta gli raccontavo l’episodio della bastonatura del
comandante, da lui accompagnato puntualmente con
non equivoco gesto delle mani.
Tornai in Liguria alla ricerca di un nuovo imbar-
co e rividi Marcella – la sposa mancata – con suo
marito e con una bambina. Scappai a gambe leva-
te, prima di commettere un adulterio, tanto mi era
sembrata bella e disponibile: a un ulteriore garbuglio
preferii il lavoro! Dopo undici mesi trascorsi sulla
gigantesca Butterfly (un equipaggio pugliese im-
piantato all’ombra della bandiera panamense) il
Vostro non più giovane narratore si recò a Napoli
allettato dall’alto stipendio offerto per il lavoro su
un cargo greco. Non appena salito sul ponte, mi
resi subito conto che quello era la Cayenna, un luo-
go adatto solo ai deportati (che ci erano peraltro
costretti). Non c’era un solo marinaio a cui non man-

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casse qualche cosa: o un dito o un orecchio o i den-
ti o i capelli.
Pochi secondi di riflessione e accusai subito i sin-
tomi degli orecchioni (che, toccando le palle, su-
scitavano malcelato terrore) riuscendo a ottenere,
fortunatamente, il congedo con una piccola som-
ma di consolazione. Avevo ormai capito come la
mia carriera di marittimo fosse giunta al termine,
non tollerando più né il corpo né la mente quella
vita stravagante.
Il diavolo della vendetta era in agguato. Con i
miei risparmi commisi perciò l’imprudenza di tra-
sferirmi a Stoccolma per quello che mi sembrava
l’ultimo doveroso atto, prima del ritiro definitivo
dal mare. Non fu difficile reclutare tre complici per
realizzare un piano ai danni degli aguzzini della vec-
chia Kirta: noleggiata una macchina raggiungem-
mo perciò la base nemica, in Finlandia, provocan-
do cospicui danni con un meticoloso incendio del-
le merci. Purtroppo fui denunciato la notte stessa,
mentre festeggiavo in una taverna, da uno dei par-
tecipanti vendutosi al comandante e l’arresto fu ine-
vitabile.
Al processo tutti i giudici si convinsero di avere
di fronte un pazzo né il mio comportamento in aula
servì a far mutare loro opinione. Non ho idea di ciò
che disse il difensore, ignorando io la lingua di quella
regione; non conoscendo neppure il codice penale
là in vigore sarà il lettore curioso a stabilire se la
pena di sette mesi sia stata mite o no. Li scontai
comunque tutti senza esserne troppo molestato e
non rimpiango quel gesto.
Forse sono davvero impazzito in quel pozzo ca-
tene, ma potevo rinunciare a una qualsivoglia rea-

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zione, dopo aver subìto la tortura? Potevo rispettar
me stesso senza aver dimostrato ai persecutori che
ero ancora capace di lottare?
Mi risultava incomprensibile la politica, ma ciò
che mi fece male fu soprattutto il tradimento di un
marinaio come me e che pure, prima, si era dimo-
strato felice di colpire l’armatore. Per quanto la mia
mente possa vacillare, sono certo che non sarò mai
capace di vendere un amico, qualunque cosa costui
abbia fatto. E se scoprirete il contrario, tiratemi il
collo: me lo sarò meritato!

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54
PARTE SECONDA

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56
ABITARE A MILANO

Rimasi parecchi mesi inattivo, dopo il carcere.


Mi divertivo a vagabondare nella zona del lungo-
mare, in Nervi, spesso insieme a una compagnia
raccogliticcia, ma non di rado da solo. Come i si-
gnori dei tempi antichi dedicavo anche un certo tem-
po a visitare – in varie città italiane – amici o cono-
scenti di cui avevo diligentemente annotato l’indi-
rizzo. I miei risparmi andavano però rapidamente
esaurendo e presi allora la decisione, sempre respin-
ta, di trasferirmi a Milano cercando lavoro e av-
ventura. In Liguria avevo conseguito la patente di
guida e il mio disprezzo per la cautela aveva per-
messo che in breve diventassi un pilota abile e
spericolato. Mi sentivo anzi una specie di cavaliere
del teatro dei pupi, con qualche macchia ma senza
paura, quando mi mettevo al volante sfruttando al
massimo la potenza di una vecchia BMW (in perfet-
te condizioni di motore) che avevo acquistato da
un contrabbandiere svizzero ritiratosi in pensione
per limiti di età.
Si avvicinava l’inverno; era già il mese di ottobre.
Da buon disperato meridionale con precedenti pe-
nali, non trovai di meglio che un posto letto nella
via Gaudenzio Ferrari e a caro prezzo. Si trattava
della solita camera ammobiliata che una donnetta
affittava abusivamente, senza far domande a chi
pagava anticipato, disposta a tutti gli inquilini pur
di arrotondare la pensione e sopravvivere. Il tempo
uggioso e il cielo sempre coperto mi colpivano sfa-
vorevolmente né la metropoli mi pareva – a prima
vista – quella Mecca dorata di cui fantasticava l’am-

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biente dell’emigrazione. Era anzi la città dei cada-
veri viventi! Tutti si aggiravano indaffarati per quella
bolgia grigiastra segnata dallo smog e si autocondi-
zionavano a lavorare freneticamente, per non esse-
re sopraffatti dalla solitudine, per giustificare le pro-
prie infinite sofferenze di condannati a vendere il
tempo al padrone.
Milano non è un posto facile, non ammette mez-
ze misure. O la si ama o la si detesta con forza.
Ancora oggi che ho qui la gran parte delle amicizie
e degli affetti, che ho imparato a goderne gli angoli
e lo spirito al punto di non voler più mutare la mia
radice ormai stabile, ancora oggi capisco come al
nuovo arrivato possa apparire fredda, oppressiva,
compartimentata e implacabile nella sua peraltro
apparente efficienza.
In quei primi giorni percorrevo avanti e indietro
il corso Buenos Aires senza riuscire ad afferrare gli
ambienti; né la sorte migliorava se mi infilavo nella
contrastante ragnatela di strade con le case fatiscenti
che si dipartivano dalla grande arteria: non serviva
infatti a nulla la superficiale, distratta cordialità dei
bottegai o la conversazione appicicaticcia dei vec-
chi che stazionavano negli ultimi trani, sotto le case
a ringhiera. Le giornate vuote ma sfiancanti termi-
navano in trattoria. Mi ricordo il prezzo dell’abbo-
namento: dodici pasti, diecimila lire, quartino com-
preso, bevanda esclusa. In quel club degli aspiranti
suicidi (ma erano rari anche i suicidi) pareva il pa-
radiso quando potevi scambiare due parole in più
con chi divideva occasionalmente il tuo tavolo e se
ne usciva una risata piena era il tredici al totocalcio!
E il lavoro? Ah… già… il lavoro… Lo cercavo, ma
nonostante bugie abili e ragionate non mi si offriva

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niente di meglio che scaricare casse con le carovane,
cosa che mi guardavo bene dall’accettare. Parlavo
poco, ascoltavo molto, sguazzavo come un porcel-
lino nella melma senza guadagnare l’uscita dal por-
cile e mi ritiravo, invariabilmente incazzato, nella
mia cella.
Una notte fui svegliato dalle sirene della polizia
che stava circondando la casa (si fa per dire: a Mila-
no si blocca l’uscita e non c’è bisogno di circondare).
Mi affacciai comunque alla finestra giusto in tempo
per vedere un numero eccessivo di piedipiatti pre-
cipitarsi con la loro consueta inutile spavalderia den-
tro il portone (aperto: la serratura era rotta da sette
anni). Alcuni agitavano la pistola, altri imbracciavano
il mitra MAB. Stavo ancora sbadigliando perplesso
ed eccoli picchiare come forsennati all’uscio del-
l’appartamento, mentre si udiva dalle scale dei pia-
ni sottostanti il vociare dei rastrellati. Si comporta-
no così solo con i poveri e gli sprovveduti; avete
mai sentito di un casino simile davanti all’abitazio-
ne di Calogero Vizzini? Quando dormo mi si secca
il palato e il mio problema era quello di produrre
saliva per far cessare il fastidio; mi sforzavo in quel
particolare compito quando, aperta la porta, mi tro-
vai spinto in malo modo, vestito del solo pigiama,
nell’atrio d’ingresso.
Avevano avuto una soffiata da qualche balordo
in difficoltà finanziarie e cercavano della refurtiva:
fino a quando non l’ebbero trovata (e la trovarono)
tutti i sospetti, ovvero tutti i maschi sani fra i quin-
dici e i sessanta, rimasero faccia al muro, con le mani
ben alzate. Un agente con il naso lungo come Pinoc-
chio – e povera la mamma quando l’ha visto dopo
aver partorito – mi teneva la canna sulla spina dor-

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sale provocando la giusta umidificazione in bocca
ed evitando che io fossi assalito dal mal di testa.
Evitai di esprimergli, tuttavia, la mia gratitudine.
Di lì a quindici minuti fecero per andarsene trasci-
nando un paio di disgraziati cui avevano messo le
manette. Io rimasi assolutamente esterrefatto nel
constatare che tutti cominciavano a sfollare con
naturalezza, come al termine della festa dell’Unità.
Mi venne spontaneo commentare:
«Potreste almeno chiedere scusa di aver distur-
bato a quest’ora quelli che non c’entrano, i cosid-
detti innocenti».
«Qui non esistono innocenti», affermò sarcasti-
co un commissario in borghese, alto, grosso, con la
barba folta, che seppi poi chiamarsi Voltolin.
«Non mi sembra una battuta divertente e mi pare
che le scuse siano d’obbligo», replicai, guardandolo
in viso.
Ci fu il gelo, anche perché quel Voltolin era assai
noto nella malavita come carogna poco legata al
regolamento e in compenso facile alla cattiveria
lucida. Domandò a sua volta:
«Dici a me, pezzente?».
«E a chi, se no?», azzardai, deciso ma ormai im-
paurito.
La montagna di grasso e muscoli manteneva un
ghigno strafottente e non sembrò considerarmi. Si
accese soltanto una sigaretta e aggiunse: «Mettete
le manette anche a lui e portatelo via… per accer-
tamenti… non ha la carta d’identità e sicuramente
non risiede a Milano… domani lo rispediamo al suo
paese».
Mi aveva fottuto, il bastardo. Il foglio di via era
sicuro dato che non avevo il lavoro. Mi trovavo già

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dentro una specie di furgone cellulare quando si
intromise un bel tipo, con la faccia aperta e simpa-
tica, sulla quarantina abbondante; il fisico robusto
e tarchiato stonava tuttavia all’altezza dello sto-
maco che tradiva una troppo lunga consuetudine
con il barbera. Si esprimeva in schietto linguaggio
meneghino e bloccò confidenzialmente il barbuto
sentenziando:
«Dai… a bott lì… ghe se soffega la vos a quel
pirla d’un teron… sciori, non mettimel denter, non
rompetegli le balle o muore, l’è on salamon mal
insacca…».
«Didì, sei di buon umore? Non dovresti… se non
ci vai stanotte a San Vittore, sarà la prossima volta,
canaglia di un ladro!».
Il mio improvviso difensore non si offese mini-
mamente.
«Mi caschino le mani, illustrissimo, se ho mai
rubato cinque lire», e dicendo ciò nascose ridendo
le mani dentro la manica della giacca come per rea-
lizzare la maledizione invocata. Proseguì:
«Bott lì… respettor compii… scolta… se lo por-
tate via in pigiama l’Unità scrive che fate i balletti
verdi in Questura».
Io seguivo la strana conversazione sempre rin-
chiuso, muto e infreddolito. Finalmente mi fecero
scendere fra un insulto e l’altro e se ne andarono
salutando: «Ciao, fogna».
Erano le tre del mattino. Didì si rivolse a uno dei
rimasti (padrone della bettola) e gli ingiunse di tirare
fuori subito una bottiglia, precisando che toccava a
me pagare (o meglio: «a quel baravar d’un barlafus
d’un bicciolan d’un teron»). Fra un ringraziamento e
l’altro si accumulavano le bottiglie vuote e l’alba ci

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sorprese ubriachi fradici, dopo aver chiacchierato a
lungo e in buona parte a vanvera. Verso mezzogior-
no lo accompagnai alla Bersagliera di Piazza Tirana
e mi presentò a un suo amico, chiamato Tarzan, che
dirigeva l’ufficio di collocamento dei balordi. Mi fece
prima l’esame orale, poi una prova pratica e fui infi-
ne assunto come autista di una casa di giuoco d’az-
zardo clandestina. Le mie mansioni erano in fondo
assai semplici. Dovevo rimanere parcheggiato nelle
immediate vicinanze e – se arrivavano le pantere –
caricavo i clienti di rispetto scappando a tutta velo-
cità e seminando la madama.
Finalmente avevo un lavoro e mi si apriva una
Milano diversa, più umana, quella di una tranquilla
malavita d’epoca, insediata nei quartieri popolari del
Ticinese, del Giambellino, della Barona. Strana gen-
te: legata alla famiglia da un lato, ma incapace di
accettare le regole e dunque pronta a trascinarsi
zingarando per un’intiera settimana, sostenuta dalla
cocaina. Altre droghe non ce n’erano e nessuno le
cercava o le spacciava. Un mondo parallelo a quello
dei picciotti un po’ fanatici di corso Buenos Aires,
meno disponibile ad ammazzare, più disposto a pas-
sare sopra gli sgarri e perfino sopra i tradimenti…
forse più specializzato nel piccolo reato di destrezza
e sicuramente meno attento ad accumulare profitti.
Si guadagnava poco, infatti; ma in compenso ci si
divertiva spesso, spaziando dalle osterie miserabili
del Naviglio ai locali di Brera, dove non era impossi-
bile caricare qualche riccastra in calore. Magari ne
veniva fuori un casino, come quando Didì diede un
cartone con le nocche della mano destra sulla spina
dorsale di una marchesa (che gli aveva gridato: «pic-
chiami!») e poi si era stupito di vederla scappare dal-

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la macchina, senza mutande, a metà scopata. Tarzan
aveva invece una simpatia speciale per le risse: non
appena il vino superava il livello di guardia attacca-
va briga con chiunque e ci coinvolgeva, da quel mo-
mento, in una continua altalena di legnate e di fu-
ghe da un capo all’altro della città.
Alla bisca me la cavavo benino e mi ero fatto
anche una certa fama. La piesse cominciò pertanto
a tenermi d’occhio fino a quando – depositati i pas-
seggeri al sicuro – riuscirono a incastrarmi; ci si era
messa di mezzo una seconda volante e io rimasi
bloccato dentro via Colletta, nelle vicinanze di Porta
Romana, una strada all’epoca buia, isolata. Da una
Giulia scese il commissario Voltolin, che mi rico-
nobbe subito.
«Ecco il nostro innocente», ironizzò.
«Non mi pare sia vietato guidare l’automobile»,
replicai spavaldo come al solito. E aggiunsi: «Se avete
qualche cosa contro di me, denunciatemi. Ma io vo-
glio avvertire, subito, il mio avvocato».
Io non avevo affatto, naturalmente, un legale di
fiducia e non so neppure come mi possa essere ve-
nuta in mente una trovata del genere. Certo è che
l’effetto fu micidiale, gettando gli agenti in un buco
nero di profonda costernazione. Il capo dei piedipiatti
aveva però sempre una soluzione per i problemi im-
provvisi e una certa qual competenza in materia di
superamento dei cavilli delle canaglie. Si lisciò la bar-
ba, si grattò la pancia e mi allungò un poderoso cef-
fone a mano rovesciata.
«Così abbiamo l’avvocato, – sibilò. – Credi che
non lo sappia di non poter provare nulla? Lo so,
caro Messana, lo so… e me ne fotto». Mi diede un’al-
tra sberla e continuò:

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«Io il processo a te l’ho già fatto e sei risultato
colpevole, anzi colpevolissimo. Così, per evitare di
prendere per il culo la gente in Tribunale, invece di
denunciarti provvediamo subito alla condanna».
Cominciarono a picchiare, a un cenno di Voltolin,
tutti e sei insieme e fu un castigo di Dio. Prima usa-
vano lo straccio bagnato, per farmi del male senza
lasciare segni, poi, ormai eccitati, senza più alcuna
precauzione. Durò dieci minuti buoni: a sentirlo dire
non sembra molto, ma ad esser sotto pare un’eter-
nità. Gridavano di difendermi, di mostrarmi uomo,
di provare a scappare. Ma io non ci cascai, sapevo
che era tutta una scusa per arrestarmi o magari per
spararmi; capii che era inutile e preferii buttarmi
per terra, a corpo morto, fingendomi svenuto e resi-
stendo alla tentazione di lamentarmi mentre piove-
vano gli ultimi calci. Li sentii andarsene sgommando
e in quell’istante maturai l’idea di cambiar mestie-
re: il piccolo balordo raccoglie poche briciole e molti
guai.
La mattina dopo incontrai – al Bar Wanda – il
“professor Timbrini”, un ometto sulla cinquanti-
na, rubicondo e con i baffi bianchi, specializzato
nella produzione di dollari e documenti falsi (di
qui il nomignolo). Si rivolgevano a lui i malviventi
perfezionisti ed era fiero di essere considerato il
migliore, raccontando sempre di quando la que-
stura aveva trovato per terra una sua patente e
l’aveva restituita all’interessato, senza accorgersi
di nulla.
«Sono meglio le mie di quelle della Prefettura»,
amava commentare. Il professore ci teneva all’edu-
cazione propria (conosceva centinaia di poesie mi-
lanesi del famoso Carlo Porta a memoria) e a quella

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di suo figlio, costretto a frequentare la Statale ed
entrato nel Movimento Studentesco. Era presente
anche il ragazzo e fu l’occasione per mollare il vec-
chio ambiente, cambiando ancora una volta gene-
ralità e aggregandomi d’istinto a quel carro di pazzi
senza alcun mezzo, ma con infiniti progetti.
Eccomi allora partecipare a una serie di cinque
o sei riunioni durante le quali si parlava della rivo-
luzione in Cina o di Mao Tse Tung (a me sembrava
arabo, però erano simpatici) per finire poi a bere da
Strippoli il vino pugliese. Ben presto fu decisa l’oc-
cupazione di un grande albergo abbandonato nel
pieno centro della città, il celebre Hotel Commer-
cio. Sono ancora oggi sbalordito dalla semplicità di
realizzazione di un piano a tavolino complicatissimo;
ci si limitò – alla fin fine – a far saltare la serratura
di una porta e si entrò in banda, sotto gli occhi della
polizia, incerta, perplessa. Il costosissimo stabile fu
senza troppe formalità requisito in nome e per con-
to delle masse popolari, di cui facevo parte io stes-
so con pieno titolo. Ero felice di abbandonare la
squallida stanza ammobiliata di Porta Genova e la
solitudine angosciosa di quel campo di concentra-
mento; mi attendeva una meravigliosa e nuova av-
ventura fra il popolo dei politici, gente che all’epo-
ca nulla chiedeva del tuo passato né pensava in ter-
mini di grigia tranquillità.
Mi ero conquistato una singola al terzo piano,
l’avevo arredata del mobilio essenziale, ma secondo
quanto il gusto suggeriva; sembrava quasi la cabina
della Kirta! Affacciandomi alla finestra vedevo il
centro di Milano, lo stomaco si chiudeva per la gioia
di trovarmi ad abitare gratis nel tempio della bor-
ghesia più importante d’Italia.

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C’era un via vai incredibile lungo le scale e den-
tro le stanze del Commercio: ragazze fuggite di casa,
studenti fuori sede, rampolli di illustre casata,
sottoproletari, né mancavano, naturalmente, gli
spioni e i ladri senza scrupoli che non esitavano a
rubare quel poco che c’era, intrufolandosi in ogni
angolo del palazzo. Si sprecavano i ritratti di Che
Guevara con il sigaro e con il basco o di zio Ho Chi
Min con il pizzetto: la libreria Feltrinelli non ne aveva
mai abbastanza per soddisfare l’improvvisa esplo-
sione di richieste. Io non andavo alle manifestazioni
perché mi annoiavo terribilmente e si doveva cam-
minare per ore fino ad essere sfiniti; spesso aiutavo
a ciclostilare i volantini o collaboravo alla distri-
buzione dei fogli di propaganda alle varie facoltà:
mi è rimasta anzi una malcelata passione per i me-
gafoni e per tutti gli strumenti di stampa! L’indivi-
dualità sfrenata del mio carattere cozzava tuttavia
con la mania del collettivismo diffusosi nella tribù,
specie considerando che diffidavo per abitudine del-
l’altruismo apparentemente sincero dei caporioni del
movimento.
Nelle assemblee degli occupanti (la partecipazio-
ne era obbligatoria e potevano intervenire gli esterni)
si parlava spesso di Cavallero e Notarnicola, specie
del secondo, un vero e proprio idolo delle folle che
aveva anche scritto un libro. A me piaceva invece il
primo, per la genialità nell’organizzare le rapine, spe-
cie la doppietta, ovvero il secondo colpo a ridosso
del primo senza lasciar tempo alle forze dell’ordine
per organizzare la difesa: avessero dato retta a lui,
non li avrebbero mai catturati, o almeno credo.
Cavallero (a differenza dei complici) disprezzava
la malavita e si spostava di continuo per non farsi

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notare, studiando con pazienza l’obiettivo come un
giocatore di borsa studia l’economia; al processo
tenne banco con più forza di un Curcio o di un
Moretti, impose ai giudici un teatro di tutto rispetto
e si dimostrò generoso perfino con quel coglione del
Lopez che pure lo aveva rovinato con la sua sciocca
inesperienza. Cavallero mi fece riflettere e decisi di
utilizzare le sue intuizioni tecniche; portando però
l’attacco a luoghi di scarsa importanza per il potere
sotto il profilo del simbolo, ma ugualmente forniti
di contante: parlo dei piccoli uffici postali, dei fatto-
rini nel giorno di paga, delle cooperative facchini,
dei supermercati o dei caselli autostradali isolati. La
mia borsa era vuota e io affrettai la ricerca delle per-
sone adatte alla realizzazione dei miei malvagi pro-
getti. Mettere insieme il pranzo con la cena senza
piegarsi a un lavoro fisso non è facile; data la scarsa
propensione alla fatica di tutto l’ambiente che mi
circondava non ci volle molto a mettere d’accordo
un efficace terzetto. Gli altri due erano Antonio, un
mio paesano conosciuto da Strippoli (ove non paga-
va mai, con una scusa o con l’altra, suscitando l’ira
del proprietario), e Roberto, un anarchico matto come
i cavalli, sempre in tenuta da sovversivo con barba,
sciarpa rossa lunga fino ai piedi, mantello nero, scar-
poni militari. Fu quest’ultimo a decidere che un quar-
to del ricavato bisognava destinarlo, in forma ano-
nima e in gran segreto, all’attività politica. «Siamo in
quattro, – disse, – noi tre e la rivoluzione. Quindi è
giusto che quattro siano le parti». Nessuno sollevò
obiezioni, anche perché ci pareva stupido risparmiare
sul danaro altrui, non ancora rubato. Io mi occupai
di trovare due pistole; Antonio della macchina e non
procurò di meglio che una vecchia fottutissima cin-

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quecento. Dopo aver litigato per un’ora sul poco
potente mezzo in dotazione alla nostra strapelata
banda, raggiungemmo finalmente l’ufficio postale vi-
cino a Piazza Frattini: duemilionitrecentomilalire.
Non avrei mai creduto fosse tanto facile. Roberto
aspettava al volante; noi entrammo tranquilli, in
mezzo a una coda di pensionati e d’improvviso tuo-
nai: «Il primo a muoversi sarà quello che ricava una
palla nel cervello e se non state tranquilli vi massa-
creremo senza pietà». Lo stomaco su e giù per l’agi-
tazione, ma il terrorizzato stupore della gente mi ras-
sicurava. Vidi Antonio ritirare il sacchetto di plasti-
ca contenente i quattrini come in un sogno, tanto da
soffermarmi un attimo in più, con la rivoltella spia-
nata, come inebetito davanti all’impiegato che non
capiva quale altra cosa potessi mai volere. Il mio
socio strillò e scappammo via con la nostra lentissi-
ma vettura, guidata da un eccitatissimo Roberto: fu
un miracolo arrivare a casa senza provocare inci-
denti con un simile timoniere.
In quaranta minuti avevo in tasca tre mesi di sti-
pendio di un operaio Pirelli e in più avevo finanzia-
to il movimento politico, contribuendo, se non a
cambiare la società, sicuramente ad aumentare il
casino. Andammo a festeggiare in una trattoria tipi-
ca spagnola di Porta Garibaldi, il Toro Bravo, ordi-
nando senza ritegno tutte le specialità più costose
con la stessa gioia di un bambino che ruba le pru-
gne. Il vino freddo, spinato da una botte, andava
giù come acqua; né ci parve opportuno smettere di
trangugiare la tequila con il limone fino a quando la
bottiglia non fu vuota. All’uscita eravamo pertanto
completamente ubriachi e intonammo a squarcia-
gola – per ordine di Roberto – la canzone «Figli del-

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l’officina» fra gli sguardi divertiti dei tiratardi della
brigata Moscatelli (nulla a che vedere con il parti-
giano: erano i frequentatori dell’omonima osteria
aperta fino a notte fonda).
L’estrema sinistra si ingrossava ogni giorno di più,
diventava una presenza che era impossibile non ri-
levare anche per l’osservatore distratto: gli scontri
con la polizia, i picchetti alle fabbriche, le occupa-
zioni di case e scuole facevano ormai parte della vita
quotidiana. Io e Antonio vivevamo ai margini del-
l’esperienza, diffidenti come tutti i meridionali del
Nord; Roberto ci si era invece buttato dentro anima
e corpo, cercando anche di convincerci che era vici-
na l’ora di una sommossa generalizzata. Sull’onda di
questa fissazione, quasi d’improvviso, ci comunicò
che era indispensabile costituire un partito marxista-
leninista (l’anarchismo lo considerava ormai supe-
rato); per dimostrare la serietà delle sue intenzioni,
si tagliò barba e capelli. Come Roberto ragionavano
in parecchi nella variopinta comunità del Commer-
cio, ma prima che ci fossero veri litigi le autorità
sgomberarono l’edificio con la forza, né le proteste
servirono a molto. Nonostante indignati e sangui-
nolenti proclami, ci trovammo tutti sulla strada.
Dopo cinque rapine andate a buon segno, il
terzetto si andava sfasciando sotto il peso degli av-
venimenti e delle scelte individuali. Roberto si era
messo nei guai a causa di una carogna che lo aveva
tirato in mezzo a una storia di esplosivi cui pure era
estraneo. Il suo arresto mise la parola fine alla nostra
collaborazione e lui si fece un anno di galera prima
di risultare innocente. Antonio non si accontentava
più degli uffici postali e cercava di trascinarmi sul
giro grosso; io rifiutai di seguirlo e si andò a litigare.

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Pochi mesi dopo fu catturato dentro una banca di
Varese, insieme a un veneto, tutti e due armati di
mitra e bombe. Ero di nuovo solo, con gli occhi della
polizia addosso. Sapevo che gli sbirri sapevano e che
aspettavano solo una mossa falsa; in più volevo spo-
sarmi con una siciliana che mi sembrava adatta a
trascorrere la vita con me. Non avevo altre possibi-
lità: presi il coraggio a piene mani, saltai il fosso e
mi feci assumere come stagionale alla Motta, per tre
mesi, così da essere dimenticato.
Milano cambiava sotto i miei occhi, giorno dopo
giorno, ma io non me ne rendevo conto. Avevo vissu-
to da emarginato ribelle l’autunno caldo e non intui-
vo neppure di aver partecipato – attivamente – alla
trasformazione profonda non solo della società ci-
vile, ma di me stesso. Non avevo realizzato quanto
incisivo fosse stato l’allegro carnevale dell’Hotel
Commercio e quanto era rimasto nel mio carattere
dello stile imposto da Roberto. Incrinare i meccani-
smi del potere ha un fascino discreto e io ne ero
stato conquistato; non sarei mai riuscito a tornare
un semplice piccolo brigante come la rottura con
Antonio stava a dimostrare.
Mentre mi dirigevo per la prima volta nella mia
vita verso la fabbrica, stava esplodendo la primave-
ra. L’odore intenso dei tigli invadeva tutta la città,
specie alle prime ore del mattino, quando l’aria è più
sottile. Poiché era di pessimo gusto raggiungere lo
stabilimento con una sia pur vecchia BMW, mi stavo
servendo dei mezzi pubblici per il tragitto da Bag-
gio (dormivo a casa di amici) a viale Corsica. I tre
vagoni che cambiai (una specie di tram) erano stracol-
mi; io non conoscevo ancora la folla dei lavoratori
né capivo dove trovassero tutta l’energia necessaria

70
per colpirsi a vicenda con violente gomitate. Mi sen-
tivo oppresso fino alla nausea da tutta quella carne
umana raccolta in poco spazio e un prepotente biso-
gno di gridare che eravamo tutti degli schiavi.
Cercai rifugio appoggiando il naso vicino al collo
di un impiegato intento a leggere la pagina sportiva
del “Corriere” e respirando il suo abbondante dopo-
barba; per quanto infastidito l’uomo non osò repli-
care. Scesi con un paio di fermate d’anticipo, non
solo per recuperare energia, ma per avere la sensa-
zione di poter disporre ancora di me, per non essere
completamente automatizzato. Proseguii così cion-
dolando fino alla poco agognata meta.
Una piccola folla sostava davanti all’ingresso; agli
operai si mescolavano venditori di sigarette, di oro-
logi e perfino di enciclopedie a rate. Può sembrare
incredibile, ma c’era chi riusciva a far acquistare opere
monumentali, strappando con faccia tosta e sorriso
accattivante la firma in calce al contratto capestro
che avrebbe decurtato il salario per mesi e mesi. Al
segnale acustico ci scagliavamo tutti con impeto con-
tro l’ingresso; la massa si assottigliava attraversando
la porta e riprendeva consistenza subito dopo. Sem-
bravamo i fanti della prima guerra mondiale alla con-
quista della trincea, né l’obbiettivo era più sensato.
I cartellini venivano timbrati con velocità impressio-
nante tanto da rendere impossibile qualunque richie-
sta di indicazioni. Arrivai ultimo e mi trovai asse-
gnato alla mansione più sgradevole, proprio accanto
ai forni, sotto l’occhio del capo. Non era difficile:
si ripetevano gli stessi gesti per otto ore, miglioran-
do in rapidità per raggiungere la cosiddetta “media”:
se non ce la facevi, ti sbattevano fuori. O almeno
così mi avevano raccontato. Qualcuno se la prende-

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va un po’ più comoda mostrandosi tonto o sempli-
cemente con strafottenza: ma la sostanza di una sor-
te infelice non cambiava. Non era la fatica che op-
primeva o, meglio, non solo quella. Io, poi, avevo
fatto ben di peggio in passato. La sofferenza quoti-
diana erano quei ruffiani pagati solo per guardarti
sudare e riferire come spie, quegli ambienti sudici,
quei proletari di cinquant’anni con il destino segna-
to, quelle sigarette fumate nei cessi con l’illusione di
rubare due minuti a chi ti rubava la vita. Pensavo ai
discorsi orecchiati durante le riunioni dell’Hotel Com-
mercio e non mi riusciva di capire come tanti stu-
denti che gridavano in piazza “potere operaio”, se
ne stessero zitti a lavorare quando era il caso di pian-
tar casino e dimostrare vere le teorie. Erano almeno
cinquanta fra gli stagionali che sgobbavano con la
divisa da compagno (eskimo e sciarpone), senza
fiatare, magari dopo esser stati a distribuire qualche
fregnaccia sul “Terzo mondo”.
Passai sette-otto giorni infornando colombe come
un coglione. Non ne sopportavo più neppure l’odo-
re, mi veniva in mente di cuocerle rotonde, quadra-
te, a falcemartello, a pitrentotto, a cazzinculo; ridevo
da solo pensando alla faccia di qualche vecchia
alto-borghese dopo aver aperto il pacco, festeggian-
do in famiglia la Santa Pasqua. Intanto aspettavo,
come manna dal cielo, la lotta sindacale, la frattura
della monotonia assurda, la ribellione insomma a quel-
l’insieme di gesti ordinati che assumevano un senso
compiuto solo per il padrone (porco). Quando sei
alla stazione e aspetti il treno previsto dall’orario,
dopo un po’ che non arriva ti scocci e cominci a chie-
dere, per sbloccare la situazione, pur sapendo l’inu-
tilità di una simile azione. Così io mi decisi a parlare

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della mia noia a Maurizio, un tale del movimento
studentesco che conoscevo di vista e che era amico
del vecchio Roberto (avevano entrambi il pallino del
partito). Lo avvicinai in mensa e non pareva affatto
contento di vedermi, mi scrutava anzi con aria so-
spettosa e interrogativa. Non appena, per rinfrescar-
gli la memoria, citai il nostro comune amico, replicò
senza mezzi termini che si trattava di un “provoca-
tore”. Io mangiai il rospo e soffocai la voglia di dargli
uno sberlone: i figli di puttana li avevano presi i quat-
trini e ora spandevano merda impauriti senza nean-
che l’intelligenza di capire che era innocente. Per
andare in fondo al personaggio proposi uno sciopero
classico, ma lui niente, duro come il marmo.
«Questo non è un giuoco, amico mio, – senten-
ziò, – la lotta non deve cadere dall’alto, ci vuole l’ap-
poggio della base, ci vuole l’organizzazione».
«Va bene, – aggiunsi, – ma se alla base, alla gen-
te diamo solo della muffa e ci vedono in compenso
lavorare come ciuchi, come cazzo possono capire?
Ci vuole un esempio, mostriamo che non ci caghiamo
sotto…».
«Senti, – interruppe lui, – io ho avuto questo po-
sto da un amico di mio padre, i soldi mi servono per
andare in vacanza e non ho nessuna intenzione di
rinunciarci per dar soddisfazione a un sottoproletario
senza un briciolo di coscienza politica. Quindi mol-
lami!».
«Pezzo di stronzo, – gli gridai, – vuoi fare la rivo-
luzione in Corea e in Uganda, dappertutto, ma non
nella casa di tuo padre. In più te la prendi con i tuoi
amici in galera. Io sarò un sottoproletario, tu invece
fai schifo e ti spaccherò il muso anima sporca di cru-
miro spione».

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Ne venne fuori una bella discussione, con tutti
gli elementi della rissa. Un certo Pietro – pure stu-
dente – mi diede ragione in pieno e, poiché aveva la
parlata chiara, convinse una ventina delle teste più
calde a non riprendere il lavoro. Tirò fuori un pen-
narello di tasca e si mise a scrivere sul retro di un
manifesto ENAL che proponeva la visita di Venezia
per quattro soldi:
«Lavoratori, da perdere abbiamo solo un posto
del cazzo, da guadagnare il mondo. Fuori a calci i
capi dai reparti, blocco della produzione, pisciamo
sui dolci. Facciamoci rispettare: il panettone in testa
al padrone! Subito 50.000 di aumento e non si tratta.
Lotta dura, senza paura. Un gruppo di operai».

Salì su un tavolo, mentre io appendevo il procla-


ma, e tenne un discorso da arresto immediato. I sin-
dacalisti si precipitarono e volevano tirarlo giù; lui
strillava come un’aquila e difendeva la posizione a
pedate. Un putiferio: il più delle persone era ester-
refatto, con gli occhi bassi, ma gruppi di stagionali
correvano per la fabbrica gridando. Io seguii Pietro
nel reparto aiutandolo a fermare qualche macchina-
rio, fino a quando (dopo due ore) non tornò la calma.
Ci licenziarono entrambi senza pietà per «insubor-
dinazione» e fummo espulsi subito dai gironi dell’in-
ferno. Sulla strada mi sorrise: «Siamo andati forte,
vero?». «Ci voleva, ci voleva, – risposi, – ma adesso
ho il culo per terra, anche se molti erano con noi».
Restammo a chiacchierare un pezzo e mi spiegò che
il suo gruppo aveva organizzato per l’indomani l’oc-
cupazione delle case popolari appena costruite. Gli
assicurai, d’istinto, la mia presenza: ero proprio con-
tento di essere uscito dalla Motta sbattendo la porta.

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Finì in allegria, mangiando e bevendo nell’abitazione
del mio nuovo amico e non ci si stancava mai di
ridere di tutte quelle persone agitate che ci giravano
appresso per rimettere in funzione la macchina.
La mattina successiva eravamo oltre duecento
davanti agli edifici di via Lope de Vega, uno strado-
ne prossimo alla Milano-Genova, progettato appo-
sta per consentire ad automobilisti frettolosi di in-
vestire gli incauti che attraversavano la doppia cor-
sia. Il traffico viaggiava infatti a una velocità media
di 90-100 km/h, incurante delle strisce pedonali e
degli uomini. Per nostra fortuna i progettisti dello
IACP avevano lasciato uno spazio verde sufficiente
all’assembramento e non lasciammo la pelle in modo
così inglorioso; non ci fu bisogno nemmeno dei ra-
gazzi con le molotov appostati negli angoli strategi-
ci per bloccare polizie pubbliche e private. Le fami-
glie – esasperate dalle eterne code per ottenere la
casa – non vedevano l’ora di entrare e molti si erano
già organizzati con furgoni carichi di materassi, let-
ti, cucine, televisori, armadi. Non appena la serratu-
ra del portone principale crollò sotto i colpi di mar-
tello e scalpello, partì la corsa all’oro e ci si superava
a vicenda lungo le scale nel tentativo di occupare i
locali più grandi o meglio disposti. Il cosiddetto
“gruppo dirigente” si rese subito conto di non poter
dirigere nulla e si ritirò compatto nel bar vicino, aspet-
tando di censire la situazione così come si sarebbe
determinata dopo il consueto teatro di litigi, urla
mimate, petizioni commoventi, minacce che il po-
polo usa in queste occasioni.
Grazie alla mia falcata di alto-magro, mi toccò
un trilocale decente, al terzo piano, e presi posto nel-
l’alveare. Sopra di me si erano piazzati i fratelli Salemi

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(Giovanni, Giuseppe, Vito, Michele, Rocco) con due
mogli, nove figli, un padre patriarca: appena dentro
sventrarono due pareti per rendere comunicanti i tre
appartamenti conquistati e appesero il nome all’uscio.
Io avevo notato che disponevano del camioncino e
mi recai a chiedere aiuto per arredare la nuova abita-
zione. Aprì Giovanni, uomo assai buffo e goffamen-
te claudicante, parlando una sorta di italo-siciliano
reso ancor più incomprensibile dalla leggera balbuzie.
Si intromise subito Giuseppe che con aria guappa e
complice mi accompagnò dal rigattiere: con poche
migliaia di lire, grazie alla disinteressata gentilezza,
avevo ottenuto l’indispensabile per vivere. Quella
sera stessa, alla prima assemblea, ricambiai il favore
alla famiglia. Due politicanti se l’erano infatti presa
con i Salemi perché li avevano visti caricare materia-
le dell’impresa di costruzione (rotoloni di metallo e
una piccola betoniera) sul loro mezzo e partire per
andarlo a vendere. Giuseppe si sbracciava a soste-
nere di non saperne nulla, ma non era capace di
mentire e si trovava in evidente difficoltà. I suoi ac-
cusatori parlavano di buttarli fuori perché “scredita-
vano l’occupazione” e altre balle del genere. Io li
difesi. «Nessuno di noi, – dissi, – ha la fedina pulita
ed è inutile passare per quelli che non siamo e che
non potremo mai essere. L’importante è non fregar-
ci a vicenda, rispettarci fra di noi. Quel materiale,
compagni, se l’è fregato l’impresa – lo abbiamo vi-
sto tutti – per farsi rimborsare dall’assicurazione sen-
za perdere nulla!». Si andava sul sicuro: chi ha gli
appalti non è mai un cherubino, trucchi del genere li
mette in pratica di continuo e non può reggere il
confronto con cento testimoni! Era un compromesso
e fu accettato anche dai politicanti (evidentemente

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non troppo fanatici); la faccenda fu chiusa con una
tirata d’orecchi e il clan siciliano mi espresse, con
grida primitive, gratitudine.
Il giorno dopo andammo in delegazione a fare i
contratti della luce e l’ENEL, spaventata dalle brutte
facce che avevamo, concesse gli allacciamenti an-
che se mancava il contratto d’affitto. Mi presentai
poi da Rosaria – la mia ragazza – e le dissi che avevo
trovato la casa, mostrandole un finto modulo firma-
to da un padrone di casa inesistente, tanto per tran-
quillizzarla. Ci sposammo di lì a poco e rimase subi-
to gravida: mio figlio doveva avere un’esistenza mi-
gliore della mia, senza la continua preoccupazione
della sopravvivenza!
Il condominio di Lope de Vega era comunque
un luogo assai divertente e strampalato. Se tutti i
certificati medici che provenivano da quell’agglo-
merato fossero stati veri, sarebbe stato opportuno
metter fuori, in grande, la scritta «cronicario». Gli
abitanti si scambiavano freneticamente – come in
borsa – informazioni sui pallini dei vari dottori per
ottenere giorni di ozio retribuito e i sanitari che rila-
sciavano pigramente i preziosi foglietti venivano
considerati manna dal cielo. I Salemi accettavano,
in particolare, tutti i lavori stagionali e, terminata la
prova, accusavano subito cefalee acute, sindromi
depressive, mal di denti. L’azienda non li vedeva
più fino al termine. Arrotondavano poi con qual-
che ora in carovana o la vendita abusiva dei pallon-
cini in piazza Duomo. Mi trovavo proprio bene in
quel piccolo mondo moderno dove ci si prestava il
danaro senza mai restituirlo e ci si buggerava l’un
l’altro con affetto. Chi truffa chi?

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A CACCIA DI SOLDI

Mutua te centum sestertia, Phoebe, rogavi,


cum mihi dixisses «Exigis ergo nihil?»
inquiris, dubitas, cunctaris meque diebus
teque decem crucias: iam rogo, Phoebe, nega.

VALERIO MARZIALE, VI, XX

M ancavano ancora una volta i quattrini, i ma-


ledetti quattrini necessari alla sopravvivenza. Ma
non avevo nessuna voglia di tornare in fabbrica, in
quel luogo assurdo tanto simile a una prigione. Già
passiamo le nostre giornate in un ghetto che non ha
nulla da invidiare alle case di pena e non c’è niente
di strano nel mio deciso rifiuto di andar giustificando
l’esistenza con la quotidiana vendita delle braccia
in cambio di uno stipendio da fame. Non me la sen-
tivo di recarmi ai cancelli, giorno dopo giorno, sot-
toposto al controllo e al ricatto di una società, senza
neppure conoscere il volto del padrone da odiare.
Neppure avevo però la forza di riprendere la teoria
infinita di piccole rapine, specie in un momento ca-
ratterizzato da aumentate difficoltà e dalla diffusa
disperazione che spingeva a sparare con impressio-
nante frequenza. In fondo trentaquattro anni pesa-
no, si fanno i primi bilanci e non sempre c’è energia
sufficiente per abbracciare il rischio.
Trascorrevo così molte ore riflettendo inoperoso,
incurante delle proteste di mia moglie, cui avevo
incautamente promesso, fra le coperte, una peraltro
imprecisata vita “normale”. Ascoltavo molto gli altri
per capire come sbarcavano il lunario e meditavo su

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cento soluzioni possibili alla crisi economica che ave-
va investito il buon Salvatore Messana, senza vie
d’uscita immediatamente percorribili. Una sera mi
accodai, senza un perché, a Giuseppe Salemi e Pie-
tro (lo studente della Motta); chiacchierando del più
e del meno si decise di cenare insieme e la scelta
cadde su “Prospero”, ristorante di Porta Vittoria forse
un po’ pretenzioso, ma non sgradevole. Pietro si
muoveva a suo agio compensando l’aria da mafiosi
che noi due avevamo assunto per darci un tono: cibo
e vino ci misero comunque di buon umore. Al mo-
mento del conto (salato per le nostre tasche) ci fu
un attimo di imbarazzo ma, con indifferenza consu-
mata, il nostro giovane amico cavò di tasca il libret-
to degli assegni e pagò, lasciando anche una banco-
nota da mille per mancia ai camerieri. Non appena
ci trovammo lontani, spiegò che si trattava di effetti
rubati, garantiti da un documento falso, e che, dun-
que, avevamo mangiato gratis.
Fu una folgorazione come quella di San Paolo
caduto da cavallo, la luce del faro per la nave in dif-
ficoltà: l’idea! Ero talmente felice che pretesi di of-
frire torta e spumante, non stavo più nella pelle dal-
la voglia di mettere in esecuzione il mio piano. Tor-
nato a casa non riuscii a prendere sonno e passai
l’intera notte, eccitato, a perfezionare la trappola. Io
non avevo nessuna intenzione di copiare il piccolo
raggiro di Pietro in quanto il giuoco non valeva certo
la candela: per guadagnare poche lire rischiavo una
pesante condanna per ricettazione, documenti falsi,
truffa e Dio sa quant’altro ancora la fantasia dei
giuristi avrebbe elaborato. Volevo invece sfruttare la
conoscenza del sistema di credito e la mia indiscutibile
genialità di attore. Con gli ultimi due milioni rimasti

79
(uno era per la verità di mia moglie che non misi al
corrente perché maniacalmente onesta) aprii ben
quattro conti correnti, dopo esser riuscito a superare
con astuzia lo scoglio delle referenze, all’epoca non
approfondite, grazie anche alla credibilità acquisita
presso la vecchia e mai abbandonata Cassa di Ri-
sparmio di La Spezia. Per un mese tranquillizzai tutti
prendendo danaro da uno sportello e depositandoli
in un altro; consumai così i primi dieci assegni di
ogni istituto mantenendo in media lo stesso capita-
le, ma lasciando intuire una operosa circolazione del
danaro.
Tutto era pronto. Dopo aver assunto informazio-
ni, mi recai presso una fabbrica di calzoni e camicie
ordinando ben dodici milioni di merce a pronta con-
segna. Il proprietario – uomo orribile e butterato in
modo variopinto – si dichiarò subito perfettamente
d’accordo con me circa le pesanti responsabilità del
sindacato nel disastro generale che aveva colpito il
Paese; condivise la mia tesi relativa alla improrogabile
necessità di un uomo forte capace di mettere ordine;
approvò entusiasta il mio odio per tutti gli uomini
con i capelli troppo lunghi e per gli omosessuali in
particolare. Ne seguì poi una discussione animata su
quali potessero definirsi le migliori puttane della Lom-
bardia con accurato esame delle relative tariffe; e non
appena il discorso scivolò sulla moneta, la lira italia-
na si trovò oggetto di comune, spietata critica: carta
straccia non desiderata da nessun individuo di buon
senso. Mi fu facile, a quel punto, proporre il paga-
mento in dollari USA in cambio, naturalmente, di uno
sconto che venne individuato, dopo aspra discussio-
ne, nel 10%. Pagai con una mazzetta di verdoni falsi
avuti in prestito dal Professor Timbrini e veramente

80
ben fatti: solo un grande intenditore sarebbe stato
capace di smascherare quel piccolo capolavoro d’ar-
tigianato. Mi feci rilasciare una ricevuta contro lire,
caricai tutta la merce su di un camion e volai imme-
diatamente a venderla presso un grossista preceden-
temente contattato al prezzo – per entrambi conve-
niente – di sette milioni. Tutto regolare, tutto fattu-
rato, tutto nel formale rispetto della legge. Mancava
solo un tassello all’incastro perfetto.
«Pronto? Sono il Signor Salvatore Messana, di
Milano, vorrei parlare con il principale. Dica che è
una questione urgente, urgentissima».
«Un attimo, – disse una telefonista, cortese masti-
catrice di parole, – resti in linea… le passo la segre-
taria personale».
«Pronto? Sono il Signor Salvatore Messana, di
Milano. Dovrei parlare con il suo principale, ci sia-
mo visti proprio questa mattina. Dica che è un pro-
blema della massima importanza».
«Resti in linea, prego, provvedo subito», disse la
schiava, certamente amante del padrone.
«Carissimo, – si inserì il butterato, sempre con la
coscienza sporca, pensando mi lamentassi del prez-
zo o della qualità, – c’è qualche cosa che non va?
Sono a sua disposizione…».
«No, no. Io debbo scusarmi, sono costernato, non
so neppure da quale parte incominciare. Amico mio,
sono stato truffato, mi hanno venduto una partita
di dollari falsi, e l’ho saputo adesso adesso. Una ro-
vina! Li ha ancora?».
«Sì, sì, certo, – replicò il pollo agitato, – è un bel
guaio».
«Vengo subito da lei, ad Arcisate. Metteremo tut-
to a posto. L’importante per ora è non far circolare

81
la moneta, c’è da finire in galera dritti filati. Mi scusi
l’agitazione: ma io ho perso trenta milioni! Lei però
non avrà danni, parola mia…».
«La aspetto», concluse quasi rassicurato.
Mi rivedo salire tranquillo sulla BMW, accendere
la radio-registratore, infilare una vecchia cassetta di
Celentano e dirigermi da quello sporco pirata per
l’ultimo atto. Bravi tedeschi: centosessanta orari e
quasi non si avverte. Dopo un attimo di coda al ca-
sello autostradale e qualche chilometro lento sulla
statale, eccomi di nuovo al parcheggio della villetta-
lager. «Arbeit macht frei»: lì quell’onest’uomo suc-
chiava il sangue a quarantacinque uomini liberi, di
cui però solo ventiquattro immatricolati (me lo ave-
va confidato proprio lui con malcelato entusiasmo,
senza vergognarsi di definir coglioni le sue vittime).
Ero atteso, mi fecero passare immediatamente.
Guardai in faccia quel bruco e lo vidi sudato, cotto
al punto giusto. Annaspava cercando un’ancora di
salvataggio, il tirchio, terrorizzato dalla sola idea di
dover partecipare alla perdita.
«Buon giorno… mi scuso ancora. Sono invecchia-
to di cinque anni in queste poche ore. Presto, mi
faccia vedere i dollari». «Eccoli, Signor Messana, sono
falsi?», domandò ormai succube. Persi il tempo di
qualche gesto, poi mostrai la sottilissima, impensa-
bile differenza fra la banconota vera e quella falsa.
«Non ci sono dubbi!», esclamò e acconsentì poi al
fatto che era stata una fortuna l’essercene accorti.
«Lei non deve avere timori, amico mio. La situa-
zione è sotto controllo e ho già parlato con chi di
dovere. Quanto a me, ci tengo a saldare subito il mio
debito». Dopo una pausa studiata, lo fucilai:
«Le faccio un assegno».

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L’imbecille sospirò di sollievo e tornò a sorridere.
Con tocco d’artista lo pregai perfino d’aspettare un
paio di giorni prima di incassare: per la fretta avevo
solo il libretto d’assegni personale e il conto non
superava i dieci milioni. Rifiutò la mia proposta di
staccarne due, ritardando solo il secondo: «Ma si
figuri, non c’è problema. Mi dispiace per lei, che
brutta storia! Lo sconto rimane naturalmente e ri-
marrà al prossimo acquisto».
Io me ne andai lasciandogli il cabriolet, con sette
milioni all’attivo. Restituii i dollari al professor
Timbrini, felice della perfezione della sua opera.
Tutto calcolato: la denuncia per assegno a vuoto, la
multa che non pagherò perché chi nulla ha, nulla
dà. Inoltre una piccola amnistia mi appariva inevi-
tabile (e ci fu in effetti) mentre lo scemo di Arcisate
non poteva certo andare a raccontare la vicenda dei
dollari che non aveva più, rischiando guai ulteriori
per violazione delle disposizioni valutarie e facen-
do oltretutto una magra figura.
Il primo bersaglio della mia solitaria battaglia na-
vale era stato colpito, se non affondato. Non solo
non avevo il minimo rimorso, ma sentivo anzi un
prepotente desiderio di far conoscere a tutti i lavo-
ranti quanto fesso era il preteso furbo che li sfrut-
tava. L’estate intanto si avvicinava e la seconda
banca fu utilizzata per saldare (si fa per dire) il mi-
glior albergo di Camogli, che aveva generosamente
ospitato dal 3 al 28 luglio la mia famigliola. Rosaria
riuscì a essere felice – nonostante il dissenso sul
metodo – perché finalmente esentata dai compiti
ingrati della vita domestica. L’accortezza di lascia-
re una mancia al personale creò un’ottima opinione
sul mio conto e, al congedo, ci pregarono di tornare

83
l’anno successivo. Avevo prudentemente agito in
questa maniera:
a) mi ero lamentato del rumore eccessivo e ave-
vo accettato le scuse della direzione;
b) avevo respinto una bottiglia di vino, facendola
sostituire con altra di marca più pregiata;
c) avevo prenotato per due giorni, pagando con
assegno coperto dai sette milioni precedentemente
incamerati;
d) mi ero fatto convincere a prolungare il mio
soggiorno dal direttore, un personaggio viscido che
mi auguro licenziato senza pietà dopo l’infortunio
della mia insolvenza;
e) avuta la garanzia dell’arrivo di buone referenze
bancarie, avevo svuotato il conto, lasciando trenta-
mila lire;
f) non avevo fatto mancar più nulla, da quel-
l’istante, a nessuno di noi tre.
Il terzo e il quarto colpo furono effettuati ai danni
di un calzaturificio della Toscana, specializzato nel-
l’avvelenare le maestranze (cinque milioni) e ai danni
di un grossista ben introdotto nel settore dei liquori
pregiati (seimilionitrecentomilalire). La campagna
poteva a quel punto dirsi conclusa, anche perché
nessuna banca era ormai disposta a darmi fiducia o a
trattare in qualsivoglia modo con me; né mi riuscì di
superare l’ostacolo nonostante disperati tentativi.
In Lope de Vega arrivarono ingiunzioni e precetti
che destavano scalpore per l’entità delle somme e
creavano attivo fermento fra i membri della cana-
glieria. Cercai varie volte di illustrare la tecnica al
buon Giuseppe Salemi, ma non c’era verso di fargli
intendere il funzionamento della truffa; fra l’altro non
appena qualcuno ne vedeva la mutria appoggiava

84
prudentemente la mano sul portafoglio tanto appa-
riva raccomandabile! Almeno una trentina di occu-
panti si erano comunque messi a firmare assegni
rifilandoli a destra e a manca, spesso accontentan-
dosi di somme modeste: ben presto nessuno fu ac-
cettato come cliente dagli istituti di credito e bastava
anzi che leggessero l’indirizzo perché sì creasse un
immediato irrigidimento sospettoso dei funzionari.
L’ufficiale giudiziario era nel frattempo divenuto una
figura familiare all’intero condominio.
Le denunce penali (occupazioni, mancata assi-
curazione dell’autovettura, furti al supermercato, ef-
fetti a vuoto e altro) non ebbero naturalmente un
seguito concreto, in quanto nessuno ignorava il si-
stema di opporsi ai decreti penali e di appellare le
sentenze di condanna, in attesa dell’amnistia, rite-
nuta comunemente inevitabile e per mancanza di
posto nei carceri e per la necessità di togliere dai
guai gli uomini del potere colti con le mani nel sacco
in numero sempre crescente. In fondo lo Stato assi-
stenziale esisteva e la passività poteva esser consi-
derata anomalo intervento a favore dei diseredati;
le lamentele degli extraparlamentari erano dunque
un po’ infondate su questo punto (per nulla essen-
ziale) né ci si poteva stupire della perplessità dei
loro militanti a fronte della tranquilla, seppur dila-
gante, illegalità del nostro agglomerato proletario.
Non sempre d’altra parte quei bravi giovani vede-
vano premiato lo sforzo compiuto: mi ricordo di
quando venne a trovarci uno di loro – consigliere
non so se in Comune o in Provincia – e ci comunicò
entusiasta che avevamo vinto. L’Istituto Autonomo
Case Popolari aveva infatti acconsentito a firmare i
contratti e non c’era più problema di essere sloggiati.

85
Naturalmente accettammo per diventare inquilini a
tutti gli effetti, ma quando pretesero gli arretrati per
i due anni di permanenza gratuita, scoppiò il casino
e nessuno si sognava di cacciare una lira. Per quante
rateazioni pluriennali quel poveraccio riuscisse a
strappare con duro sforzo, gli interessati si defilavano
al momento del versamento e tendevano anzi ad ag-
giungere debito a debito. Il nostro tutore finì poi con
lo stancarsi dell’atteggiamento dei suoi protetti e si
dedicò probabilmente ad accudire una plebe meno
difficile e ingrata.
Durante le trattative con lo IACP si era inoltre
sparsa la voce che bisognava avere un posto fisso e
dimostrare di essere un lavoratore, perché altrimenti
si poteva esser sgomberati. Io avevo appena realiz-
zato il capitale degli assegni e non mi rassegnavo a
quella condanna. Feci, con difficoltà, buon viso a
cattiva sorte, e mi accodai ai fratelli Salemi diven-
tando stagionale, adibito alla confezione dei panet-
toni Alemagna, per due mesi. Il destino era contrario
a quella sorte e dopo tre giorni mi ammalai (per dav-
vero: epatite virale) passando tutto il periodo a letto:
fu una lieta sorpresa scoprire che mi avrebbero
ugualmente pagato. Non era finita. Una quarantina
di giorni dopo la scadenza, quando già ero guarito,
suonò alla porta Giuseppe ordinandomi di seguirlo
dall’avvocato e sostenendo che bisognava fare una
causa per ottenere tutti il posto fisso. Io mi ribellai
e protestai vivacemente; affermai con vigore che
ero disposto a versare una somma se mi evitava una
sorte così sciagurata. Il siciliano fu irremovibile e
mi trascinò contro ogni mio ragionevole desiderio
nei pressi del Palazzo di giustizia, fin dentro lo stu-
dio di un professionista specializzato in materia di

86
lavoro. C’erano almeno cinquanta persone, lo spazio
era ristretto, tutti fumavano come turchi, l’aria era
conseguentemente irrespirabile. Dopo circa mez-
z’ora si fece avanti un ometto scorbutico, ma di pi-
glio deciso, spiegandoci che i contratti a termine
erano tutti illegali e che dunque avevamo diritto al-
l’ingresso in pianta stabile nell’azienda dolciaria.
Chiese le lettere di assunzione e non appena precisai
che non mi era stata consegnata i suoi occhi brillaro-
no d’entusiasmo: affermò anzi, senza mezzi termini,
essere il mio caso fra i più semplici e di più sicuro
buon esito.
Non ebbi cuore di spiegargli come la mia presen-
za fosse dovuta a pura cortesia, all’incapacità di far
torto a un amico quando non mi costava nulla. Evi-
tai soltanto di farmi inserire nella lista di coloro i
quali ritenevano di aver “urgenza” di riprendere una
così mostruosa attività. Mi colpì anche la parteci-
pazione – attiva – di un vecchio brigante come il
sardo Giuseppe Piras che sapevo esser da anni de-
dito ad attività poco pulite. Per mia curiosità scam-
biai quattro parole e lui tentò di travolgermi con il
suo entusiasmo: mi diceva, gesticolando, di voler
rientrare in fabbrica per farla pagar salata ai padroni
e che far l’operaio in quel modo era sostanzialmen-
te un piacere. Io lo ascoltavo senza credere a una
sola parola, ma altri la pensavano come lui e mi pa-
revano – sotto questo aspetto – più convincenti.
Firmai la delega all’avvocato con la certezza che
non ne sarebbe venuto fuori nulla; e tale certezza fu
ulteriormente rafforzata dalla comunicazione ai pre-
senti circa le spese del giudizio: nulla! Ma che razza
di avvocato avevamo scelto, se lavorava gratis? Mi
avvicinai al nostro difensore mentre se ne stava ner-

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vosamente riordinando le sue carte insieme a due
giovani collaboratori barbuti e malvestiti. Gli do-
mandai, quasi a bruciapelo, perché facesse tutto ciò.
Sollevò gli occhi e mi osservò per un istante con
quel suo sguardo sempre affaticato.
«Non lo so, – ammise sorridendo, – francamente
non lo so. Le domande più semplici, a volte, esigono
risposte difficili». Poi alzò gli occhiali fin sopra la fronte
e aggiunse: «L’importante è vincere. Poi avremo tem-
po per meglio riflettere sui motivi. E vincere questa
battaglia, amico mio, non sarà agevole. Dobbiamo
provarci con l’energia necessaria». Traspariva dalle
sue parole una grande ambizione, sostenuta da tem-
pra robusta di lottatore, con equilibrio forse fragile
ma certo caparbio come un ebreo abituato a superar
deserti per raggiungere mete del tutto sconosciute.
Il presente non doveva essergli gradito.
Mi ero dimenticato ormai di quell’episodio e an-
che di aver affidato l’incarico di chiamare in Pretura
l’Alemagna per ottenere un posto che non destava
in me interesse, bensì repulsione. Erano passati altri
due mesi e Giuseppe Salemi mi fece sapere che do-
vevamo andare in Pretura per assistere alla prima
causa, quella pilota: protagonista Piras insieme a
quattro soci. Lo spettacolo era meno cinematografi-
co di quanto non mi aspettassi e nessuno portava il
mantello nero nella stanza angusta dove si svolgeva
la discussione; poiché il Ministero di grazia e giusti-
zia non aveva previsto pubblico numeroso per simi-
li accadimenti, ci fecero aspettare nel corridoio.
Bivaccammo un paio d’ore buone, avanti e indietro
da lì al bar, sbocconcellando panini o bevendo birra,
senza riuscire assolutamente a capire che diavolo
stesse succedendo. Si fermò a farci compagnia uno

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strano avvocato calabrese, sulla quarantina, elegan-
te e di buona famiglia, prendendoci in giro con pe-
santezza cordiale e ragionando a ruota libera su una
sua idea di trasformare il Palazzo di giustizia in
ortomercato per via dei grandi corridoi (ove la frut-
ta andava esposta) e dei piccoli uffici (ove i mercanti
dovevano tenere la contabilità). A un certo punto
uscirono tutti, padroni, operai, legali, tesi e sudati,
annunciando che di lì a poco sarebbe stata letta la
sentenza: era come azzardar previsioni su un incon-
tro di pugilato senza averlo visto.
Fu una vittoria completa. Il potente capo del per-
sonale si allontanò scornato, mentre noi applaudiva-
mo felici. Gli stagionali venivano riammessi al lavo-
ro e in più (la cosa mi fece riflettere un poco) si bec-
cavano cinque mesi di stipendio. Quella sera stessa
mi feci spiegare da Salemi come stavano le cose e gli
prestai maggiore attenzione, valutando la vicenda
sotto un diverso e più allettante aspetto e cioè che,
se mi andava bene, ventiquattro ore mi avrebbero
reso un pacchetto di danaro e una soddisfazione nuo-
va. Per saperne di più – dopo un mese – andai a tro-
vare Piras alla casa occupata di viale Fulvio Testi.
Era in partenza per la Sardegna, dopo aver rinuncia-
to al posto in cambio del raddoppio della vincita: si
era comprato un micropodere con qualche pecora.
«Non ce la faccio più, Salvatore, – mi disse. – Mi
dispiace per i compagni, ma spero capiranno. Era
forse la mia ultima occasione. Sai quando l’ho capi-
to? Ieri. Mi sono piombati i poliziotti in casa, con la
scusa di schedare gli abusivi. Cercavano vittime.
Hanno guardato in giro, hanno buttato all’aria tutto,
hanno trovato i soldi dell’Alemagna nascosti sotto il
materasso. Si sono messi a chiedere da quale rapina

89
venivano… io a dirgli che li avevo vinti e loro giù a
schiaffoni, senza pietà. E poi in caserma la seconda
razione, per farmi confessare. Io sono stato a ripete-
re per ore la stessa musica, ma quelli strillavano di
non prenderli per fessi, che mi conoscevano bene.
Un casino! Finalmente arriva mio fratello Gavino con
la fotocopia della sentenza e mi mollano. Malvolen-
tieri, ma mi mollano. Salvatore, quanto sarebbero
durati quei soldi a un balordo come me? Quanto po-
tevo resistere in fabbrica, con la divisa, sempre a rom-
pere i coglioni? Sono andato dal direttore e ho fir-
mato, d’istinto. A fare il pastore nel nuorese mi ci
vedo anche se è più faticoso, ma in quella trappola
sarei morto di malinconia».
Lo capivo come non lo avevo capito mai; non mi
pareva più neppure un figlio di puttana. Non erava-
mo degli “operai”, ma soltanto degli sradicati cui la
civiltà aveva portato via tutto. Mica eravamo andati
via di nostra volontà dal paese, c’eravamo stati co-
stretti. Adesso eravamo troppo vecchi per diventare
cittadini (non si dimenticano i vagabondaggi, l’ozio,
il rapporto con la terra) e troppo giovani per vivere
del passato. Piras era solo un ingenuo che voleva fer-
mare il tempo, tornare indietro, nascondersi in un buco
fetido e sporco nel tentativo impossibile di evitare i
grandi magazzini o i fumi tossici. Coglione! Si sentiva
come gli indiani d’America e non capiva di trovarsi in
libertà provvisoria, con il collo sotto la spada del pri-
mo piano regolatore o di una bella centrale elettrica
davanti a casa. Coglione! Ma quante volte avevo so-
gnato anch’io di tornare vicino a Lecce, in un campo
mio, con le comodità, ma anche con la vigna e lo spa-
zio a perdita d’occhio? Si finì con il rimanere a lungo
in silenzio, presi entrambi dai propri pensieri.

90
«Lo hai raccontato agli altri? All’avvocato? A quelli
del tuo gruppo?», domandai.
«No. Avevo paura mi convincessero a restare.
Così, ora, sono certo di non poter tornare indietro».
«Hai fatto male. Ma c’è tutto il tempo per rime-
diare. Non è da te scappare di nascosto e permettere
al padrone di usare la storia contro gli amici. Sarebbe
una vigliaccata e lo sai, quindi… se ti spieghi, lo ca-
piranno, perché è un’esigenza di tanta gente e va but-
tata sulla faccia dei vampiri».
«Non credo capiranno», affermò Piras, pessimista
come tutti i sardi. Ma proseguì: «Proviamo lo stesso.
Non ha senso la vergogna dopo le rapine, la galera,
il sangue sputato qua e là per il gusto di non chinare
la testa. Andiamo a trovare i ragazzi. Se la capiscono,
bene; altrimenti amen. Così parto più tranquillo e
senza il culo per terra. Vamos!».
Girammo per tre o quattro localacci e finalmen-
te trovammo il grosso dei compagni in una bettola
chiamata Morimondo. Bivaccavano davanti ai bot-
tiglioni di presunto barbera e ingoiavano a ripeti-
zione panini di salame cotto, commentando l’enne-
sima riunione appena terminata. I progetti si spre-
cavano nelle discussioni incrociate e la tavolata mi
pareva un’abile ricostruzione in cera – a uso di qual-
che museo specializzato – di un raduno socialista
del milleottocento.
Non capirono affatto le spiegazioni di Piras, né si
rendevano in alcun modo conto di come – fra tradi-
mento e rispetto di ferree regole autoimposte – ci
potesse essere la scelta, banale ma irremovibile, di
tornare alle origini. Non tolleravano soprattutto ciò
che invece doveva farli riflettere: la lotta aveva pa-
gato, il padrone aveva dovuto cacciare i quattrini per

91
le manie di un poveraccio solo perché aveva rotto le
scatole. Quando si comportava così lo zio ruffiano,
stavano zitti invece! L’ambiente si era fatto pesante.
Il sardo viaggiava veloce e si accalorava; quelli in-
calzavano senza tregua accusandolo di aver vendu-
to la “rabbia operaia”, ma non riuscivano a convin-
cere neppure se stessi. Preferivano (avrebbero prefe-
rito) l’ipocrisia di scuse avvilenti giocate sul privato,
tali da non scuotere l’universo piccino e ordinato dai
fautori del disordine. Io ero sicuro che le migliaia di
dipendenti Alemagna potevano comprendere di più
dei cosiddetti rivoluzionari perché questa era la di-
mostrazione di come i padroni siano generosi solo
con chi punta lunghe corna, solo con chi temono.
Feci anzi notare che con dieci mensilità a cranio si
poteva svuotare lo stabilimento e che toccava dun-
que al padrone spiegare l’ingente somma. «Gridia-
molo ai quattro venti, – proposi, – diciamo di aver
vinto!». Si finì con il litigare e ce ne andammo via.
Tornando a casa Piras si mise a piangere, un po’ per
il troppo vino trangugiato nell’eccitazione, un po’ per
il congedo da un periodo dell’esistenza. Con la boc-
ca impastata continuava a sragionare di formaggi ge-
nuini, di cavalli, di montagne e intervallava (con tono
assai più sincero) qualche sacramento contro la fab-
brica, contro il lavoro: era questo che sfuggiva, alla
fine. Non mi fu facile, ma riuscii a depositarlo sul
letto di casa, sotto gli occhi della moglie, pieni di
rancore apprensivo. Non si decideva a lasciarmi an-
dare, tormentandomi con rievocazioni a raffica: con-
trabbando, scarico sulle ribalte, furti e sprechi, senza
decidersi a dormire. Finalmente crollò ronfando come
un orso e mi diressi verso Lope de Vega, senza riu-
scire a metter bene nella chiarezza esatta dove stava

92
l’abisso che divideva gente come me e Piras dai mi-
litanti dell’estrema sinistra con cui pure in mille oc-
casioni ci si trovava fianco a fianco. Se non mi era
infatti piaciuta la ritirata del sardo (ma dovevamo
esser ben cretini a non averla prevista!) ancor più mi
urtava il moralismo degli altri, la spocchiosa sicurez-
za che non spiegava nulla e tanto meno perché biso-
gnasse restare alla catena di montaggio, quando le
persone normali se ne allontanavano.
Passò un altro mese e mi arrivò la lettera dell’av-
vocato. Avevano concluso un accordo, accettato da
tutti, che mi sembrava pura follia. Non prendevamo
il risarcimento dei danni, ma solo i danni, ovvero il
lavoro. Mi venne da ridere. Non avevo fatto nulla e
non mi sentivo di accampare diritti; accettai pertan-
to, sia pur di malanimo, quella decisione poco adatta
alla mia persona. I fratelli Salemi erano invece entu-
siasti e vedevano l’assunzione come malattia per-
manente; il padre a sua volta esultava affermando
che i figli erano “sistemati” e sperava in realtà che i
figli avrebbero “sistemato” lui. Mi costrinsero (per
non sputtanare la lotta, naturalmente) a rientrare nello
stabilimento e ricevetti due mesi per il periodo di
inattività. Il cedimento padronale era sospetto: cer-
cavano infatti dei colpevoli per giustificare i loro
casini e noi eravamo capitati a fagiolo. La torta dei
fondi statali era bella grossa! Se la mangiarono tutta
e lasciarono a noi operai le briciole, accusandoci sui
giornali di aver provocato quello sconquasso:
spudorati! Volevo farmi licenziare subito e appena
varcata la soglia del reparto mi dedicai con diligenza
a litigare, per futili motivi, gridando al capo di voler
parlare con il direttore generale. La risposta fu nega-
tiva e io minacciai lo sciopero della fame se non mi

93
assegnavano a mansioni compatibili con il mio stato
di salute. Come Dio volle fui portato in ufficio e un
dirigente mi consegnò un assegno di due milioni.
«Ho capito, ho capito… firmi questa lettera di di-
missioni e siamo a posto», bofonchiò.
«Veramente vorrei esser licenziato, per motivi
miei», replicai perplesso, preso in contropiede. Ma
quello: «Non faccia il furbo, amico. Conosciamo il
trucco e non ci caschiamo». Ero confuso: dov’era il
trucco che mi attribuivano? Due milioni facevano
gola, ma non volevo diventare Piras II. Suggerii la
via d’uscita: loro mi licenziarono e io firmai le di-
missioni, così da esser garantiti entrambi. Filò tutto
liscio e non ebbi rotture di coglioni dal comitato. So
bene di essermi perso una bella esperienza; non si
può però chiedere alla gente di rinnegare se stessi e
io non lo vedevo proprio Salvatore Messana in quel
pantano ad aspettare la Cassa integrazione. Era roba
adatta ai giovincelli, a quelli del doppio lavoro, ai
vecchi; io avevo troppa fretta e la tranquillità del
posto fisso non mi interessava.
Cominciai a esercitare infatti il commercio ambu-
lante, vendendo giocattoli, collanine e merce varia
nelle piazze della Lombardia e della Liguria, senza
particolari avventure per ben quattro anni.
Per farti sorridere, amico lettore, ti confesserò
che avevo tuttavia escogitato un personale sistema
per la totale cancellazione della burocrazia, con le
sue lunghe code insopportabili; mi facevo cioè da
solo le autorizzazioni, incoraggiato dal gusto per l’il-
legalità e mai me ne vennero guai, attento come ero
a non tirare troppo la corda quando annusavo fun-
zionari di tipo petulante: concedevo infatti loro la
gioia di una multa, senza discussioni.

94
Se io svivacchiavo pigramente, Milano cambiava
invece, ancora una volta con celerità. Erano spariti,
d’incanto, i grandi cortei, l’allegro disordine, i pub-
blici contestatori dell’autorità. I più avevano rinun-
ciato alla terra promessa accontentandosi di minu-
scoli miglioramenti ed erano tornati a operosa pro-
duttività, lontani dalle catene, ma rinchiusi nelle pic-
cole miniere dei laboratori casalinghi, delle cantine
adattate, delle fabbrichette nascoste. Molti come me
se ne erano tornati al sud oppure campavano alla
meglio confinati ai bordi della metropoli oppure ave-
vano inseguito il proprio destino fin dentro la gatta-
buia. Incontravo, di tanto in tanto, i militanti di sini-
stra e stavano peggio di me: chi si era rammollito
nell’impiego statale, chi fingeva di esser dirigente,
chi aveva ripiegato, non sapendo far altro, all’inter-
no dei partiti e dei sindacati, chi si bucava senza
ritegno. Vidi anzi il Pietro della Motta, ridotto un
cencio, magro e sbattuto, con la sua brava siringa,
seduto su di una panchina. Non mi diede neppure il
tempo di un saluto che già stava chiedendo, con oc-
chi disperati, un diecimila. Si era preparato la recita
a memoria dello «sto per smettere», ma preferii pa-
gare subito senza ascoltare fesserie; mi prendeva
oltretutto allo stomaco guardarlo mentre si sforzava
di sorridere, tutto consumato e stanco, deluso, già
morto. Morì infatti, di lì a poco, guadagnandosi un
titolo a quattro colonne sul “Corriere”.
Non mancavano infine i brigatisti, o terroristi, o
come diavolo li volete chiamare. Proseguivano diritti
per la loro strada e, se non spaventavano con il nu-
mero, ci riuscivano con il metodo. Si aggiravano clan-
destini convinti di andare a caccia dei padroni e non
si rendevano conto che il bersaglio erano loro: ogni

95
tanto ne buttavano giù qualcuno come un birillo e
nessuno protestava, nessuno li conosceva, sembra-
vano arrivati dalla Persia. Era una specie di suicidio
a rate, una roulette russa, con i superstiti sempre più
incattiviti, isolati, pronti alle liti intestine. Non era
gente capace di vere precauzioni, tanto che io stesso
ebbi modo di incontrarne tre o quattro, tutti convinti
di farcela a battere militarmente l’esercito con quei
quattro ferrivecchi che si ritrovavano. E come si
incazzavano se mettevi in dubbio le loro ipotesi! Ti
guardavano con una specie di compatimento e giù a
spiegare, meticolosi, come l’aumento dei prezzi avreb-
be determinato sommosse generali ecc. ecc.
Un tale per farla corta, disse che avevano ragione
da vendere e se ne andò al cinema, ben felice di ave-
re evitato una noia pericolosa. Ma tre notti dopo si
ritrovò l’interlocutore nell’abitazione, senza riuscire
a dir di no a una richiesta di ospitalità per due o tre
giorni. L’indesiderato ospite prese subito a fargli
dissennate rivelazioni e, trascorse due settimane, non
solo aveva messo radici, ma gli portava altri militanti
dello stesso gruppo (una banda armata minore) per
riunioni, cene e trame varie. Coinvolto suo malgra-
do, il malcapitato non sapeva più come districarsi,
fino a quando non gli venne un’idea geniale e finse
di subire lo sfratto: assoldò una dozzina di amici,
ognuno con la sua parte (ufficiale giudiziario, facchi-
no, avvocato) e solo così poté avere un po’ di pace.
Quanto a me non avevo dubbi circa il loro desti-
no nelle galere della Repubblica.

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RITORNO IN FABBRICA

Con quanto incassavo nella mia veste di ambu-


lante, si campava; con gli extra mi ero comperato,
incurante delle proteste dei familiari, un piccolo ter-
reno vicino al mare, non lontano da Otranto. A mez-
zo di rovi e campicelli senza cura da anni, rimaneva
l’avanzo di un cascinale, con il tetto crollato ma
con i muri di pietra viva ancora ben solidi. Con gran
fatica e modeste corruzioni ero riuscito a ottenere
l’acqua; raddoppiando gli sforzi la luce. Poi, com-
pletamente da solo e servendomi, ove proprio ne-
cessario, dei manovali a ore, mi ero adattato a
soste di dieci giorni per riadattarlo così che in tre
anni lo avevo reso abitabile.
Debbo chiarire al mio sorpreso lettore che io tra-
scinavo dentro di me una mai sepolta nostalgia per
certe dormite pomeridiane di bambino, fuori dal-
l’abitazione, sulla paglia, al riparo dai raggi del sole,
ma non così all’ombra da evitarne il calore intenso.
Mi intorpidivo inseguendo sogni infantili né i tafani
impedivano al sonno di conquistarmi. Nel corso dei
lunghi viaggi da un capo all’altro del mondo mi co-
glievo a rievocare un frammento assai secondario
della mia vita, senza comprendere perché nessun’al-
tra chiave del ricordo fosse così dolce e così poten-
te insieme. Facevo allora ciondolare il mento ap-
poggiato sulle palme della mano e mi accovacciavo
in qualche angolo, senza più interesse per nulla, a
occhi perduti, pagando il tributo per aver troppo
frettolosamente estirpato le radici. Né erano di fre-
no immagini di strade polverose, di parenti
straccioni, dell’intonaco sgretolato. Se qualcuno do-

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mandava a che cosa stessi pensando, replicavo con
uno «sto dormendo» e mi gustavo il divertito stupo-
re provocato dalla mia frase misteriosa. Insomma…
in quel luogo abbandonato da qualche Salvatore
Messana stanco di miseria, potevo riconciliare le mie
diverse anime, pigrire tranquillo senza dover fornire
spiegazioni a moglie e figlio, guardare il meriggio che
trascorreva.
La mia graziosa compagna (pur essendo la pa-
drona del fondo a evitare l’intervento di creditori
sempre all’erta) si guardava bene dal seguirmi e anzi
non perdeva occasione per proporre, petulante, ra-
pida vendita, sostituendo il rudere con qualche
moderna villetta a schiera. Anche senza motivi di
non accettare tanto buon senso, mi sono sempre
guardato bene dall’accontentarla né mi sono mai
avventurato a decifrare come mai tanta tranquillità
avesse scelto uno sciagurato per consorte.
Mi ero sistemato e non avevo ragioni di mutare
le mie giornate; ma doveva esserci ancora molta
brace sotto la cenere se non mancavo mai di inte-
ressarmi di come andavano le cose nell’arcipelago
dei briganti, approfittando di continui contatti con
numerosi amici abitanti in Lope de Vega. Infatti…
ma andiamo con ordine.
Erano circa le 23 e 30 di una serata qualunque.
Io tornavo, stanco morto, dal mercato di Pizzighet-
tone con il furgone dei giocattoli. Dopo aver par-
cheggiato e sistemato a dovere i vari catenacci anti-
furto, mi incamminavo verso il portone quando vidi
Giuseppe Salemi seduto a prendere il fresco, insie-
me ai fratelli Vito e Giovanni. Bevevano spumante
e sprizzavano buon umore per aver vinto una causa,
tutti e tre contro la stessa azienda. Ero stanco di

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solitudine e aiutai volentieri Giuseppe a finire la
bottiglia anche dopo che gli altri due si erano ritira-
ti; da un pezzo non ci si raccontava e la notte spin-
ge, è noto, a maggiore confidenza. Mi narrò la sto-
ria di sua moglie, con la quale non viveva più e
sulla quale le battute pesanti si sprecavano: davve-
ro non si finisce mai di conoscere la gente! Lei,
Rosaria, era stata violentata dallo zio, a sedici anni,
rimanendo naturalmente incinta. Giuseppe l’aveva
sposata e, per evitare scandalo, erano stati trasferi-
ti a Milano senza possibilità di replica. Lui era in-
namorato pazzo e voleva tenerla con sé ad ogni
costo, ma più alzava la voce più si scavava la fossa:
quella non aveva certo l’anima della casalinga e si
considerava in colpa per sempre. Finì con lo scap-
pare insieme a un pappone e a battere sui viali vici-
no a Porta Venezia. Scemo di rabbia il nostro corse
a denunciarla per abbandono del tetto coniugale,
ma l’esperto magnaccia, ben più astuto, parò il col-
po con l’accusa della donna: il protettore era Salemi,
lei era fuggita per questo! Finì naturalmente in ga-
lera e ci rimase per sei mesi, prima di riuscire a di-
mostrare la sua estraneità. Nel frattempo nacque
un secondo figlio d’incerta attribuzione e, per non
sbagliare, il Tribunale dei minori ficcò tutti e due in
qualche istituto. Ecco la giustizia per i poveracci:
se dici la verità non vieni creduto e si puniscono
tutti i litiganti.
Ci bevemmo un altro bicchiere; poi per cambia-
re argomento e per tirarlo su gli chiesi di parlarmi
della sua causa. Subito cambiò umore narrando di
come in venti fossero stati chiamati a imbottigliare
le bibite per la stagione estiva e avessero piantato
subito un casino dell’ostia, istigati dai giovani di

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Quarto Oggiaro che si divertivano a spaccare le
macchine per il gusto di farlo. E lui subito mise in
mezzo i soliti avvocati, dopo aver convinto tutti
che bisognava chiedere il posto fisso per aver la
borsa: tale piano, per quanto apparentemente pri-
mitivo, ebbe successo. Il padrone ci cascò come una
pera e pagò tre milioni ciascuno. Festa grande!
Ormai si rideva di gusto e Giuseppe, lanciato
come una slitta in discesa, cominciò a dire di quan-
do lui e Vito dovevano montar la guardia a Gio-
vanni che voleva scappare dalla fabbrica perché gli
girava la testa a guardar le bottiglie: affermava di
andare al cesso e invece tentava di raggiungere la
strada della finestra per paura dei fratelli, incuran-
te del danaro, di cui non capiva il valore, e dei de-
biti. Poi fra vigilanza, malattie, scioperi e malefatte
era arrivato al traguardo anche lui… più lo ascol-
tavo e più mi veniva voglia di trovarmi in mezzo a
storie siffatte, di piantar grane; gli stabilimenti in-
dustriali avevano finalmente un lato positivo e po-
tevano nausearmi di meno. Giuseppe e i suoi fra-
telli sbarcavano del resto il lunario facendosi deli-
beratamente licenziare perché questa dannata so-
cietà moderna era capace di dar salario anche ai
reietti, con le opportune mediazioni; decisi che era
tempo di togliere la ruggine e divenire un operaio
gaglioffo.
Soddisfatto del partito preso mi diressi verso il
letto mentre lo scatenato Salemi continuava gesti-
colando le sue facezie e ci salutammo con la rievo-
cazione dello svanito Giovanni che si era dimesso
dalla Rinascente, trascorse quattro ore di servizio,
lasciando, per motivi diversi, e i parenti e l’ufficio
personale di stucco. Mandare quell’ometto al lavoro

100
non doveva essere davvero impresa di poco conto!
Circa trenta ore dopo già ero in coda presso gli uf-
fici di via Duccio da Boninsegna, non lontano dal-
la Fiera.
Consegnai il libretto e tutta la cartaccia richie-
sta dalla burocrazia; nonostante ogni passaggio fos-
se reso assai lento dalle assurdità dei ministeri, me
la sbrigai in mattinata. Potevo partecipare all’asta
della mattina successiva, perché davvero erano
cambiate alcune cose e le imprese (spaventate dai
Pretori d’assalto e costrette dalla penuria di ma-
nodopera adattabile ai compiti umili) si limitava-
no a specificare l’esigenza numerica, accettando i
primi in lista. I posti migliori (tipo IBM o assicura-
zioni) venivano coperti con il trucco dei passag-
gi diretti o delle chiamate nominative per presta-
zioni qualificate; ma ce n’era per tutti e in quella
bolgia si distribuivano senza avarizia contratti a ter-
mine, pulizie di cessi, lavature di piatti, manovalanza
bruta o simili castighi biblici. Quel giovedì mi si
presentò davanti una corte dei miracoli, un raduno
della disperazione: drogati, studentelli, alcolizzati,
fricchettoni, donne sformate dalle gravidanze op-
pure gravide, agitatori sociali, svitati, sempliciotti.
Si erano dati convegno a centinaia in quello squal-
lido seminterrato e avrebbero reso felice ogni gior-
nalista con la mania dell’emarginazione nella me-
tropoli. Tolta qualche dozzina di volti normali, il
grosso era in grado di terrorizzare il più democra-
tico dei capi del personale; mi veniva da ridere pen-
sando al disgusto rassegnato di quei coglioni con
la cravatta all’arrivo di costoro negli uffici. Il pa-
drone è proprio Re Mida – pensavo – se riesce a
trasformare in oro questi tipi vampirizzandoli; e si

101
stupirà anche lui di vedere quanti cascano nella
rete con un richiamo così poco allettante.
Mi intruppai, aiutato da Giuseppe, in un plo-
toncino di persone da deportare verso Segrate, in
un’azienda dal nome tedesco (“Kitzchemie”, mi
pare, ma non son certo) che ci voleva per venti
giorni. Era lontanissima, ma qualche santo ci soc-
corse e arrivammo. L’addetto ci osservò subito giu-
dicandoci pezzenti, poi ci fece firmare condizioni
capestro curando con diligenza le firme: prova di
un mese (oltre il contratto!), livello infimo, inizio
alle sei del mattino. Quel cane da guardia ci fece
poi presente che vi erano centoventi minuti di stra-
ordinario obbligatorio e che dovevamo inscatolare
detersivo con la massima velocità. Si abbandonò
infine a un sorriso chiarendo qual era il destino di
chi avesse battuto la fiacca o si fosse ammalato:
non usò parole ma si limitò ad agitare su e giù la
mano destra, con palmo aperto, in oscillazione per-
pendicolare al pavimento. Dopo il bastone venne
la carota: chi si fosse dimostrato “capace” poteva
aspirare alla stabilità. Io non capivo come ci si po-
tesse augurare una simile iattura e intanto consi-
deravo come il nostro interlocutore si attagliasse
perfettamente alla mia immagine di un sottufficiale
nazista per via dello spirito da caserma, della for-
male cortesia, della disumanità. Nell’intervallo
dedicato al pasto (ahimé… il cibo era orrendo)
Salemi telefonò all’avvocato e tornò sollevato: il
contratto era illegittimo, si poteva far causa.
Ciononostante fu assai duro il sopportare ordini,
sacrificare il sabato, trottare come i somari dietro
alla verdura; l’ultimo giorno fu davvero la fine del-
la quaresima.

102
Il nostro hitleriano venne a salutarci gongolante,
contento di averne spremuti a dovere una nidiata e
si complimentò (intendeva darci dei cretini) speci-
ficando che non appena possibile ci avrebbe chia-
mato di nuovo. Io mi ricordai della promessa inizia-
le di un posto fisso e rallentai quasi d’istinto il rit-
mo per evitare che venissero in mente al nemico
strane idee, rovinando l’impresa proprio al traguar-
do. Per tagliar la testa al toro confidai tuttavia al
magazziniere ruffiano di essere un comunista
marxista-leninista e gli offrii in gran segreto di en-
trare nel mio partito: quello ammiccò per saperne
di più e corse sicuramente a riferire in direzione.
Non c’era più pericolo di conferma e mi gustavo la
rivincita mentre inserivo negli scatoloni gli ultimi
pacchi di detersivo. La vendetta è buona servita fred-
da, come è risaputo, e io mi limitai a salutare l’esseesse
con un arrivederci ambiguo, denso di presagi per lui
cattivi; né volli dare giustificazioni alla firma «con
riserva» se non quella che così mi aveva insegnato
mio padre e che non intendevo offenderne la me-
moria a costo di far cosa poco gradita all’azienda.
Fu un colpetto semplice semplice, pulito pulito, con-
clusosi in dieci settimane con quattro milioni per
ciascuno: mentre il nazista schiumava per la bile, ci
lasciammo infatti convincere a rinunciare a quel
posto di merda, dopo un certo tentennamento attri-
buito alla paura della disoccupazione e volto sol-
tanto ad alzare il prezzo. Giuseppe Salemi, la cicala,
consumò la sua parte in un batter d’occhio; Salva-
tore Messana, la formica, pensava al futuro non solo
affidando parte dell’introito alla moglie ammini-
stratrice, ma soprattutto cominciando a riflettere
su come le operazioni potessero essere migliorate.

103
Se con minimo sforzo si potevano infatti guadagna-
re ben cinque mensilità, quali brillanti mete pote-
vano raggiungere una volonterosa intelligenza e una
canagliesca fantasia? In fondo al padrone costava
diversi milioni una sola giornata di produzione e non
aveva prezzo la tranquillità nello sfruttamento: que-
st’ultima andava sagacemente disturbata per con-
trattare in posizione di forza.
Mi dedicai, con folle geometria, a svolgere una
meticolosa inchiesta sulla cosiddetta “monetiz-
zazione” cercando (e non è facile) di separare il vero
dal falso, la leggenda dalla realtà. L’incentivo a di-
mettersi risultò, di norma, apparire nei rapporti as-
sai prolungati, mentre la somma variava notevol-
mente. Si offriva il minimo alle persone semplice-
mente antipatiche, l’importo medio agli assenteisti
incalliti e alle donne molto fertili, il massimo ai
disturbatori veri e propri. Chi concentrava su di sé
più di un neo riusciva a raggiungere anche cifre rag-
guardevoli, quindici o venti milioni. Curiosamente
poi le aziende superavano ogni limite in caso di so-
spetti terroristi perché, pur non avendo prove ido-
nee a giustificare il licenziamento, temevano la serpe
in seno, il basista che prendeva le misure della bara
ai dirigenti o che annotava le informazioni necessa-
rie a un buon incendio. Accadeva, conseguentemen-
te, che fosse proprio lo Stato italiano (sotto le spo-
glie di Breda, Marelli, Unidal, Ansaldo ecc. ecc.) a
finanziare futuri guerriglieri spingendo, con il dana-
ro, alla macchia persone incerte se saltare il fosso
proprio per mancanza di mezzi di sostentamento o
per timore di cambiare il quotidiano.
Il difficile, in buona sostanza, era rendersi invisi
o, meglio, temuti in tempo breve (mica potevo aspet-

104
tare dieci anni per aumentare il malloppo), senza nello
stesso tempo varcare il cancello del carcere; se fossi
riuscito a classificarmi fra gli ultimi, sarei stato, come
nel Vangelo, fra i primi a essere chiamato.
Come un generale incominciai a preparare le mie
campagne (che chiamerò “operazioni”, secondo il
gergo in voga fra gli addetti) arruolando di volta in
volta l’esercito adatto a sfondare la piazzaforte ne-
mica, senza dimenticare gran cura all’aspetto diplo-
matico: gli avvocati dovevano essere capaci, benvo-
luti nel loro ambiente, all’oscuro delle nostre trame
ma anche sufficientemente elastici da non indignarsi
oltremisura se le intuivano. Tecnicamente essi do-
vevano essere l’immagine speculare, uguale e op-
posta, dei professionisti cui gli imprenditori si ri-
volgevano e che da sempre erano abituati a rende-
re eleganti ben altre porcherie. Il ruolo degli avvo-
cati (specie per i consigli preziosi forniti a chi li sa
chiedere con gusto) è importante: ciò è intuitivo.
Ma io sono un sovvertitore tradizionalista, come già
avrete capito dagli scarsi accenni ai miei affetti di
oggi e così rispetterò il costume di non far parola di
questo aspetto: nobili, gangsters, uomini politici e
d’affari, che pur si erano avvalsi di studi ben più
famosi, ignorano infatti la questione e io mi adeguo.
Lascio dunque al lettore la facoltà di riempire questo
vuoto come più gli aggrada, augurandogli che l’eser-
cizio torni utile alla fantasia e all’intelletto.

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OPERAZIONE SUPERPULIZIA

Quando fermai Cosimo, davanti alla Sala Corse


di via Fiamma, e gli proposi di andare a lavorare,
mi guardò stupefatto e pensò a uno scherzo. E non
appena chiarii che si trattava anche di assumerci i
compiti più miserabili e peggio pagati, prese
un’espressione sgomenta ripetendo meccanicamente:
«Ma proprio io… fra milioni di persone…». Solo la
grande fiducia che riponeva in me convinse questo
rapinatore, appena uscito dal carcere di Novara, ad
accettare, dopo aver manifestato perplessità, il mio
piano. Continuando per la sua strada, del resto, non
aveva altro destino se non quello di tornare in galera,
specie considerando la sua testa calda e la facilità
con cui andava in bestia.
«Ho studiato il sistema di star finalmente dalla
parte della legge, – sghignazzai ironico, – e di punire
i padroni ricavandoci anche tornaconto».
Con Rocco fu invece tutto facile e afferrò al volo
la situazione; era molto sveglio e se non avesse avu-
to la mania (più che il vizio) del gioco d’azzardo,
oltre a risparmiarsi guai continui, avrebbe fatto stra-
da nella vita. Eravamo un terzetto che poteva scala-
re le montagne. Il Cosimo assicurava piena copertu-
ra in caso di rissa e già preveniva aggressioni con il
suo aspetto da vero delinquente. Portava le scarpe
con il tacchetto nascosto, per elevare la statura troppo
bassa, e incredibili giacche a righe; a volte sprizzava
simpatia e altre urtava il suo esser sempre teso come
una corda di violino. Il Rocco invece mostrava una
perenne aria rassicurante, con il suo borsello, e nes-
suno poteva immaginare la sua determinazione di

106
arraffare tutto il contante che gli capitava sotto tiro
e di correre a puntarlo su di un cavallo. Imperturba-
bile, come ogni dedito all’azzardo, accettò senza
batter ciglio l’ennesima avventura, dignitoso come
un conte in procinto di qualche matrimonio imposto
dall’interesse, sempre cortese e mai entusiasta.
Dopo la trafila al collocamento, ci trovammo “av-
viati” verso una temuta Cajenna, la SRL Superpulizia
(mi scuserà l’acquirente del volumetto se mi sono
permesso di mutare la denominazione, sostituendo-
la secondo estro, ma posso garantire la assoluta ri-
spondenza al vero di quanto leggerà). Dovevamo
lavorare alla notte, dalle 20 in poi, in un grande piaz-
zale dell’azienda tramviaria municipalizzata. Si trat-
tava di scopare, lavare e lucidare, dentro e fuori, fino
a render brillante il colore, una infinita teoria di mezzi
pubblici, quelli semplicemente grandi e quelli enor-
mi. Ci dichiarammo, naturalmente, soddisfatti dello
stipendio e avanzammo anzi la richiesta di essere
utilizzati per ore straordinarie, anche la domenica.
La trovata era di sicuro effetto. Dipendevamo da un
uomo straordinariamente brutto, con molta barba ma
con pochi capelli, claudicante fino ai limiti dello stor-
pio, trasandato, con una qual aggressiva stupidità che
traspariva dai denti giallognoli impegnati nel sorriso.
«Se quello è il capo, – sussurrai ai miei amici, – figu-
riamoci il resto!». Infatti lo spogliatoio era un box
sufficiente forse a contenere vetture di cilindrata me-
dia, pieno di chiodi cui venivano appesi gli abiti e, al
termine, le tute grigie. Rocco fu subito tentato, ma
riuscì a vincersi evitando di allungare le mani verso
invitanti tasche. Ci guardavamo a vicenda, così con-
ciati, e si rideva dell’adesivo di plastica che identifi-
cava goffamente gli operai della Superpulizia: la

107
giubba larga consentiva di tenere il maglione per fre-
nare il freddo pungente delle notti invernali. Pren-
demmo la nostra dotazione di acidi e solventi (noci-
vi in spregio a una legislazione già permissiva) e ci si
mise all’opera. Le squadre di fantasmi robot entrava-
no nei mezzi vuoti e lustravano senza posa i rifiuti;
provate a pensare quante cose un tram ingoia in ven-
tiquattro ore, dal piscio dei bimbi al vomito degli
ubriachi, dallo sputo dei vecchi alle caccole di naso…
senza contare le atroci gomme americane incollate
negli angoli più impensati.
L’umanità è sporca, affermano i pessimisti. Ma
quella fetta di umanità che si serve dei mezzi pubbli-
ci ritengo abbia deciso, per vendetta, di lasciare de-
triti maggiori rispetto a una media ipotetica, con punte
che rasentano il triplo nelle prime e ultime corse.
Il capo squadra (tale Ottavio, senza cognome,
perso otto anni prima, la notte dell’assunzione) ci
indicò una fila di autobus e, con fine umorismo, disse
di volerli vedere nuovi. Noi a recitare dei bellissimi
«sì», chiamandolo «signore», perché avevamo nota-
to che ci godeva e che il suo lato debole erano le
lusinghe; eravamo sordi e muti pur di superare il
fatidico periodo di prova. Ci gettammo in mezzo
alla nebbia e ci si salutava quando uno intravedeva
la sagoma dell’altro, per farci coraggio.
Sette fatiche come quelle di Ercole, e non meno
terribili, dovemmo superare, tanti erano gli ostacoli
disseminati lungo quei quindici giorni sperimentali.
Il padrone si serviva di piccole carogne pronte a far
la spia sui tuoi comportamenti o i tuoi pensieri, di
gente che insisteva per conoscere dove avevi lavo-
rato prima per i controlli. Li tranquillizzammo pre-
cisando di essere appena rientrati dalla Francia, chi

108
addetto all’industria vinicola, chi allo scarico del
grano dai silos. Bisognava riuscire nell’operazione
di freno della curiosità interessata del ficcanaso di
turno, senza però dare appiglio a nuove imbaraz-
zanti domande. Un paio di volte fummo sul punto
di cedere per via delle mani gelate, delle ossa rotte,
della testa pesante; ma l’uno faceva forza all’altro e
così si tirava avanti odiando sempre maggiormente
il nostro nemico, lo sconosciuto proprietario che
magari si stava giocando al casinò i soldi guadagna-
ti sulla pelle dei dipendenti (il paragone era stato da
me escogitato per eccitare Rocco, come si fa con i
tori, in apertura di corrida).
Volgeva al termine, ormai, la nostra tortura, quan-
do arrivò un cosiddetto “ispettore”, ben vestito, con
il cappotto color cammello, un colbacco degno del
ministro sovietico per gli affari esteri e una sciarpa di
lana pregiata. Ottavio, il mostro, gli trotterellava dietro
come poteva, con il suo arto anormale, e lo informa-
va delle nostre capacità. Poi il nuovo arrivato afferrò
uno straccio e con fare militaresco controllò i mezzi
lavati dai sette assunti di recente. Si complimentò
con noi tre esprimendo felicità per l’ingresso nella
società di “persone valide”, trovò sufficienti due di-
sperati veneti che lo osservavano intimoriti, ma si
incazzò con la rimanente coppia agitando il panno
che aveva dimostrato la imperfezione nel loro lavoro.
Lo sciancato esibì, a un cenno, i cartellini dai quali
emersero ben tre ritardi in quelle due settimane. Il
cammellato non ebbe dubbio alcuno.
«Qui di mangiapane non ne vogliamo, non siamo
un ente di beneficenza. Insomma domani ritirate la
paga, la lettera di licenziamento e ve ne andate fuori
dai coglioni, sperando che la lezione vi insegni a stare

109
al mondo!». Io mi aspettavo una reazione dei sin-
dacalisti, e invece niente. Lì non c’erano neppure
CGIL-CISL-UIL, eravamo ancora ai tempi delle filande
nel secolo scorso. Ci si accontentò di mettere anche
questa nel conto da presentare a quei bastardi, se
tutto fosse andato bene.
Il turno successivo il coltello potevamo finalmen-
te tenerlo dalla parte del manico. Non potevano più
buttarci fuori senza “giusta causa” e gli agnelli, per-
tanto, assumevano senza ritegno il loro aspetto di
lupi feroci. Era notte di paga per le maestranze, ma
come al solito la direzione ritardava, un paio di gior-
ni, tanto per il gusto di fottere qualche spicciolo
con gli interessi bancari.
«Caro Ottavio, – gli dico, – niente soldi, niente
lavoro. Io ho sgobbato e voglio sentire il grano in
tasca: è un diritto». La commedia prevedeva adesio-
ni frazionate, prima da parte di Rocco e poi di Cosimo,
che intervenne quasi per caso, sbraitando il suo pro-
blema dei debiti. Incuteva rispetto. Con quel suo vo-
cione da “mani in alto” intimidì la platea, mentre noi
due logoravamo ai fianchi. Grazie all’appoggio di
Verter (proprio così, non Werter) Mola, uno dei fissi,
metà scioperarono essendo la paga un problema mol-
to sentito. Davanti allo spogliatoio, prima di andar-
cene, dissi: «Caro Ottavio, da buon maggiordomo ri-
ferisci al padrone che d’ora in poi dovrà essere sem-
pre puntuale e che inoltre dovrà venire sul piazzale a
portarci le sue scuse personali, altrimenti andremo a
casa sua per ottenerle». Lo zoppo mi osservò scon-
volto, non gli era mai capitato, spalancava gli occhi
tristi come se gli avessimo picchiato la mamma.
La notte dopo c’era tensione. Arrivò subito l’ispet-
tore cammellato e ci portò il danaro, ma fece una

110
ramanzina. Io, per innervosirlo, lo chiamavo «signor
Verde» invece di Bianco (il suo vero cognome) e lui
mi correggeva seccato. Sul più bello della discussio-
ne, Rocco se ne uscì con una trovata da nottambulo.
«Ehi, dottore, non fare troppo l’indiano. Qui c’è il
grano, ma non c’è la busta! È un obbligo preciso e io
la voglio subito; perciò sali in macchina, vai dal ta-
baccaio o dove ti pare, torna con il documento con-
tabile e dammelo, così lo controllo voce per voce,
riga per riga. Quanto ai sorrisi, risparmiali per il pa-
drone». Fu una scudisciata sul volto. Replicò che
eravamo pazzi e che a quell’ora tutto era chiuso.
Promise infine di farcela avere per l’indomani e se
ne andò, incazzato come una pantera selvaggia allo
zoo, con bruschi movimenti di nevrotico. Nessuno
si era mai permesso di trattarlo così e meditava la
sua vendetta, senza neppure il tentativo di celare le
intenzioni. Noi incominciammo a rallentare i ritmi
e invece di cinquanta autobus ne furono puliti solo
venticinque, la metà esatta. Avevamo la certezza
che al secondo giorno di un servizio fatto male
l’appaltante ATM avrebbe tirato le orecchie al prin-
cipale, facendo il nostro gioco. Spiegammo poi a tutti
le ragioni del poco consueto atteggiamento, appog-
giati da Verter e da un relitto napoletano terremo-
tato, adattatosi a dormire in una scuola, chiamato
Pasquale Forcella. Insieme attaccammo un cartello
veramente gigantesco ove stava scritto:
«Lavoratori, ci pagano 250 lire per ogni tram oltre
il cinquantesimo e bisogna farci il mazzo per riusci-
re a conquistare il cottimo. L’azienda ne prende in-
vece 25.000, sempre. Di questo passo il padrone
sarà sempre più ricco, mentre noi saremo sempre
più stronzi. E allora noi vogliamo almeno 5000 lire

111
per ogni catafalco ATM extra oppure mandino a la-
vare l’ispettore. Intanto, per gradire, torniamo uo-
mini e muoviamoci con il ritmo giusto di venticin-
que: vedremo chi calerà le braghe per primo!»

Ai cinque ribelli fu lestamente spedita una rac-


comandata lunga quasi un chilometro, con l’accusa
di scarso rendimento e la perentoria richiesta di giu-
stificazioni scritte. Quello stesso pomeriggio ci in-
contrammo e, prendendoli in contropiede, ci recam-
mo alla sede amministrativa e dichiarammo all’im-
piegata che il padrone ci aspettava. Il trucco riuscì
e ci trovammo, per la prima volta, faccia a faccia
con il misterioso nemico, quello che i colleghi ave-
vano visto soltanto in cartolina. «Le nostre giustifi-
cazioni sono queste!», sibilai militaresco e insieme
consegnai il seguente testo:
«Abbiamo il diritto di non crepare su un tram e i
tempi di lavoro sono assurdi. Vogliamo inoltre il lat-
te disintossicante come prescrive la legge, uno spo-
gliatoio vero lontano dai bidoni della spazzatura.
Prenda, signor padrone, appuntamento con il fale-
gname perché presto dovrà ordinare una bacheca
per i comunicati del sindacato che stiamo formando.
Distinti saluti.»

Quello era furbo. Si vedeva benissimo che dalla


rabbia aveva la milza in bocca, ma continuava a
sorridere lisciandosi i baffetti grigio argento con il
pollice e l’indice della mano sinistra, mentre prose-
guiva a masturbare senza posa, su e giù, una provo-
cante penna preziosa con la destra. «Se avete finito,
potete andare… e la prossima volta chiedete un
appuntamento. Riceverete notizie nel termine pre-
visto… arrivederci signori miei».

112
Aveva uno spiccato accento lombardo, pareva
l’immagine televisiva del buon padre di famiglia, ma
si intuiva il pugnale pronto a colpirti nella schiena.
E infatti, già quella stessa sera, Verter Mola era
scomparso. Non era stato licenziato; era stato pro-
mosso. Si era venduto per il solito piatto di lentic-
chie e non rispondeva neppure al telefono se lo si
chiamava a casa. Un colpo ben assestato: con 20.000
lire mensili sotto forma di passaggio di qualifica lo
sciopero del cottimo era sconfitto. A noi toccavano
invece tre giorni di sospensione.
Dovete ora sapere che se uno ricorre all’arbitrato
presso l’Ufficio del Lavoro, la punizione rimane so-
spesa fino alla decisione, e passano come minimo
quattro mesi. Così facemmo e fu un rigore parato
inaspettatamente che rialzò il nostro prestigio e ci
consentì di riprendere la lotta senza sputtanarci. Co-
minciavamo a costare e avevano dovuto mandare
due rimpiazzi per finire quanto noi evitavamo di fare.
Provammo allora a richiamare Mola nella sua nuova
sede di lavoro e ce lo passarono. Io registravo con
un portatile mentre quello piagnucolava di aver fa-
miglia e implorava di esser lasciato in pace, perché
l’aumento gli era stato concesso proprio a patto di
lasciarci perdere. Feci ascoltare a tutti gli operai la
telefonata. «Visto? Il padrone ha paura. Voi non avete
mai visto un aumento e a lui, subito, per evitare guai.
Quindi a ribellarsi si ottiene e a chinare il capo si
resta ciuchi». La manovra si ritorceva contro il ne-
mico; noi acquistavamo strafottenza inaudita e sen-
za ritegno andavamo incitando tutti al casino, cre-
ando scompiglio. Ottavio e l’ispettore cammellato
subivano la vergogna di non esser riusciti a fermarci
e intimorivano assai di meno.

113
In un mese avevamo collezionato quattro san-
zioni, tutte inviate all’arbitrato. E avevamo un asso
nella manica. La direzione non affiggeva il contratto
collettivo nel deposito e violava la legge che lo im-
pone; secondo i giudici le punizioni erano dunque
nulle, ma noi eravamo stati zitti per farlo sbagliare
più a lungo e per dargli il cazzotto nello stomaco al
momento giusto. Per stuzzicare l’avversario restam-
mo tutti e quattro a casa malati qualche giorno e
non fu difficile trovare il medico per “sindrome
depressiva”: tra l’altro un po’ di riposo ci voleva dopo
le notti al freddo. Recuperate con il sonno le ener-
gie, passammo le ultime ventiquattro ore libere a
Camogli, in gita, per goderci il sole invernale della
riviera. Con la barca ci si recò a Punta Chiappa e si
mangiò al Drin, cucina ligure verace con terrazza sul
mare. Pasquale era affascinato e stava quasi dimen-
ticando la sua miseria. Beveva il vermentino fresco
(nostro ospite, è ovvio) e benediceva quella rovina
che l’aveva espulso dai vicoli del suo quartiere. Gra-
zie al vino il piano fu elaborato con allegria e poi fu
necessario stenderci al sole… con il sonno arrivò una
pennellata di colore che ci dimostrava in salute e dava
il tocco dell’arroganza alla provocazione!
Alla ripresa il povero Ottavio tentò di corrom-
permi con l’offerta di essere capo squadra alla me-
tropolitana. Gli risi in faccia spiegandogli che non
me ne fregava niente e provai una strana gioia nel-
l’infliggere la tortura indiretta al padrone. Di lì a
mezz’ora si fece vivo il cammellato, curioso di sa-
pere se ero cascato nella rete o se stavamo combi-
nando casino come al solito. Cosimo si lanciò verso
di lui, lo tirò a sé per la sciarpa di lana e lo affrontò:
«Sei un verme e ti vuoi comprare la gente con un

114
piatto di minestra. Ma noi siamo generi di lusso e
costiamo cari! Gira al largo, perciò, o ti rompo il
muso». Sembrava proprio incazzato nel profondo e
ci fu il gelo: ma ognuno era ben felice di veder trat-
tato finalmente l’aguzzino come si meritava e gli uo-
mini con la tuta lo osservarono a lungo mentre se ne
andava a testa bassa, impaurito. A quel punto ci
siamo schierati in quattro, diritti sull’attenti, come
il picchetto d’onore al milite ignoto. Rocco lo chia-
mò con voce gentile e suadente: «Signor Bianco…».
Fece appena in tempo a voltarsi che già ci vide agi-
tare in perfetta sincronia l’avambraccio, un gesto
non equivocabile accompagnato da una sonora
pernacchia corale.
La lettera, uguale per tutti, non giunse inattesa:
«Egregio Signor Messana, con la presente Le conte-
stiamo il comportamento irriguardoso tenuto da Lei
e da altri tre dipendenti, alle ore 22 del 12 febbraio
u.s., nei confronti del nostro ispettore, Sig. Bianco.
Senza nessun motivo il suddetto è stato insultato
alla presenza delle maestranze, con parole irripetibili,
e gravemente minacciato.
Ai sensi dell’art. 7, l. 20/5/70, n. 300, e del vi-
gente CCNL per le imprese di pulizia, La invitiamo a
presentare eventuali giustificazioni, avvertendola
che, decorso detto termine, potranno essere adot-
tate nei Suoi confronti le sanzioni del caso.
Distinti saluti».
Dopo neppure ventiquattr’ore l’agenzia Rinaldi
recapitava quattro espressi di replica:
«Egregio signor imprenditore, l’art. 7 da Lei ci-
tato impone di affiggere in luogo accessibile a tutti
l’elenco delle infrazioni e delle sanzioni. Poiché Lei
è abituato a fare il tempo bello e quello cattivo, non

115
se ne è preoccupato minimamente. È inutile quindi
prendere un provvedimento che sarebbe comunque
nullo. Ad ogni buon conto non è vero nulla di quanto
afferma: noi siamo lavoratori rispettosi della legge
e ci limitiamo a non farci mettere i piedi sulla testa.
Cogliamo l’occasione per farLe notare la mancanza
di estintori nel box da Lei chiamato spogliatoio e
La preghiamo di provvedere, altrimenti saremo co-
stretti ad avvertire i Vigili del Fuoco».
Il campo avversario aveva subìto un colpo duris-
simo: in sessanta secondi avevamo distrutto un mese
di preparazione del nostro licenziamento. Giravano
con il muso lungo, tutti i cani da guardia, riflettendo
l’umore del loro re-imperatore. Mentre ancora si lec-
cavano la ferita cosparsa di sale, provocammo un’al-
tra novità: l’assemblea. Il sindacato ha diritto di far
discorsi agli operai per dieci ore ogni anno, mandan-
do (se vuole) un funzionario. L’azienda deve pagare
le ore. Così dice lo Statuto, perché il governo prefe-
risce rinforzare le tre confederazioni piuttosto di ve-
der nascere gruppi spontanei. Fra due mali sceglie
il minore. Quando arrivano la prima volta, i sinda-
calisti promettono sempre mari e monti per far col-
po sulle maestranze e tesserarne una bella fetta; le
braghe le calano dopo, quando hanno le deleghe e
possono avere qualche cosa in cambio. Ma questo
l’inesperta Superpulizia non lo sapeva. Noi erava-
mo andati in quattro alla sede CISL di via Tadino e
avevamo spiegato di essere dei pirla con tanti pro-
blemi. Avevamo pagato il nostro cartoncino e ci
avevano garantito l’arrivo di qualcuno. Un tizio in-
fatti telefonò a Rocco, volle sapere un sacco di
notiziole e poi spedì una lettera in direzione per
convocarci in assemblea.

116
In una sala dell’azienda ATM (eccezionalmente a
disposizione) c’erano quasi tutti e non mancava na-
turalmente l’ispettore Bianco, senza cappotto cam-
mello, per sembrare un proletario. Subito noi comin-
ciammo a gridare: «Fuori, fuori», e quello risponde-
va imbarazzato: «Sono un dipendente pure io», sen-
za rendersi conto di abolire la barriera gerarchica, di
essersi sputtanato. Rocco domandò al funzionario
se i licenziatori possono partecipare alle riunioni sin-
dacali e tutti risero. Il cislino fece segno di non rom-
pere le scatole e cominciò a spiegare quanti aumenti
ci spettavano, quanti soldi dovuti non ci erano stati
versati: indennità di sopra, terzi elementi di sotto…
nessuno capiva molto ma facendo i conti erano due
anni che si trattenevano trentamila lire al mese per
ciascuno. Non se ne sa mai abbastanza: ecco per-
ché non davano le buste paga! Si rimase d’accordo
(e la votazione fu un plebiscito) di iniziare la
vertenza. Prima una lettera di avviso; poi sciopero
oppure azione legale perché il credito era così sicu-
ro che non c’era quasi bisogno di pressioni come il
blocco del lavoro. Tirai fuori la calcolatrice: £ 30.000
x 47 dipendenti in quelle condizioni nei vari depo-
siti = £ 1.410.000 x 12 mesi = £ 16.920.000 an-
nuali + quote contributi: £ 24.000.000. «Un bel tris»,
commentò Rocco, sempre con la testa alle corse di
cui aveva una terribile nostalgia. Eravamo arrivati
alla settantaduesima giornata di campagna militare;
un colpo d’ariete aveva aperto il portone principale
della città nemica.
Il padrone ci fece chiamare nel suo ufficio. Ci chie-
se con fare annoiato quanto volevamo per andarce-
ne “fuori dai coglioni”. Cosimo disse dieci milioni
precedendo me che volevo sparare venti: lui faceva

117
il conto sul rendimento medio della rapina e aveva
chiesto una cifra equivalente. Pasquale era sul punto
di svenire, non ci credeva e si sarebbe accontentato
di novecentomilalire. Il lombardo lasciò cadere la
mano dai suoi baffi argentati e sbottò: «Questa è
un’estorsione».
«Guardi che ci ha chiamati Lei, dottore», sogghi-
gnò il Rocco, con lo sguardo gelido, come al tavolo
di poker. Io rilanciai: «Oggi sono dieci, dottore. La
settimana prossima dodici. Si sale sempre di due
milioni ogni sette giorni, perché a lucidare tram ac-
cumuliamo troppa rabbia… se non la sfoghiamo ci
viene l’esaurimento nervoso».
Andò a telefonare in un’altra stanza, poi tornò e
offrì cinque milioni. Noi duri, per una ventina di
minuti, conquistati da quell’allucinante discussione.
Di solito l’operaio tenta di convincere il padrone a
considerarlo una brava persona; noi invece usava-
mo argomenti per indurlo a pensare esattamente il
contrario, che eravamo cioè più cattivi dell’appa-
renza. Insomma era un rovescio esilarante della lo-
gica, ci si divertiva, specie alle battute partenopee
del nostro terremotato ormai entrato nella giusta
dimensione. Si concluse a quota otto, oltre liquida-
zione e stipendio naturalmente.
A quel punto gli diedi il numero di telefono del
nostro avvocato, per concretizzare l’accordo. Il ne-
mico trasalì di rabbia:
«Che c’entra l’avvocato, adesso?».
«C’entra, – replicai, – perché ha seguito il proble-
ma dei provvedimenti disciplinari e poi perché vo-
gliamo fare tutto in Tribunale, regolarmente, non di
nascosto per essere magari denunciati un domani».
Non poteva tirarsi indietro e pagò lui, naturalmente,

118
tutte le spese. Si organizzò un finto licenziamento,
una causa pro forma e si mise il compromesso nero
su bianco: nel corridoio ci diedero un bel circolare
di ottomilionisettecentotrentaduemilaquattro-
centoquindici. Vittoria!
Non era finito ancora il calvario di quel vampiro.
Gli assegni, uno accanto all’altro, con i nostri nomi,
furono fotocopiati alla macchinetta della stazione
centrale, per cinquanta volte, insieme alla scritta
finale:
«Svegliatevi! La lotta paga, PAGA!».
Andammo a distribuirli ai nostri colleghi (invece
di scappare come un tempo il vecchio Piras) e cia-
scuno si sbalordiva, dicendo di aver capito in un
attimo più che in tutta la vita. Naturalmente tanti si
saranno tirati indietro, ma certo la Superpulizia non
è più tornata tranquilla come prima. Quanto a Verter
Mola – vendutosi per un miserabile aumento – si
mangiava i gomiti e ci implorava di prenderlo con
noi nella prossima spedizione.
L’invenzione degli assegni fece traboccare il vaso.
Quando andammo a ritirare i nostri libretti, il lom-
bardo cominciò a insultarci e voleva provocare ad
ogni costo. Fatica sprecata con me, ma Cosimo gli
allungò subito un ceffone così potente da farlo tra-
ballare per un istante. Scappammo e avevamo pau-
ra di una denuncia, ma questa per fortuna non arri-
vò mai: un po’ forse per evitare che anche noi la-
mentassimo le male parole ricevute e un po’ (e credo
soprattutto) per non fare la figura del coglione rac-
contando l’intera vicenda.

119
OPERAZIONE SPLENDOR S.p.A.

L’
« appetito vien mangiando», diceva sempre mia
madre rievocando come una preghiera l’antico ada-
gio. Dopo il successo ottenuto, non avevo infatti
nessuna intenzione di fermarmi e decisi di organiz-
zare subito una seconda e più audace operazione,
sempre nel fertile settore delle imprese di pulizia,
ove era molto facile trovare lavoro. Rocco, anima
pigra, fu convinto a partecipare con gran fatica per-
ché viveva beatamente con la sua borsa piena, ed
era propenso piuttosto a spendere che ad accumu-
lare. Per evitargli tentazioni, da buon generale, per
il suo bene, lo obbligai ad acquistare BOT trimestrali
(due pezzature da cinque milioni) creando così arti-
ficiale carenza di contante e incentivandolo all’azio-
ne nell’unico modo possibile. Verter, il disertore
della campagna precedente, fu ammesso a una pro-
va d’appello, ma gli furono imposte dimissioni gra-
tuite dal posto occupato presso la Superpulizia come
prova tangibile della serietà delle sue intenzioni.
Cosimo, partito per un viaggio in Calabria, fu invece
sostituito da Angelo, un giovane elettricista della
Barona sui vent’anni con due lunghi baffi neri e la
battuta pronta; la recluta gravitava attorno alle case
di Lope de Vega ed era giurato avversario di qua-
lunque forma di attività subordinata.
Con sostanziosa mancia a un disponibile impie-
gato del collocamento (trecentomilalire) non fu dif-
ficile ottenere che tutti e quattro fossimo assegnati
alla stessa azienda; erano, ripeto, posti per nulla
ambiti, e a nessuno veniva certo in mente di prote-
stare per l’alterazione, in pratica irrilevante, della

120
graduatoria. La vittima designata, ovvero la S.p.A.
Splendor, prosperava grazie all’appalto delle pulizie
(con straccio e macchinari) dei locali di alcune ban-
che; qualche ufficio serviva ad arrotondare. Il pa-
drone ci mandò dapprima presso una piccola
metalmeccanica e noi ci comportammo da bravi fessi,
lustrando e facendo brillare pavimenti, porte e ma-
niglie. Superata la prova con pieno merito, riuscim-
mo a diventare amici del solito capetto, il quale, per
premiare la nostra buona volontà, ci mandò alla fi-
liale della Banca *** situata in pieno centro storico,
raccomandandosi mille volte di renderla uno spec-
chio, poiché era il miglior cliente della società.
Con minor fatica del previsto il grosso era com-
piuto. Il lavoro (pur se noioso) non presentava par-
ticolari asperità, essendo gli istituti di credito luoghi
quasi asettici dove gli impiegati camminano per abi-
tudine in punta di piedi, senza mangiare panini, e
soffrono in silenzio la loro infelicità. Dopo la chiu-
sura degli sportelli entravamo noi cinque coatti e ci
davamo dentro, sotto l’occhio vigile di guardiani in
divisa, comunemente denominati sceriffi. Si face-
vano solo quattro ore per turno; le altre quattro era-
no precedenti come orario, presso dei condomini, ma
isolati, ognuno con una scala assegnata da lavare.
Per quanto si studiasse la situazione non ci veniva
in mente niente e ogni mossa possibile aveva una
facile contromossa. Bisognava infatti colpire la
Splendor nei suoi rapporti con la banca, ma, se in-
tuivano le nostre intenzioni, ci avrebbero disperso
e isolato immediatamente.
A forza di malvagie riflessioni uscì l’idea e deci-
demmo di provocare un gigantesco puttanaio, di
quelli che fanno epoca. Appena entrati al lavoro,

121
l’impresa di pulizia si trasformò in una squadra di
guastatori, approfittando dell’assenza improvvisa,
per malattia, del quinto, di cui non ci fidavamo no-
nostante all’apparenza sembrasse un buon diavolo
(ovvero un mascalzone come noi).
Cominciammo a ficcare dentro i cessi, con deter-
minazione priva di scrupolo, una buona dose di as-
sorbenti per signore mescolati a gesso, provocando
l’intasamento di tutta la batteria dei contenitori di
merda. Verter – non del tutto digiuno di idraulica –
si occupò poi di guastare due sciacquoni, in misura
minima ma sufficiente a determinare lo scorrere con-
tinuo di un rivolo d’acqua.
Con tocco da artista, per fortunata contingenza,
aggiunsi la guarnizione finale: una gigantesca cacata
in una delle tazze sabotate. Angelo nel frattempo si
era dedicato all’impianto elettrico e fu veramente
bravo a scoprire due fili in un punto assolutamente
difficile da trovare con rapidità. Il contatto era mo-
mentaneamente impedito da uno spessore di legno
e lo spessore si reggeva in equilibrio grazie a un
blocchetto di ghiaccio. Quest’ultimo fu aggiunto un
attimo prima della nostra uscita. Ci venne anzi da
ridere quando il Rocco perse più di venti minuti
per trovare la pezzatura adatta in un bar notturno
e, tornando, trovò che anche le maniglie erano co-
lorate di sterco.
La mattina successiva mandammo un osserva-
tore. Il risultato fu superiore a ogni più losca aspet-
tativa, si era davvero andati oltre il più ottimistico
dei risultati prevedibili: la banca aveva aperto con
oltre un’ora di ritardo! L’acqua aveva invaso tutti i
pavimenti e guastato la moquette; i guardiani ave-
vano avvertito subito ma non c’era la luce per far

122
funzionare la macchina aspiratrice e ogni tentativo
di far scattare la valvola risultava vanificato dai fili
in contatto fra di loro. Una squadra di operai chia-
mata appositamente, con urgenza, aveva finalmente
rimesso a posto le cose, ma quelli della banca erano
furibondi e non si spiegavano come tutto ciò fosse
potuto accadere.
A quel punto noi preparammo una lettera anoni-
ma, con ritagli di giornali (tipo rapimento sardo),
diretta alla società Superpulizia (quella precedente),
con scritto:
«Caro signore, Messana e gli altri lavorano pres-
so la Splendor e stanno facendo carriera. Non li co-
noscono, sono ancora agnelli. Passo l’informazione
perché li odio. Un amico».
Come era prevedibile il lombardo telefonò subi-
to al suo collega aguzzino, che non ebbe più dubbi
sulle ragioni del disastro accaduto: eravamo riusciti
a mandargli il messaggio senza esporci in alcun
modo e loro dovevano stare zitti in quanto è vieta-
to passare le informazioni negative sugli ex dipen-
denti. Naturalmente fummo trasferiti e il clima cam-
biò radicalmente. Ci confinarono alla pulizia di una
caldaia, all’estrema periferia, di mattino presto, allo
scopo di logorarci. La nostra reazione abbracciò un
ventaglio assai ampio: da un lato ci rivolgemmo al
Pretore per ottenere la revoca del trasferimento, in-
dicando quelli della banca come testimoni; d’altro
lato andammo a distribuire volantini di protesta ai
clienti che si recavano agli sportelli. L’istituto di
credito non doveva apprezzare affatto i guai origi-
nati dagli operai matti dell’impresa, specie dopo
averci visto addobbati da uomini sandwich, con il
motto: «Senza motivo ci hanno cacciato dal nostro

123
posto di lavoro». Alla caldaia non durammo più di
sette giorni e noi sapevamo che non poteva essere
una cosa lunga, tanto da starcene buoni, salvo infa-
stidire con ritardi, atteggiamento strafottente, richie-
ste di strumenti e di intervento delle autorità per
verificare la regolarità dell’impianto (fra l’altro il
committente si buscò una multa non mi ricordo più
per qual motivo).
Il padrone ci pareva vicino alla cottura completa,
assillato dalla banca che pretendeva la nostra testa e
circondato dai lamenti dei capetti che non manca-
vamo di mettere alla berlina davanti ai colleghi. Tentò
il tutto per tutto, mandandoci nell’ultimo girone del-
l’inferno a sua disposizione, una fabbrichetta chimi-
ca di Rozzano, dove le materie inquinanti abbonda-
vano ed era tossica anche l’aria degli uffici. Non ca-
piva di fare il nostro gioco, permettendoci di agire.
Appena visitati i luoghi mi accorsi subito che dei
quattro estintori tre erano scaduti e uno addirittura
vuoto. «Ragazzi, – dissi, – è l’ora di un’altra recita».
Gridai, a freddo, che mi rifiutavo di lavorare, che
eravamo di fronte a un tentato omicidio. Il custode
aggrottò molto stupito le sopracciglia e replicò che
il direttore se n’era già andato. Ordinai di chiamarlo
al telefono e lui lo fece, anche perché noi appariva-
mo molto decisi. Il piccolo tiranno, dall’altro capo
del filo, comandò di buttarci fuori e il nostro
interlocutore riferì, allargando le braccia.
Afferrai la cornetta, ricomposi il numero (che mi
ero segnato mentalmente) e senza esitare un attimo:
«Caro il mio signor direttore, sono l’operaio Sal-
vatore Messana della Splendor, regolarmente inviato
qui. Se mi vuol mandare via Lei deve chiamare la
polizia, perché non mi muovo».

124
«Lei è pazzo, – replicò concitato. – Se vuol fer-
marsi, lavori, altrimenti se ne vada e domani ci pen-
so io».
«Lei deve pensare oggi, subito, a rimettere a po-
sto gli estintori. Io voglio lavorare, ma mi rifiuto di
farlo in condizioni di pericolo».
«Adesso la sistemo come si merita… se non se
ne va subito arrivo con la forza pubblica».
«Bravo, – dissi, – la aspetto. Io intanto chiamo i
pompieri».
Il guardiano era stupefatto; in tanti anni non gli
era mai accaduta una cosa simile. Quando chiamai i
pompieri non ne volevano sapere, suggerivano vili
che era competenza di altri enti, che loro spegneva-
no gli incendi e basta. Poi, per non sbagliare, un ti-
zio promise che avrebbe mandato il funzionario ad-
detto. Ma questo lo fece quando io specificai: «Guar-
di che qui è un casino… siamo tutti in sciopero… ci
sono anche gli studenti con i bastoni e sta arrivando
la polizia!». Aveva paura di trovarsi al centro di una
grana e per evitarla arrivò, dopo venti minuti, un
tale, furibondo di esser stato scomodato.
Si era creato un interessante concentramento, uno
spaccato di quest’Italia malcresciuta. Il brigadiere
entrò – insieme al direttore – e senza saper nulla ci
intimò di smammare. Rocco replicò: «Scusi, io sono
l’operaio addetto, insieme ai tre colleghi. Chi è quel
signore, il proprietario?». «Io sono il direttore»,
bofonchiò quello, tipico giovinastro con la giacca
spinata, sul genere moderno-sportivo, in piena asce-
sa. «Sarà anche il direttore, – continuò sadico il mio
amico, – ma, purtroppo per Lei, non è il padrone.
Quindi non ha il potere di bloccare gli appalti». «Sì
che ce l’ho», protestò quello avventatamente, punto

125
sul vivo com’era. «E allora mi faccia vedere dove
sta scritto oppure si metta la coda fra le gambe e
torni da sua moglie a guardare la televisione». «Lei
se ne deve andare e basta», sibilò il declassato.
Intervenne in appoggio il brigadiere: «Vi ordino di
seguirmi in caserma… oppure di togliervi dai pie-
di, a scelta». Verter Mola aveva già paura, ma An-
gelo tenne botta. «D’accordo, ci porti in caserma, la
seguiamo, mogi mogi. Poi facciamo un bel verbale.
Obbediamo, come Garibaldi, ma deve essere chia-
ra una cosa e cioè che ci ha buttato fuori l’azien-
da… mica ci dobbiamo smenare la giornata. Siamo
disposti a pulire con gli estintori in regola!… e Lei
deve fare rapporto su questo punto. Andiamo, allo-
ra, brigadiere?». Nel frattempo io e Rocco stavamo
fotografando, con la mia microcamera, gli estintori
vicino al giornale, per via di garantirci una data cer-
ta, incuranti delle proteste lamentose del povero cu-
stode, sempre più allucinato.
Ci si muoveva verso il commissariato di zona,
quando arrivò il pompiere chiedendo di che cosa si
trattava e si ricominciò da zero. Non appena il nuo-
vo venuto si rese conto di essere stato gabbato, pre-
se a odiarci; il suo sguardo era proprio l’odio mate-
rializzato. Sparavamo a caso sul problema degli estin-
tori e pretendevamo prendesse anche campioni del-
le sostanze usate nel ciclo produttivo per via del-
l’aria che bruciava gli occhi. Ci mandò a quel paese
abbaiando che non era compito suo, che non erava-
mo in America. Acconsentì però a scrivere sul suo
verbale la faccenda della data scaduta e dell’estinto-
re vuoto (dopo suggerimenti dell’astuto Rocco), per
giustificare la chiamata e farsi pagare il disturbo.
Pagano gli interventi, non le cazzate!

126
Al commissariato era presente il direttore e ci
volle un’ora buona per scrivere il rapporto. Mette-
vamo sempre i puntini sulle «i», la nostra disponibi-
lità a pulire doveva risultare chiara. Quando uscim-
mo, dopo aver firmato le rispettive dichiarazioni,
l’uomo dalla giacca spinata schiumava. Per dargli
l’ultima stoccata, provocai: «Ci vediamo domani sera,
sperando di poter serenamente svolgere la nostra
modesta attività. Ma Lei si ricordi di dire al padrone
che vogliamo parlare con lui, per sapere il limite esat-
to dei suoi poteri… per me Lei esagera…». Non mi
lasciò finire, se ne andò sbattendo la portiera del-
l’automobile. Le gomme squittirono e, per la troppa
accelerazione della vettura, lasciarono il segno sul-
l’asfalto.
L’indomani stesso l’agenzia espressi Rinaldi re-
capitò alla Splendor una lettera di questo tenore:
«I sottoscritti ecc. ecc. non hanno potuto ese-
guire i necessari lavaggi per fatto e colpa del cliente
che pretendeva operassimo senza efficiente dispo-
sitivo contro gli incendi. Preghiamo intervenire a
tutela dei nostri interessi. Saremo presenti regolar-
mente con spirito di sacrificio sul posto assegnato.
Distinti saluti e baciamo le mani».
All’ora prefissata, ci aspettava un individuo,
mandato dal padrone. Ci invitò a seguirlo in dire-
zione, incapace di ulteriori chiarimenti per paura di
sbagliare. Lo costringemmo a rilasciarci una di-
chiarazione scritta che ci esentava dal servizio e ci
garantiva la paga, minacciando altrimenti di entrare
per mancanza di ordini contrari. Lo fece dopo as-
senso telefonico. La mossa ci consentì di arrivare in
ritardo e innervosire a nostro vantaggio un nemico
già reso fragile.

127
«Dove vogliamo arrivare? – esordì polemicamen-
te il principale. – Qui si sgobba seriamente; non c’è
posto per chi vuol rompere le scatole e basta. O la
guerra o dobbiamo risolvere, ma in fretta, questa
incresciosa situazione. Ditemi che cosa volete per
togliervi dai piedi».
«Lei dovrebbe essere più educato, caro signore,
rendersi conto di come certi termini non le stiano
bene in bocca. Noi stiamo benissimo alle sue di-
pendenze, ci divertiamo molto e vorremmo restare
fino alla pensione… o per lo meno fino a quando
esiste la società». A questa mia affermazione, il vam-
piro sibilò: «Questa è una minaccia!». E io, placido:
«Niente è eterno, commendatore, tantomeno una
impresa di pulizia. Ma se ci tiene, diciamo fino alla
pensione… non volevo minacciare nessuno. Certo,
se dobbiamo andarcene per scelta spontanea, pro-
prio in considerazione del fatto che il posto sembra
sicuro, ci servono almeno venti milioni, per mettere
in piedi un’attività in proprio… non è per cattiveria,
ma l’inflazione galoppa».
Ringhiava passeggiando. Sembrava uno di quei
cani lupo che vanno e vengono davanti ai cancelli
delle abitazioni residenziali, quando i bambini fin-
gono ripetutamente di voler entrare o li sbeffeg-
giano agitando il bastone. «Non se ne parla nean-
che. Venti milioni ve li dovrete guadagnare con il
sudore della fronte e state certi che vi spezzerò la
schiena». Angelo fu sincero: «Vi siete già succhiati
il sangue di mio nonno e poi quello di mio padre.
Io ho vent’anni e da sei faccio lavori che neanche
concepisce. Pulire un cesso potrà spaventare le
sue mani ma a me è come se dicessero di bere un
caffé. Vuol dire che questi venti milioni ce li do-

128
vremo guadagnare… andiamo ragazzi, si torna a
sgobbare!».
Non ci lasciò oltrepassare la porta; troppi danni
e troppo in fretta avevamo causato. Cominciò a trat-
tare e si parlava di milioni come se fossero
noccioline, sembravano i numeri di una tombola:
quattro… diciannove… sette… diciotto… dodici…
sedici. Ci attestammo su due posizioni non lontane,
ma a lungo: lui a quota quattordici, noi su quindici.
Non trattabili. Dopo dieci minuti buoni di recipro-
che argomentazioni, Rocco se ne uscì con una tro-
vata tutta sua, che denotava crisi d’astinenza dal
vizio preferito. «Commendatore… c’è un modo, uno
solo, per uscirne, con vantaggio per ciascuno. Que-
sto milione che balla lo puntiamo su Cornish Cris,
il vincente sicuro (secondo le mie informazioni) del
premio Arona… non ci si può sbagliare… lo monta
quel diavolo di Canzi e sui 1800 metri nessuno lo
batterà. Lo pagano tre a uno e ci si divide la vinci-
ta. Non mi fermo! Aggiungiamo Brio di Valle piaz-
zato al premio Pero e un bel tris al Trebbia con
Tirnovo, Quattrino e Alkan». Ci guardammo tutti
esterrefatti, compreso il padrone, che ebbe una pau-
sa di esitazione e tradiva vago interesse. Si riprese:
«Ma quali giocate e giocate… con gente come voi
non giocherei neppure a briscola… 14.500.000 e
chiuso… se volete, puntate per conto vostro…».
Non gli riuscì di non commentare: «Alkan oltretutto
è un brocco…».
Il resto è scontato. Si telefonarono gli avvocati
e andammo “spontaneamente” (si dice così nella
lingua del Palazzo di giustizia) davanti al Pretore
cui era stata assegnata la causa sul trasferimento.
L’accordo fu sottoscritto, nero su bianco. Era lu-

129
nedì. All’uscita ci sedemmo in un bar vicino al
Tribunale per festeggiare, con spumante e tartine.
Sul più bello Rocco si alzò, con gli occhi sul gior-
nale del tavolino a fianco, attaccando a sacramen-
tare mentre le mani volgevano al cielo: «Il tris era
buono… Tirnovo, Quattrino, Alkan… abbiamo
perso una fortuna… meno male che ho puntato su
Cornish Cris un cinquantamila. Ma vi rendete con-
to? … Alkan un brocco! Mai dar retta ai padroni,
neppure sui cavalli… ho perso una fortuna… ho
perso una fortuna».
Era bello starcene lì, come signori. Ci rimaneva
ancora una faccenda da sbrigare: la rituale distribu-
zione delle fotocopie dei circolari agli altri dipen-
denti della Splendor.

130
BLITZEN E OPERAZIONE SALVE

Si era sparsa la voce dei successi raggiunti con i


nuovi metodi di guerra e tutto il caseggiato di Lope
de Vega ne parlava; persino Ignazio, il barista, era
rimasto colpito dalle cifre che l’ottimismo proleta-
rio aveva ulteriormente gonfiato durante il tragitto
delle informazioni da bocca a bocca. La prima con-
seguenza fu un drastico calo dell’assenteismo e in
percentuale nessun governo al mondo può vantarsi
di averne strappato uno simile; tutti volevano in-
fatti tentare la sorte con il nuovo sistema, anche se
i risultati erano alterni e non sempre ci furono.
Un personaggio, in particolare, si impose all’at-
tenzione come eroe negativo, oggetto di punzec-
chiature e ironie: il povero Mimmo Capobianco.
Sempre vestito da spaventapasseri, con i pantaloni
“a zompafuossi”, tartagliava tentando di trasformare
in italiano il suo dialetto di immigrato e non si ver-
gognava mai di dichiarare il suo essere analfabeta.
Sgobbava, timido al punto di non riuscire a prote-
stare con nessuno; poi d’improvviso s’inalberava e
chiedeva venti milioni quale compenso della sua
cacciata dall’azienda. E quelli a spiegare che non
c’era motivo, che erano contenti di lui!
Lo stesso Giuseppe Salemi aveva rinunziato: non
era il suo genere ed era troppo per lui lavorare due
mesi di fila. Non ne aveva la pazienza e non gli in-
teressava averla.
Nelle discussioni al collocamento fu poi studiata
una tecnica nuova, di grande rapidità e discreta resa,
su misura per le imprese individuali. Non sempre era
infatti possibile costituire gli eserciti e ormai ci cura-

131
vano questurini sempre all’erta per cogliere un passo
falso. Nei giornali si parlava parecchio del “blitz” e
Michele (il quale aveva passato quasi vent’anni a
Mannheim) ci spiegò che voleva dire “lampo”; per
sfida si usò quel termine perché non ci pareva giu-
sto essere meno veloci noi nel rubare di un poli-
ziotto a mettere le manette!
Il gioco si basava, alla fine, sulla fesseria degli
uffici personale e dei loro impiegati, carognette brave
a strillare con i più deboli, ma ignoranti come so-
mari. Cercavamo l’inghippo nella legge e ve lo spie-
gherò con un semplice esempio. Il codice prevede
che il patto di prova ha un valore solo se viene sot-
toscritto prima di prendere servizio, altrimenti non
esiste proprio, è merda. Bisognava evitare con de-
strezza la firma lanciandosi al lavoro senza accetta-
re domande e senza farne, con naturalezza; questo
atteggiamento piace peraltro ai padroni, e lo favori-
scono senza rendersene conto.
Quante risate… ricordo di essere fuggito, a gam-
be levate, lasciando tutti di stucco, da un albergo di
lusso, dopo sole cinque ore, mentre mi facevano
strada verso l’ufficio del direttore. Ero tornato la
mattina successiva farfugliando scuse patetiche, ma
dopo centodieci minuti ero fuggito di nuovo: spedii
una raccomandata con il certificato medico che mi
garantiva sette giorni di assenza. Quegli zoticoni
reagirono con un licenziamento che mi fruttò tre
milioni e mezzo! Né posso dimenticare di quando
capitai in una mensa come aiuto cuoco e per due
turni non si vide ombra di contratto: una manna del
cielo. Mi divertii a zuccherare il lesso per settantatré
persone. Insistevo serafico di aver ragione, che a
me piaceva in quella maniera, che era la miglior ri-

132
cetta del mondo… così buona che mi ripugnava
cambiarla… fu un’espulsione militare, non un licen-
ziamento! E mi rese quattro milioni.
C’erano diversi artisti del blitz e per lo più ama-
vano la propria recita; erano dei caratteristi, per usare
un linguaggio cinematografico. Giuseppe Salemi
usava nascondersi nei luoghi più impensati di un
magazzino e sbucare fuori inatteso ad aiutare qual-
che operaio poco diligente (che riconosceva con fiu-
to degno del bracco); prendeva nome e cognome,
lo scriveva sulla sua unta agendina e si procurava
anche il testimone per la causa. La sua faccia di
manovale sempliciotto fugava i sospetti circa la sua
interessata malafede; sfruttava l’esperienza di sta-
gionale imboscato e facile alla malattia.
Rocco ne aveva eseguito, insieme a Cosimo, uno
assai pericoloso, di irresistibile comicità, una vera
beffa ai limiti dell’arresto. Con il nulla osta del collo-
camento si era portato presso la sede centrale di una
grande catena di supermercati e là aveva firmato un
contratto perfetto, elaborato dall’ufficio legale: si trat-
tava di scaricare casse e viveri in un punto di vendi-
ta periferico, senza apparente possibilità di trucchi.
Il nostro giocatore non si era perso d’animo e subito
aveva provveduto a scrivere: «Spett.le ***, ho cam-
biato idea e rinunzio al posto con la speranza di po-
ter trovare di meglio. Vi ritorno la lettera d’assun-
zione con i più distinti saluti e vi prego di recapitar-
mi a casa, con cortese sollecitudine, il mio libretto».
La posta pubblica – è noto – ci mette tre giorni al-
meno, se si tratta di raccomandata ordinaria. Nel
frattempo Cosimo andò (con il nome di Rocco) dal
capo filiale: lo aspettavano, ogni formalità era stata
assolta, non c’era ragione per non utilizzarlo subito.

133
La coscienza dei padroni non è mai completamente
pulita; e se anche lo fosse, non impedisce loro di
evadere le tasse con il lavoro nero. Nello scantinato
sgobbavano infatti tre facchini irregolari grazie alla
mediazione del solito parente di un alto funzionario.
Né si usa chiedere la carta d’identità agli operai di
ultimo livello. Il market era convinto allora di avere
alle dipendenze Rocco e invece si ritrovò il quarto
uomo non registrato nel libro matricola. Natural-
mente quel filibustiere si presentò con il suo vero
nome ai colleghi e trovava anzi modo di farsi no-
tare… Cosimo qui… Cosimo là… un manovale di
qualità! Quando, dopo un po’, giunse la lettera,
nessuno capì più nulla. Il direttore fu costretto ad
andare al deposito merci per chiarire la faccenda e
cercare l’operaio con i dati anagrafici di Rocco, su-
scitando perplessità fra le maestranze che non ave-
vano mai udito quel nome.
Con l’intervento del capo filiale la sua attenzio-
ne si concentrò su Cosimo, che freddamente negò di
conoscere il tale di cui parlavano e di aver ricevuto
solo l’ordine di lavorare senza far domande.
Esterrefatto e incredulo, il direttore intimò un sec-
co: «Se ne vada». «Caro signore, – rispose il comme-
diante, – io resto dove sono e Lei non faccia l’india-
no. Se vuole mi licenzi… mi rilasci qualche cosa di
scritto… oppure chiami la polizia e ci facciamo due
risate sugli estranei che scaricano casse». La minac-
cia ebbe effetto: il nemico fu colto da pallore poiché
capiva di non poter giustificare l’organico irregola-
re. L’ira e l’agitazione sono cattive consigliere e il
tirapiedi del padrone aggiunse danno a danno, rila-
sciando, al nominativo reale di Cosimo, questo scritto
avventato: «Non intendiamo più avvalerci delle sue

134
prestazioni, non avendo noi mai provveduto ad as-
sumerla ecc. ecc.». Una catena di supermercati non
può esser creduta se grida “al lupo” e le due canaglie
ricavarono una bella sommetta.
Con il blitz il rischio era di solito minimo; aveva
inoltre il vantaggio di far perdere poco tempo e a
volte mi divertivo davvero. In uno dei migliori hotels
di Milano mi ero perfino dedicato alla lettura del
“Manifesto”, con i piedi sul tavolino e il culo sulla
poltrona, nella sala di rappresentanza e pochi attimi
prima della visita di un ministro. Avevo accanto un
piccolo cartello, con scritto in rudimentale stampa-
tello: «Si prega di non disturbare. Salvatore Messana
sta riposando e non riceve per trenta minuti». Si pre-
cipitarono in cinque a cacciarmi via e mi allontana-
rono in malo modo aiutati da funzionari dei servizi
di scorta, mentre io li ringraziavo e loro mi conside-
ravano matto senza capire di esser stati fregati.
Il blitz non concede però le stesse soddisfazioni
che si possono ricavare da un’operazione ben ar-
chitettata; non mette in crisi l’intera struttura di
un’impresa come si riesce a fare con l’attacco
dispiegato. E così, spinto dalla nostalgia dei prece-
denti successi o, forse, da semplice spirito d’avven-
tura, non rifiutai l’occasione che il caso mi presentò
davanti il giorno in cui il ristorante «Salve» aprì i
battenti in città su iniziativa di un vero colosso del
settore della ristorazione collettiva. Il lettore dovrà
ancora una volta perdonare il mutamento dei nomi,
ma temo di non avere altra scelta e certo non è pru-
dente una confessione troppo palese.
Io, Verter e Angelo accettammo comunque, al
volo, l’assunzione come sguatteri, per sole quattro
ore quotidiane, ben sapendo (per aver raccolto meti-

135
colose informazioni) come funzionasse lo sfrutta-
mento dei lavoratori in quel posto.
Il Salve aveva speso una fortuna nella campagna
pubblicitaria e nel lancio di un’immagine nuova in
Italia: si trattava di un self-service, con pretese di
buon gusto ai confini del lusso, aperto dalla mattina
fino a notte fonda, arredato secondo criteri america-
ni di colorata moderna pulizia, caratterizzato dall’of-
ferta di servizio rapido e di cibi (a parole) ben curati.
Tanta modernità conviveva insieme ad antiquata ge-
stione del personale: chi si comportava “bene”, ov-
vero sgobbava in silenzio con la testa china, poteva
lavorare otto ore e ottenere lo stipendio pieno; chi si
comportava male, si ammalava o pretendeva il ri-
spetto dei diritti, non superava mai il limite del tem-
po parziale d’impiego e finiva con l’andarsene per
impossibilità di sopravvivenza fisica conseguente al
salario ridotto. Una truffa bella e buona!
Durante il periodo di prova ci comportammo con
tutta l’umiltà dei servi felici della propria condizio-
ne, correndo dove ci comandavano e giungendo, una
domenica, a ben sedici ore consecutive: altro che part-
time… era peggio di una trireme romana. Sopporta-
vamo in silenzio e in silenzio tramavamo per la ri-
vincita: un vero teatro stavamo approntando grazie
all’insperato soccorso di uno strano personaggio che
aveva fatto del casino la sua filosofia di vita e che ci
diede utili consigli oltre al testo di un volantino.
L’ora X era il sabato sera. Il momento, cioè, della
massima affluenza, quando il caos è tale che nessu-
no può capire nulla, in caso di intoppo dell’ingra-
naggio. Avevamo invitato a una cena gratuita, per
le 20 e 30, tutti i briganti di Lope de Vega, con amici
e parenti calati, per la recita, dalla Barona, dal

136
Gratosoglio e dalle case nuove di Rozzano. Si erano
aggregati anche una decina di vecchi estremisti no-
stalgici, mediante reclutamento nel giro delle occu-
pazioni di case e, fra questi, un giornalista francese
con la macchina da ripresa per le cassette televisive.
Complessivamente una quarantina di persone, con-
fuse fra i normali clienti, pronte ad aggregarsi. Io mi
ero portato il megafono dentro la borsa: era una spe-
cie di tromba della carica che i miei commilitoni at-
tendevano per aprire le ostilità; era il segnale della
battaglia.
Solo apparentemente in numero ridotto, rappre-
sentavamo in realtà una quota percentualmente ri-
levante degli addetti alla sala pasti; dovevamo certo
contare sull’effetto moltiplicatore sempre possibile
in ogni anche minuscolo sommovimento, ma il dis-
servizio era assicurato. Non appena la sveglia inse-
rita nell’orologio da polso emise il suo stupido suono
elettronico, agguantai l’amplificatore nello spoglia-
toio e, subito ricomparso, gridai il testo dell’irrive-
rente volantino, che di seguito ricopio:
SALVE, quelli che ti parlano sono dipendenti di
questa mensa; ciò di cui ti stiamo per parlare sono i
tuoi interessi e i nostri.
Ti sei mai chiesto che cosa ci costringono a darti
da mangiare? Guarda bene nel tuo piatto e se non ti
basta chiedi di visitare la cucina. L’azienda infanghi
pure il proprio nome, ma non il nostro: bastano po-
chi giorni per vedere cose che il tacere è bello quan-
to è orrendo l’annusare.
Ci hanno assunto per quattro ore e ne facciamo
dodici e a volte sedici con la solita promessa che
avremo un orario normale solo se faremo i “bravi”.
L’azienda ricerca la nostra complicità contro di voi.
Noi non siamo bravi: SCIOPERO!

137
Verter e Angelo, senza dir nulla, appesero al muro,
con chiodi e martello, un gigantesco striscione
giallorosso; recava la scritta «SCIOPERO!». Intanto
cinquecento copie del volantino finivano nelle mani
degli incuriositi avventori e dei camerieri troppo
spaventati da una lotta così inusitata per avere il
coraggio dell’adesione.
Fu il finimondo. I finti clienti non esitarono a darci
ragione e a proclamare, vociando, ampia solidarietà;
ognuno creava anzi piccoli capannelli e contribuiva
ad aumentare la confusione, tanto che in molti pre-
tesero di vedere effettivamente cucine e frigoriferi
nonostante ricevessero recisi rifiuti da parte del po-
vero direttore di sala. L’indiscriminata e clandestina
surgelazione dei cibi suscitava malcontento anche
nelle persone più pacifiche e in breve non si capì più
nulla: incuranti degli inutili saltelli dei cassieri, i più
turbolenti avevano cominciato a bere vino, birra, li-
quori in gran quantità e gratis. Il giornalista francese
si aggirava tra i tavoli cineriprendendo la sceneg-
giata nei minimi particolari, raccogliendo interviste
e commenti; perfino un turista austriaco sentì il biso-
gno di intervenire, con voce impastata dall’alcool,
in difesa della nostra iniziativa. Fu proprio quest’ul-
timo a scatenare una lite con il capo sala che rifiu-
tava la restituzione della somma pagata. «Io pagato
carne fresca… voi dato surgelazione… essere truf-
fa… io volere mio ambasciatore», strillava il man-
giacrauti dentro il microfono; poi cacciò in malo
modo il funzionario del Salve con un inequivocabile:
«Tu avvelenatore, tu in galera!».
Noi si rideva a crepapelle quando arrivò la poli-
zia e fu accolta dall’austriaco ubriaco che ordinava
l’arresto dei padroni del ristorante. Il maresciallo, non

138
riuscendo a venire a capo della vicenda, utilizzò il
sempre efficace ordine di «sgomberare senza discu-
tere», non dimenticando neppure di aggiungere «al-
trimenti vi schiaffo dentro». Con molta pazienza i
militi svuotarono l’intera sala (e causarono la perdi-
ta dell’incasso) dei cittadini onesti e dei briganti: alla
chetichella guadagnò l’uscita anche la macchina da
presa con i sessanta minuti di nastro!
L’improvvisa ribellione suscitò grande interesse
degli organi di stampa e l’indomani i giornali ripor-
tavano titoli di tre o quattro colonne, narrando del
curioso comitato dei cattivi operai e delle vivande
contestate. Il Salve non poteva né tacere, né affron-
tare il merito della polemica, poiché il profitto si
basava proprio sulla fornitura di merda su piatti ele-
ganti. Colpito in contropiede ci sospese subito dal
servizio, si assicurò l’appoggio dei sindacalisti sem-
pre pronti a sputtanare “l’anarchia”, fece un generi-
co comunicato a garanzia della buona cucina: non
poteva più sopportare la nostra presenza, ma nep-
pure darci del danaro senza perdere la faccia. Noi,
già la mattina successiva, sostammo davanti all’in-
gresso, senza entrare, con un banchetto e il megafo-
no, rompendo le balle con un po’ di propaganda ne-
gativa. Avevamo anche un avviso con il pennarello:
«Attenzione! I cibi sono radioattivi». Riapparve la
volante e ci fece sloggiare con mala grazia; mentre
stavamo andando via ci raggiunse, trafelato, il diret-
tore con le lettere di licenziamento appena sfornate,
calde calde, piene di fandonie che dovevano giusti-
ficare la nostra espulsione ma evitare anche una spia-
cevole indagine sulle nostre affermazioni. Ci trova-
vamo finalmente in guerra giudiziaria, con prospet-
tive di vittoria anche perché il troppo frettoloso

139
nemico aveva commesso un errore: non aveva ri-
spettato la legge che impone di lasciarci cinque gior-
ni per le difese e ora rischiava di vedere annullato
tutto.
Come finirà non lo so, ed è probabile che ci diano
torto non potendo lo Stato tollerare il premio finale
a dei piantagrane come noi: quel povero Pretore che
aveva accolto le nostre argomentazioni dopo l’ap-
pello del Salve, finirà ad amministrare la giustizia in
qualche luogo senza importanza, o si troverà almeno
in dissidio con i suoi superiori. Comunque vada, sarà
però uno scorno per quei fetenti che hanno subìto
danni incalcolabili e che si sono bruciati l’immagine
per la quale avevano speso una fortuna. Il potere
economico è obbligato a uno scontro con personaggi
disposti solo a prendere in giro, è costretto a violare
con prepotenza la legge per punirci, a rinnegare
l’equilibrio della bilancia: davanti al Pretore l’imba-
razzo si tagliava con il coltello e quando il Salve
capì di aver perso il primo atto, non ci furono sorrisi
di circostanza ma rabbiose minacce.
I padroni si mettono in tasca la giustizia, se lo
desiderano. Lo so benissimo e ci rido sopra. Con-
sentitemi dunque di essere felice nel prevedere la
conferma del nostro licenziamento a opera dei giu-
dici d’appello, quando questo libro sarà già termi-
nato; felice di aver concretamente dimostrato la re-
latività e la vanità del diritto. Senza aver subìto al-
tro danno che quello di un mancato guadagno e con
la certezza di potermi rifare.

140
CONCLUSIONE

Termina la storia senza un vero finale e ognu-


no ne ricerchi la ragione come meglio gli aggrada.
Io posso solo dirvi questo: quando mi si offre di ti-
rare ai potenti la prima pietra, non ho alcun ritegno
ad accettare l’invito. Mirando, magari, alla testa.
Ma è tempo di smettere, per evitare ulteriori in-
dagini sulla vera identità del vostro allegro amico.
SALVATORE MESSANA

141
142
INDICE

INTRODUZIONE 5

PREMESSA BREVE 7

PARTE PRIMA 9
- CAPITOLO I 11
- CAPITOLO II 17
- CAPITOLO III 26
- CAPITOLO IV 32
- CAPITOLO V 42
- CAPITOLO VI 49
PARTE SECONDA 55
- ABITARE A MILANO 57
- A CACCIA DI SOLDI 78
- RITORNO IN FABBRICA 97
- OPERAZIONE SUPERPULIZIA 106
- OPERAZIONE SPLENDOR S.P.A. 120
- BLITZEN E OPERAZIONE SALVE 131
- CONCLUSIONE 141

143
Centro di documentazione «PORFIDO»
via Tarino 12/c, 10124 Torino
libriporfidi@gmail.com

«EL PASO OCCUPATO»


via Passo Buole 47, 10127 Torino
elpaso@ecn.org - www.elpaso.ecn.org

Finito di stampare nel mese di aprile 2010


Tipografia «Nonchalance» - 3, rue Saint Pétrin, Paris

144

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