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Note sul saggio di Edwin L.

Wade, “Il mercato dell’arte etnica nell’America sodoccidentale


1880-1980”, in J. W. Stocking, Gli oggetti e gli altri, pp. 235-260.

In questo saggio i temi chiave su cui tutti gli studenti devono essere in grado di elaborare
sono i seguenti:
• mercificazione dell’arte
• triangolo collezionisti - commercianti - studiosi + ruolo dei “nativi”
• turismo e culture indigene
• revival e ruolo degli studiosi e dei commercianti
• revival e sopravvivenza economica
• fantasia creatrice e tradizione

Modello teorico generale del rapporto arte/commercio/scienza

commercianti Collezionisti-filantropi

MUSEI studiosi Preservare tradizione


produzione di massa
(antropologi)

autenticità artisticità

maggiore produzione minore

In questo modello mancano ovviamente gli artisti nativi, che faranno la loro comparsa
come soggetti attivi del dibattito a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

1. LA FASE 1870-1915 Interdipendenza tra studiosi e commercianti


1880 l’arrivo della FERROVIA ad Albuquerque in Nuovo Messico e nuova spinta al TURISMO e
quindi all’acquisto di SOUVENIR. I commercianti iniziano a interferire nella produzione per
indurre gli indiani ad adeguarsi al gusto dei bianchi. I pezzi della produzione locale
vengono adattati alle necessità dei turisti, per esempio riducendone le dimensioni fino a
perdere del tutto la loro valenza funzionale.
1.1. Un commerciante che si mette a fare l’apprendista stregone
Vediamo per iniziare ruolo di THOMAS KEAM, e del suo assistente ALEXANDER STEPHEN
commerciante e insieme informatore privilegiato degli studiosi per gli indiani hopi. Al

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punto che si creò una concorrenza tra studiosi museali e turisti per accaparrarsi i pezzi di
Keam.
Nel 1890 Stephen viene incaricato di compilare un catalogo per la seconda spedizione
Hemenway, una spedizione archeologica che aveva il compito di ricostruire l’intera
sequenza evolutiva della produzione materiale hopi nelle diverse epoche storiche. Si
trattava insomma di compilare un catalogo che permettesse agli scavatori di collocare
rapidamente il materiale raccolto nella “cassetta” giusta dell’epoca. Durante la
compilazione del catalogo ci si rese conto che i pezzi del XV e XVI secolo disponibili erano
particolarmente rovinati e non utilizzabili per le riproduzioni del catalogo. Keam allora
pensò di far riprodurre alcuni di questi vasi dagli artigiani indiani che conosceva per la
sua attività di commerciante. A questo progetto iniziale, si aggiunse rapidamente l’idea di
far riprodurre da quegli stessi artisti viventi tutto il catalogo, per verificare quanto le
tecniche e le conoscenze degli indiani fossero “degenerate”. Cominciarono quindi a
circolare copie della produzione “classica” hopi, che comprendeva diversi modelli e
stilemi che non erano più riprodotti da secoli.
1.2. Uno studioso che dà la stura alla più clamorosa commercializzazione dell’arte hopi.
Nel 1892 partì la seconda spedizione Hemenway diretta da JESSE WALTER FEWKES, che
assunse un certo Lesou nella sua squadra di scavo. Lesou era marito di Nampeyo, una
vasaia che seguendo il marito negli scavi si portò un blocco di appunti dove riprodusse
con estrema cura le forme dei vasi che emergevano dagli scavi.
Il ruolo di Nampeyo fu senza dubbio centrale in quello che viene chiamato il “revival
Siskyatsi”. Il paradosso di questo revival fu che rimpiazzò di fatto la produzione
dell’epoca leggi pagina 242.
1.3. Piatto ricco, mi ci ficco
Il successo commerciale di operazioni come quella di Nampeyo diedero il via a una vera
caccia al reperto. Siamo all’epoca della “corsa all’oro” nell’America settentrionale, e si
articola il mito del self made man, alla zio Paperone.
I FRATELLI WETHERILL e la scoperta della civiltà Anasazi, nel 1888, che gli hopi e i navajo
reclamano come loro antenati. Sebbene il loro status sociale non fosse eccellente, erano dei
mandriani, dei veri cow boy prima di diventare professionisti della ricerca di reperti, gli
studiosi li apprezzavano molto per le loro conoscenze. Diventano alleati degli studiosi per

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la loro capacità di muoversi sul territorio. La loro prima scoperta, nel 1892, portò un
notevole guadagno.
In tutta questa fase, insomma, predomina il rapporto privilegiato tra studiosi (legati ai
musei) e i commercianti, che hanno invece i contatti sul territorio che garantiscono
l’individuazione dei reperti. Lentamente, a partire con più chiarezza dagli anni Venti,
questa alleanza comincia a venire meno.

2. LA FASE 1920-1970 fiere,sponsor e revival: la frattura tra studiosi e commercianti


Il luogo in cui diventa forse più evidente la frattura che si pone tra diverse concezioni
degli indiani e della loro arte è la fiera. Uno spazio pubblico e pubblicizzato in cui sono
esibite e messe in vendita le opere dei diversi gruppi. La forma delle fiere diventa un
aspetto centrale del dibattito politico e culturale sugli indiani. Vediamo come sono
organizzate.
2.1. Le fiere
Quelle dei commercianti erano occasioni per rinnovare gli accordi tra loro e gli indiani:
PER gli indiani, visto che i bianchi tra il pubblico erano in numero irrilevante. I
commercianti organizzavano piccole competizioni (per il tappeto migliore, ad esempio) in
modo da spingere la produzione in determinate direzione, oltre che per stimolare i
produttore a migliorare la qualità dei loro prodotti.
I filantropi hanno intenzioni del tutto diverse, e le loro fiere sono organizzate allo scopo di
salvare i gruppi indiani da un destino che sembra fatto di perdizione o assimilazione. Le
fiere organizzate dai filantropi dovrebbero servire da un lato a risvegliare la coscienza
degli indiani rispetto alla loro dignità umana, e dall’altro nell’esporre proprio ai bianchi la
dignità morale dei nativi americani, così da conquistare nuovi sostenitori per la causa dei
diritti degli indiani. Una nobile causa, come si vede, che non impedì comunque uno
sguardo bianco altrettanto paternalista di quello dei commercianti che organizzavano gare
tra artigiani indigeni.
Le fiere dei filantropi divennero quindi poco alla volta luogo d’incontro dei bianchi SUGLI
indiani, visto che la presenza di questi ultimi era spesso del tutto sporadica o nulla come
acquirenti. Gli indiani venivano esposti in preziose coreografie: erano gli oggetti della
visione, non i soggetti del vedere [LEGGI p. 247 e commenta “sulla base di altri interessi”
facendo riferimento a Barnum].

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È importante notare la differenza delle motivazioni nel promuovere l’arte indiana nelle
fiere:
per i filantropi si trattava di PRESERVARE la cultura indiana
per i commercianti si trattava invece di COSTRUIRE UNA BASE SI SOSTENTAMENTO ECONOMICO per gli
indiani (che significava guadagno certo per i commercianti).
Queste finalità divergenti non potevano che portare a uno scontro tra “umanitari” e
“commercianti”, con gli studiosi che poco alla volta si schierano dalla parte degli
umanitari, in difesa di una cultura che si sta disgregando anche dal punto di vista
materiale [LEGGI Fredric Douglas del Denver Art Museum p. 248].

Un caso di Filantropi particolarmente agguerriti per quanto riguarda la conservazione è


costituito dal Museum of Northern Arizona, di HAROLD e MARY COLTON, che organizzarono
dal 1929 una fiera hopi particolarmente rigida nei criteri di selezione.
Leggi i criteri a pagina 249 evidenza il legame tra MUSEO e filantropia. La questione delle
coperte e dei colori (all’anilina pastellati o vegetali brillanti) e del cesto profondo. Spiegare
come quelli “tradizionali” non si vendessero.

Tra commercianti e filantropi la tensione non poteva che salire, dato che i primi erano
orientati a “preservare” o “restaurare” tecniche considerate “tradizionali”. Nel caso in cui
poi queste tecniche non fossero particolarmente caratterizzanti in termini stilistici, gli
stessi filantropi non temevano, paradossalmente, di proporre innovazioni.
I filantropi infatti ONDEGGIARONO tra conservazione e innovazione per cui, una volta fallito il
progetto dei tappeti tradizionali, all’inizio degli anni Trenta spinsero perché gli hopi
acquisissero un “loro stile” nell’oreficeria, anche se gli hopi avevano appreso quest’arte
solo nel XIX secolo dagli zuñi (che l’avevano appreso dai Navajo). Leggi p. 251 il passo con
a fianco NB. Descrivere la pianificazione di una nuova tecnica di copertura d’argento,
disegnata da Virgil Hubert del Museum of Northern Arizona realizzata da un argentiere
hopi. Grande successo tra i visitatori del museo ma gli hopi non accettarono queste
tecniche fino alla fine degli anni Quaranta.
Riflettere con gli studenti sul tipo di concezione di cultura implicato da questo
atteggiamento apparentemente contraddittorio. Che cultura è quella che dev’essere

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mummificata o distinta per forza? È un marchio di differenza, diacronico o sincronico.
Una specie di distinzione forzata.
Altro caso controverso fu il “revival” Anasazi-Mimbre (preistorici) nelle ceramiche Acoma
(contemporanei), anche se non è assolutamente certo, anzi è molto dubbio, che i primi
siano gli antenati dei secondi
Questi spostamenti tra rigido conservatorismo e tentativi di mediare con forme revivaliste
sono indicativi di un progressivo spostamento dell’attenzione dei filantropi verso la
questione della sopravvivenza economica degli indiani, avvicinandoli così ai temi cari ai
commercianti.

3. LA FASE 1970-OGGI. Ripensamenti e intrecci


A partire dai primi anni Settanta, la nascente coscienza politica degli indiani spinse a un
profondo ripensamento delle condizioni di partenza. In un certo senso, gli indiani fino a
quel punto erano stati “gli oggetti” delle diverse aspirazioni di commercianti, collezionisti,
filantropi e antropologi. A questo punto entrano come “soggetti” politici, e molto spesso
non sono teneri con nessuno.
Critiche al revival
Il revival, per essere tale, dovrebbe contenere tre elementi: conoscenza delle TECNICHE di
produzione, studio degli STILI da riprodurre, consapevolezza della FUNZIONE degli elementi
riprodotti. Valutato in quest’ottica, il revival dell’arte indiana è stato piuttosto carente.
Il revival non è stato tale (non ha “rivitalizzato” le forme tradizionali di produzione)
Quando ha puntato sulla correttezza filologica non ha avuto successo commerciale
Gli elementi da rivalutare sono stati selezionati praticamente in modo casuale, secondo
criteri del tutto idiosincratici, e cioè: la DISTANZA dei gruppi dai centri urbani (più erano
vicini all’abitazione del filantropo, più avevano possibilità di essere “salvati”); il GUSTO

personale del patrono, le sue personali passioni artistiche/estetiche; la MALLEABILITÀ dei


gruppi indigeni ad accettare il “Piano di salvataggio” approntato per loro dal patrono.

L’arte indiana oggi


Si deve distinguere tra un mercato legato all’“arte primitiva” e un mercato legato all’arte
contemporanea. Nel primo caso non vi sono problemi: l’arte indiana ha un suo posto
riconosciuto e proficuo. Per quanto riguarda invece il caso del rapporto tra arte indiana e

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arte contemporanea, il processo è stato più accidentato, soprattutto per il difficile rapporto
tra FANTASIA e ETNICITÀ, tra libera creazione e dialogo con la tradizione.
Esistono oggi numerosi artisti indiani, riconosciuti individualmente come artisti. Eppure
la loro arte gravita in un mondo segregato, fatto di esibizioni specifiche e premi ad hoc.
Leggi p. 257 “nella mente del patrono…”

Il caso degli INDIVIDUALISTI.


Di che nazionalità era Picasso? Non prestiamo molta importanza a questa domanda,
mentre pare che l’etnicità di un indiano sembra un aspetto fondamentale.

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