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GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

COSÌ I PROFUGHI
POTRANNO TORNARE
NELLE LORO TERRE di Salmān H. ABŪ-SITTA

Un piano per reinstallare quasi cinque milioni di rifugiati


palestinesi in quelle che essi considerano loro proprietà,
anche in territorio israeliano. Attenzione: le figure citate
sono quelle della carta a colori allegata al volume.

I L PIANO CHE QUI PROPONIAMO PER IL RI-


torno dei profughi palestinesi alle loro case, non è un’utopia, bensì un tentativo di
riportare la pace in una regione dilaniata dai conflitti e distrutta da una guerra sca-
tenata da stranieri dotati di armi, denaro e influenza politica. Le prime vittime di
questa tremenda situazione sono state le popolazioni palestinesi, fin dal loro an-
nientamento e sradicamento iniziato con la Catastrofe (al-Nakba) del 1948. Un
evento senza precedenti nella storia. Un caso indubbiamente unico in cui un pae-
se è stato occupato da una minoranza straniera che ha scacciato la quasi totalità
della popolazione autoctona privandola dei suoi punti di riferimento geografici e
culturali e salutando questa distruzione come un miracoloso atto divino e una vit-
toria della libertà e della civiltà. Tutto questo, secondo un disegno premeditato,
meticolosamente eseguito, sostenuto finanziariamente e politicamente dall’estero,
e ancor oggi perseguito, a 53 anni di distanza, con lo stesso vigore.
Tuttavia, nonostante più di mezzo secolo di sofferenze, i palestinesi non rece-
dono dalla loro determinazione di far ritorno in patria, richiamandosi al più ele-
mentare dei princìpi di giustizia. Chi glielo impedisce? Israele e gli Stati Uniti che lo
sostengono. La stragrande maggioranza dei governi e dei popoli del mondo è fa-
vorevole alla causa palestinese.
Contro questo diritto, gli israeliani oppongono ogni sorta di argomenti e di
pretese. Sostengono che gli arabi sono gli aggressori e si meritano quel che hanno,
che il piccolo Davide lotta per la sopravvivenza, che non vi è spazio per accogliere
i profughi che volessero rientrare, che i villaggi sono distrutti e i confini svaniti,
che il ritorno dei palestinesi in esilio inquinerebbe il «carattere ebraico» del loro
paese e via dicendo.
Questo è stato, per anni, il cavallo di battaglia della propaganda sionista. Ma a
questo riguardo si possono fare due osservazioni. In primo luogo, tutti questi argo- 75
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menti sono falsi e infondati. Secondariamente, anche se fossero veri, non indeboli-
rebbero il diritto dei profughi al ritorno, che resta inalienabile, nonostante la guer-
ra, la rovina delle loro case, l’insediamento di immigrati stranieri, l’esistenza di un
regime esclusivo di apartheid in Israele.
Dopo aver permesso che la guerra, la coercizione e i complotti politici seguis-
sero inutilmente il loro corso, non è forse tempo di ritornare ai princìpi fondamen-
tali del diritto e della giustizia dando loro una possibilità di prevalere? Il piano che
illustreremo tende proprio a questo. Dimostra, in primo luogo, che gli argomenti
israeliani contro il ritorno dei profughi sono privi di base o inaccettabili, e, secon-
dariamente, che questo è invece possibile e realizzabile. Ed è, soprattutto, l’unico
modo di assicurare una pace duratura.

Il piano di pulizia etnica


Sbarazzarsi degli abitanti originari della Palestina è sempre stato uno degli
obiettivi principali del sionismo, chiaramente formulato da Yosef Weitz, responsa-
bile del Comitato per l’evacuazione e coordinatore delle operazioni di confisca
delle terre. Fin dal 1940, egli prospettò un piano di pulizia etnica: «L’unica soluzio-
ne è quella di trasferire gli arabi nei paesi vicini. Non un solo villaggio né una sola
tribù devono restare».
Il Piano Dalet era finalizzato all’«occupazione (...) e all’espulsione». Secondo la
dottrina di Ben Gurion, la distruzione del popolo palestinese e del suo paesaggio
geografico e culturale era la precondizione per creare lo Stato di Israele sulle sue
rovine. La liquidazione sistematica della popolazione autoctona venne perseguita
nel ’48 in varie forme.
Dal gennaio di quell’anno, quattro mesi prima dell’inizio ufficiale della guerra,
i sionisti prepararono piani per l’insediamento di un milione e mezzo di nuovi im-
migrati in aggiunta agli oltre 600 mila ebrei già presenti, due terzi dei quali erano a
loro volta immigrati di recente sotto il mandato britannico. Nel corso delle opera-
zioni militari successive alla risoluzione dell’Onu del 1947, che prevedeva la sparti-
zione della Palestina, e già prima della scadenza del mandato britannico, vennero
espulsi più di 500 mila profughi palestinesi. Le agenzie di colonizzazione che face-
vano capo al National Jewish Fund diressero gli attacchi militari in funzione della
conquista di territori molto appetiti, quali i villaggi di Indūr, Qumiya, Ma’lūl,
Mujaydı̄l e Butaymāt in Galilea, che vennero distrutti soprattutto a scopi di confisca.
Quasi tutte le più di trenta operazioni militari sioniste furono accompagnate
da massacri di civili. Ufficialmente ne vennero registrati almeno 35, metà dei quali
compiuti prima che un solo soldato arabo regolare avesse messo piede in Palesti-
na. Il più famoso fu quello di Dayr Yāsı̄n, il più grande quello di Dawāyāmā e il
più recente, svelato da un ricercatore israeliano, Teddy Katz, ma risaputo da tutti i
palestinesi, quello di Tantūra.
L’uccisione di civili non si limitò solo al periodo di guerra. Cessate le ostilità,
76 alcuni profughi cercarono di tornare alle loro case per soccorrere chi restava, recu-
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perare alcuni beni o lavorare la terra e allevare il bestiame. Vennero ammazzati sul
posto come «infiltrati». Centinaia di casi del genere vennero riportati dagli osserva-
tori dell’Onu inviati a sorvegliare la tregua.
Subito dopo gli assalti militari vennero compiuti saccheggi, soprattutto in città
quali Haifa, Jaffa, Lidda (Lōd) e Gerusalemme, ad opera degli abitanti dei kibbutz
vicini, di comandanti di brigata dell’esercito israeliano e di alti esponenti del Partito
laburista (Mapai) al potere. Seguì una massiccia campagna di devastazioni, che
durò per più di quindici anni, durante la quale il 53% dei 418 villaggi presi di mira
venne interamente distrutto e il 44,5% solo in parte, col chiaro obiettivo di impedi-
re il ritorno dei profughi.
Poco dopo la proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948, e in se-
guito alla protesta del mediatore dell’Onu, il conte Folke Bernadotte – che assistet-
te, nel giugno dello stesso anno, all’espulsione di circa 500 mila profughi – il go-
verno provvisorio di Israele stabilì che non poteva acconsentire al ritorno di alcun
profugo fino a quando non fosse stato firmato un trattato di pace, col pretesto che
gli espulsi sarebbero stati una «minaccia per la sicurezza». Ma anche dopo la fine
dei combattimenti, Israele rifiutò di accogliere i profughi, e ha continuato a mante-
nere questa posizione in campo internazionale fino ad oggi, nonostante la sua am-
missione all’Onu nel maggio del 1949 costituisse un caso unico giacché è il solo
membro di questa organizzazione il cui ingresso sia stato approvato a «condizione»
di accettare questo ritorno (risoluzione 194) e di ritirarsi entro le linee tracciate dal
Piano di spartizione della Palestina (risoluzione 181).
Prima, durante e dopo la guerra del 1948, i sionisti israeliani ricorsero a molti
stratagemmi pseudolegali per organizzare e giustificare la confisca di 18.700 km2
di terra palestinese (il 92% di Israele), oltre alle aree acquisite in 530 città e villaggi
spopolati. Queste terre vennero affidate in custodia a un’amministrazione giudizia-
ria in assenza dei proprietari (cioè i profughi) e trasferite poi alla Development
Authority. Ed oggi, insieme alle proprietà del Jewish National Fund, sono gestite
dalla Israel Land Administration (Ila). Secondo il governo ebraico, il proprietario
«assente» è un profugo palestinese al quale non è consentito il ritorno in Israele. Il
termine vale anche per i palestinesi con cittadinanza israeliana, che non sono «as-
senti», e sono pertanto definiti «presenti assenti»; con la conseguenza che anche
molte delle loro terre sono state confiscate.
Subito dopo l’invasione dei villaggi palestinesi, Israele attuò il suo programma
di inviare agenti del Mossad per riportare in patria ebrei residenti in paesi arabi,
persuadendoli con un misto di allettanti promesse e di incentivi, e, in caso di resi-
stenza, con varie forme di coercizione, compreso il lancio di bombe a mano con-
tro le loro case. Fra il 1949 e il 1952 rientrarono così 700 mila ebrei, molti dei quali
malcontenti per il trattamento discriminatorio ricevuto dalla comunità askenazita
predominante, verso la quale nutrono ancor oggi un forte risentimento.
Tutte queste operazioni avevano lo scopo di impedire il ritorno dei profughi
palestinesi alle loro case. Ma più Israele riusciva in questo intento, più i profughi
sviluppavano la determinazione di rimpatriare. Spesso potevano vedere le loro ca- 77
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

se attraverso il filo spinato della linea di armistizio; ed ancor oggi molti risiedono a
un paio d’ore d’autobus di distanza dalle loro vecchie abitazioni. Dopo la loro
espulsione in seguito alla Catastrofe del 1948, il problema per Israele divenne così
quello di come sbarazzarsi dei profughi, ovunque vivessero in esilio.

Anatomia di una catastrofe


Lo spodestamento dei palestinesi e la massiccia pulizia etnica della popolazio-
ne è un fatto senza precedenti nella storia moderna, che ha assunto in arabo il no-
me di al-Nakba, equivalente ad olocausto. Una catastrofe tanto più grave quanto
più si pensa che non fu il prodotto di un singolo atto di guerra (come nel caso delle
atrocità commesse dai nazisti), bensì di un piano premeditato, attentamente esegui-
to, e di un processo continuo ancor oggi in atto, 53 anni dopo il primo massacro del
1948. Quando si leggono oggi i giornali o si guarda la televisione riemerge il cupo
ricordo dei terribili fatti di allora, sia pur con le differenze di scala, di stile e di luogo.
Per questo è importante comprendere come avvenne la catastrofe. E in questo
ci possono aiutare alcune carte.
Dal Piano di spartizione (risoluzione 181 dell’Onu) del 29 novembre 1947 all’i-
nizio dell’invasione sionista (Piano Dalet) intorno alla fine di marzo del 1948 (figu-
ra 1). Le terre in possesso degli ebrei non superavano il 6% della superficie della
Palestina. Le forze sioniste cominciarono a occupare i villaggi arabi vicini per assi-
curare la continuità geografica e l’espansione del loro territorio. In 30 villaggi fu
espulsa l’intera popolazione, sottraendo la terra agli arabi, non per reazione, ma su
esclusiva iniziativa degli israeliani.
Dall’invasione sionista prevista dal Piano Dalet, nei primi di aprile, alla fine del
mandato britannico e alla proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio 1948
(figura 2). Sotto l’occhio vigile del governo mandatario britannico, l’esercito israe-
liano avviò una campagna organizzata per la conquista della Palestina, comincian-
do a mettere in collegamento colonie ebraiche sparse lungo la costa e la pianura di
Marj bin ’Āmer fino al Giordano a nord di Tiberiade, così da creare una linea di
continuità territoriale a forma di N. In questo periodo, furono occupati duecento
villaggi e centri urbani ed espulse le loro popolazioni. Fra questi centri vi erano
importanti città palestinesi come Jaffa, Haifa, Tiberiade, Safad, parte di Gerusalem-
me Ovest. San Giovanni d’Acri venne occupata poco dopo.
Oltre la metà dei profughi fu espulsa ancor prima che un solo soldato arabo
regolare venisse in loro soccorso. Gli inglesi, il cui mandato era di proteggere i ci-
vili, fallirono in questo obiettivo. E l’alto commissario britannico, il cui ufficio si
trovava ad appena 5 chilometri di distanza da Dayr Yāsı̄n, non volle interferire nel
massacro che si stava perpetrando in quel luogo.
Il 14 maggio 1948 venne proclamato lo Stato di Israele, senza specificarne i
confini, sopra il territorio palestinese conquistato, che non andava oltre l’11%. L’e-
spansione successiva (con l’annessione del 100% del territorio) è considerata ille-
78 gittima dai paesi che all’epoca riconobbero de facto Israele.
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La guerra in Palestina: dal 15 maggio alla prima tregua dell’11 giugno 1948 (fi-
gura 3). Contrariamente ai miti creati dagli israeliani, l’esercito sionista superava in
larga misura le forze regolari arabe in questo periodo, parte delle quali entrarono
in Palestina senza un adeguato coordinamento né un comando unificato, il che ac-
centuò ancor più la superiorità bellica degli israeliani. Le forze arabe non riusciro-
no a riconquistare i villaggi occupati e persero il controllo di altri 90. Quando fu di-
chiarata la prima tregua, il numero dei profughi era già salito a 500 mila.
La guerra in Palestina: dal 12 giugno al 18 luglio 1948 (figura 4). Le forze
israeliane si sentirono rimbaldanzite quando vennero spalleggiate da altri veterani
della seconda guerra mondiale e allorché ricevettero materiale bellico, durante la
prima tregua, fino a sopravanzare quelle arabe per numero ed armamenti. La tre-
gua venne rotta l’8 luglio con l’occupazione di due grandi centri: Lidda e Ramla, la
cui popolazione (70 mila abitanti) fu espulsa su espresso ordine di Yitzhak Rabin.
Vennero occupati anche un corridoio per Gerusalemme, parti della Galilea, com-
presa la città storica di Nazareth, e una sacca a sud di Haifa che fino a quel mo-
mento era rimasta una città palestinese.
A quel punto, gli israeliani avevano ormai acquisito salde posizioni. Il passo
successivo doveva essere quello di consolidarle ed espandersi per conquistare più
territorio possibile.
Il numero dei profughi salì a 630 mila (l’80% cento del totale). Erano stati
espulsi da 378 città e villaggi. In quel momento Israele occupava il triplo di territo-
rio arabo rispetto a quanto ne disponeva durante il mandato britannico. Era la par-
te più fertile e più popolata della Palestina. Ciò dissipa il mito israeliano secondo il
quale il piccolo Davide stava lottando per la sua sopravvivenza contro il massacro
perpetrato dal gigante Golia arabo. La falsità di questa pretesa era del resto già no-
ta ai diplomatici inglesi e americani fin dai primi di gennaio del 1948.
La guerra in Palestina: dal 19 luglio al 24 ottobre 1948 (figura 5). Dopo una
lunga tregua, Ben Gurion programmò l’occupazione della Galilea, in prevalenza
araba (non assegnata agli ebrei nel Piano di spartizione), e della parte meridionale
della Palestina, interamente araba. Il 15 ottobre, gli israeliani attaccarono gli egizia-
ni a sud, intorno a ‘Irāq Swaydān e occuparono 7.700 km2 in un sol colpo senza al-
cuna interferenza di altre forze arabe. Abdel Nasser, celebrato in seguito come il
capo della nazione egiziana, rimase intrappolato a Fālūja.
La guerra in Palestina: dal 24 ottobre al 5 novembre 1948 (figura 6). A questo
punto, Ben Gurion volse la sua attenzione verso il Nord della Galilea. Le forze israe-
liane occuparono quel che restava di tale regione avanzando verso il Libano, dove
invasero 13 villaggi. In Galilea, commisero 25 stragi, su 35 ufficialmente registrate,
per scacciare le popolazioni dai loro centri abitati. Molti si rifiutarono di abbando-
narli ed oggi essi costituiscono il nucleo storico dei palestinesi di cittadinanza israe-
liana. Il numero di profughi, espulsi da 443 città e villaggi, salì così a 700 mila.
La guerra in Palestina: dal 5 novembre 1948 al 18 gennaio 1949 (figura 7).
Israele puntò di nuovo a sud, verso il Negev indifeso, occupando le zone a est di
Beer Sheva fino al Mar Morto: un’estensione di 10.000 km2, ovvero la metà della 79
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sua superficie attuale, 7 volte quella precedente il 1948. Ma il suo appetito non era
ancora soddisfatto. Lanciò un attacco a ovest verso Gaza, che divenne il rifugio di
250 mila profughi. Le forze ebraiche vennero però respinte. Se avessero prevalso,
vi sarebbe stato un altro orribile massacro e la Striscia di Gaza non sarebbe più esi-
stita. L’Egitto firmò l’armistizio il 24 febbraio 1949.
La guerra in Palestina: dal 19 gennaio al 29 luglio 1949 (figura 8). Subito dopo
la firma dell’armistizio con l’Egitto, Rabin procedette verso sud e occupò la parte
restante del Negev fino al Golfo di al-’Aqaba, piantando la bandiera israeliana a
Umm Rashrash (oggi Eilat). La superficie del territorio conquistato si estese così a
19.600 km2, 13 volte quella del territorio ebraico. Sotto la minaccia di un attacco
israeliano alla Cisgiordania e alla Transgiordania e con la Legione araba (giordana)
al comando di ufficiali inglesi e senza munizioni, re ’Abdullah cedette a Israele 436
km2 di terra molto fertile e popolosa nella zona di ’Arā Wādı̄ nella Palestina centra-
le. Questa è oggi un’altra enclave palestinese in Israele, che ha come città principa-
le Umm al-Fahm. Poco tempo dopo, anche il Libano, e da ultima la Siria, firmaro-
no un armistizio con Israele, ma con intese «temporanee» in attesa di un definitivo
accordo di pace. Come recitano le sue clausole, esse non conferiscono alcun dirit-
to a nessuna delle parti né le privano dei loro diritti. In conformità agli accordi di
pace, Israele trasformò in «confini» con l’Egitto e la Giordania la linea di armistizio
del 1949, che lo separa oggi in Palestina dalla Cisgiordania e da Gaza, ed è stata
impropriamente definita Linea Verde dal governo ebraico per toglierle la sua con-
notazione giuridica e fattuale.
Così si chiuse il capitolo dell’al-Nakba. Più di 800 mila palestinesi vennero
espulsi da 531 città e villaggi, in aggiunta ad altri 130 mila scacciati da borghi più
piccoli, portando il totale a 935 mila profughi.
Gli ebrei, detentori di dubbie proprietà non superiori complessivamente a
1.682 km2, occupavano in quel momento una superficie di 20.323 km2, che chia-
marono Israele. Ciò significa che il 92% del loro territorio era palestinese. Sotto tut-
ti i punti di vista, questa è la più ampia e organizzata operazione di pulizia etnica,
ancora in corso, della storia moderna. Non si può comprendere il problema dei
profughi, né tanto meno intravedere soluzioni, senza esaminare la sequenza grafi-
ca dettagliata della loro progressiva espropriazione ed espulsione. Questa è la cru-
da anatomia della catastrofe.

I piani di reinsediamento
Come abbiamo visto, dopo aver scacciato i palestinesi e confiscato le loro ter-
re, Israele concentrò i suoi sforzi per sbarazzarsi dei profughi stessi. Attualmente,
l’88% di costoro vive in Palestina e nelle vicinanze; il 46% entro i confini del man-
dato britannico, il 42% in Giordania, Siria e Libano, nel raggio di 100 miglia dalla
loro terra d’origine. Solo il 12% risiede più lontano, diviso in parti eguali fra paesi
arabi e altre nazioni. Il loro numero complessivo, secondo le statistiche del 1998, è
80 pari a 4,9 milioni, di cui solo 3,6 milioni sono registrati dall’Unrwa (United Nations
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Relief and Works Agency), l’organismo ufficiale creato per assistere i rifugiati. Più
di due terzi dei palestinesi sono profughi! Non vi è alcun altro popolo al mondo
con tanti suoi membri costretti all’esilio.
La vicinanza alle loro case e il desiderio incoercibile di farvi ritorno spiega i
febbrili tentativi di Israele di accogliere il maggior numero possibile di immigrati
ebrei da luoghi così diversi come l’Etiopia e la Russia, solo per riempire le zone
spopolate della Palestina. Vi sono d’altra parte decine di piani (se non centinaia te-
nuto conto di piccole varianti) per reinsediare i profughi palestinesi in qualsiasi
parte del mondo tranne nelle loro case d’un tempo. Tutti di ispirazione israeliana,
si basano su una o più delle seguenti premesse: che i palestinesi non sono un «po-
polo» distinto, che potrebbero pertanto vivere ovunque, senza diritti riconosciuti al
ritorno, considerato peraltro fisicamente impossibile e pericoloso poiché minacce-
rebbe il «carattere ebraico» dello Stato di Israele.
L’ultima versione di questi progetti è quella proposta da Donna Artz. Sebbene
formulata con scrupolo umanitario, essa prevede essenzialmente una continuazio-
ne del piano di pulizia etnica attuato da Ben Gurion e Ariel Sharon, ovverosia il
trasferimento di un milione e mezzo di profughi in varie parti del mondo e l’esilio
forzato di altri milioni secondo un disegno basato sulle minacce, la coercizione e la
corruzione.
Altri piani prevedono il ritorno degli esuli non già alle loro case, bensì in un
nuovo Stato palestinese con un territorio e una sovranità ancora avvolti nel miste-
ro. E propongono persino «scambi di territori», quali ad esempio le aree popolate
da palestinesi o i deserti all’interno di Israele usati come discariche chimiche, con-
tro importanti aree della Cisgiordania, occupate da coloni, da annettere ad Israe-
le. Si confonde così la questione della sovranità, che vale per un territorio il cui
Stato può emanare leggi che gli consentono di ammettere cittadini, con quella del
ritorno alle proprie case da parte di profughi scacciati, che è invece un diritto ina-
lienabile. Fra i due problemi non vi è alcun rapporto. Il profugo rimane tale fin-
ché non rientra in patria. Ciò è stato detto chiaramente nel memorandum esplica-
tivo della risoluzione 194. Cambiare l’indirizzo del campo in cui è internato non è
una soluzione né gli restituisce il suo diritto. Un rifugiato dovrebbe tornare a casa
propria, indipendentemente dalla sovranità politica del territorio in cui questa si
trova.
Tutti i piani di questo tipo sono falliti. Diviene perciò sempre più necessario
ricercare soluzioni decisive e innovative, che tuttavia non potranno mai essere per-
manenti se non si basano sulla giustizia. Innanzitutto, dobbiamo infrangere il tabù
israeliano secondo cui il diritto al ritorno è impossibile, vagliando e contestando
gli argomenti contrari messi in campo.

La questione demografica
Spesso si sostiene che non vi è spazio in Israele per il ritorno dei profughi. An-
che se fosse vero, ciò non escluderebbe il diritto fondamentale al rimpatrio. Ma in 81
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

realtà questa pretesa è falsa. Le ricerche finora condotte al riguardo possono essere
riassunte come segue.
È possibile dividere le 46 regioni naturali di Israele in 3 gruppi (vedi carta).
Il gruppo A, con una superficie di 1.628 km2, ha una popolazione ebraica di
poco più di 3 milioni di abitanti (il 67% di quella complessiva). Quest’area corri-
sponde, grosso modo, a quella acquisita dagli ebrei nel periodo del mandato bri-
tannico. Molti insediamenti ebraici, dopo la creazione dello Stato di Israele, erano
concentrati nel suo perimetro.
Il gruppo B, un’area di 1.508 km2, ha un’estensione quasi pari alla prima, ma
con una diversa localizzazione dei territori in possesso dei palestinesi rimasti in
Israele dopo la guerra del 1948. (A partire da allora, lo Stato ebraico ha confiscato
due terzi delle proprietà fondiarie dei suoi cittadini palestinesi). All’interno di que-
st’area risiedono 436 mila ebrei, ovvero il 9,6% di tutti quelli che vivono in Israele,
accanto a 92 mila palestinesi con cittadinanza israeliana. Il 77% degli ebrei è con-
centrato pertanto nel 15% del territorio di Israele.
Il gruppo C, che copre una superficie di 17.381 km2, si ritrova così distribuito
su due ampie estensioni, corrispondenti grosso modo ai distretti settentrionale e
meridionale con riferimento alle divisioni amministrative della Palestina e di Israe-
le. Questo è il territorio e il retaggio di circa 5 milioni di profughi, scacciati dalle lo-
ro case nel 1948, e dei loro discendenti. Nel gruppo C vive circa un milione di
ebrei, l’80% dei quali risiede però in città originariamente palestinesi ed ora miste,
o in numerosi piccoli «centri di sviluppo», largamente popolati da ebrei sefarditi, o
orientali (e più di recente russi), in condizioni generali di povertà, con i più alti tas-
si di disoccupazione e i più bassi livelli di reddito in Israele: prova vivente della se-
gregazione etnica e delle discriminazioni politiche esistenti in questo paese.
Abbiamo così 200 mila ebrei insediati in colonie agricole che sfruttano vaste
estensioni appartenenti ai profughi (con il resto del territorio usato per scopi mili-
tari e per il rimboschimento). La maggior parte di questi coloni (160 mila) risiede
nei moshav (cooperative agricole) e nei kibbutz (fattorie collettive). Il kibbutz, un
tempo bandiera del sionismo, sta ora agonizzando. Solo 8.600 kibbutznik vivono
di agricoltura, con l’apporto di decine di migliaia di braccianti thailandesi: un ironi-
co capovolgimento della dottrina sionista, che vieta l’impiego di manodopera non
ebraica (specialmente in Palestina). Così, i diritti di 5 milioni di profughi vengono
conculcati a favore di 8.600 kibbutznik.
A ulteriore illustrazione di questo punto, immaginiamo il seguente scenario:
quando i profughi registrati in Libano (362 mila) torneranno nelle loro terre in Ga-
lilea (ancora in prevalenza araba) e quelli registrati a Gaza (759 mila) rientreranno
nel distretto meridionale (oggi quasi spopolato, con una densità di 6 ebrei per
km2, in confronto ai 5.500 abitanti per km2 di Gaza), ciò avrà scarso effetto sulla
densità demografica ebraica nel gruppo A, e gli ebrei conserveranno una maggio-
ranza numerica in tutti e tre i gruppi.
Il numero di immigrati russi accolti in Israele negli anni Novanta è pari a quel-
82 lo dei profughi del Libano e di Gaza sommati insieme. Se non vi fosse stata quel-
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l’immigrazione e questo milione di profughi palestinesi avesse potuto rientrare in


patria, sarebbe stato sistemato senza problemi e Israele avrebbe mantenuto la sua
attuale consistenza demografica. Invece, si sono ammessi immigrati stranieri impe-
dendo ai legittimi proprietari delle terre di far ritorno alle loro case.
Il mito della mancanza di spazio non ha dunque alcun fondamento.

L’acqua e l’agricoltura
L’acqua può essere una causa di guerra in Medio Oriente. Come è stato am-
piamente rilevato, l’invasione israeliana della Cisgiordania e della Siria nel 1967 era
finalizzata al controllo delle sorgenti del Giordano e dei suoi affluenti e delle falde
acquifere della Cisgiordania. La volontà di Israele di mantenere il controllo di que-
ste risorse idriche è stata una delle ragioni principali del suo rifiuto di firmare un
accordo con Damasco e con i palestinesi. Ciascuna di queste fonti, in Cisgiordania
e lungo la frontiera siriana, equivale ad almeno 500 milioni di metri cubi all’anno
(mm3/a), che in gran parte vanno sprecati, come vedremo.
Le risorse idriche nel territorio palestinese su cui è sorto lo Stato di Israele
nel 1948 sono pari a 350 mm3/a. Un volume accresciuto, prima della conquista
del 1967, con perforazioni sotto la Cisgiordania e, dopo la guerra dei Sei giorni,
grazie al pieno controllo delle risorse idriche siriane e palestinesi, fino a raggiun-
gere 2.020 mm3/a nel 1990, di cui 1.471 provenienti da fonti situate in territorio
arabo.
Come viene usata quest’acqua? Nel 1995, 594 mm3/a venivano impiegati per
uso domestico, 133 per uso industriale e 1.300 per uso agricolo. Come ha dimo-
strato Peter Beaumont, il consumo domestico si mantiene costante su un livello di
100 m3/a/pro capite dalla creazione dello Stato d’Israele ad oggi. È un volume più
alto di quello della Giordania (60 m3/a) e molto più elevato di quello della Cisgior-
dania impoverita (37,5 m3/a), che ha visto sottrarsi il 90% delle sue risorse idriche
da Israele, mentre la sovraffollata Striscia di Gaza ha un forte deficit idrico con ac-
que il cui grado di salinità va pericolosamente crescendo.
Israele ha continuato ad usare in media 1.200-1.400 mm3/a per l’agricoltura. Il
consumo, in gran parte superfluo, di 860 m3/per dunum (10 dunum = 1 ettaro) per
l’irrigazione negli anni Cinquanta è oggi sceso a 600 m3/d. Queste preziose risorse
vengono fornite agli agricoltori, al 70%, al costo di 19 cent/m3, mentre il costo per
l’uso domestico è di 1,0-1,76 dollari/m3. L’utenza domestica sussidia in tal modo
ampiamente gli agricoltori, che producono patate, grano, cotone e cocomeri, tutte
colture che richiedono grandi quantità di acqua.
Dopo l’espulsione dei palestinesi e la confisca delle loro terre nel 1948, l’e-
stensione dei campi irrigui è cresciuta rapidamente, da circa 300 mila dunum all’i-
nizio degli anni Cinquanta a 2 milioni di dunum verso la fine degli anni Settanta:
un incremento dovuto alle aree sottratte dagli israeliani alla popolazione autocto-
na. Negli anni Novanta, questa superficie è scesa a 1,8 milioni di dunum a causa
84 di un generale disinteresse per l’agricoltura. Le aree coltivabili sono aumentate
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

complessivamente da 1 milione di dunum nel 1950 a 4,2 milioni nel 1997, con
una flessione rispetto al picco di 4,4 milioni di dunum nel 1990. Recentemente è
stata rivelata la sorprendente notizia che le terre irrigue sono in realtà meno este-
se di quanto dichiarato ufficialmente. Secondo un rapporto dell’autorità statale di
controllo, 865 mila dunum hanno cessato di essere coltivati nel periodo 1988-
1999, pur continuando a ricevere la stessa quantità di acqua destinata all’irrigazio-
ne! Ciò significa che la superficie ufficialmente irrigata in Israele (1.943.000 du-
num) è sovrastimata rispetto a quella reale pari a 1.078.000 dunum ovvero al 55%
di quella dichiarata.
Chi sfrutta questi vasti terreni? Nel 1998 il settore agricolo contava 72.500 ad-
detti, di cui 36.800 ebrei. E di questi, solo 8.600 erano kibbutznik. Queste vaste
estensioni, con le loro ricche risorse idriche, contribuiscono solo nella misura
dell’1,8% al prodotto interno lordo di Israele, che per ottenere questo magro risul-
tato ha dovuto importare 24.300 lavoratori stranieri (per lo più thailandesi) negan-
do ai contadini palestinesi il diritto di coltivare la loro terra. (E l’ironia vuole che al-
cuni palestinesi col permesso di soggiorno in Israele lavorino i loro campi, come
braccianti, a beneficio degli ebrei).
Emergerà ben presto, tuttavia, un problema più serio che potrebbe scatenare
una guerra con ulteriori effetti distruttivi per la regione. Il fabbisogno idrico di
Israele, stimato oggi in 2 milioni di metri cubi (mm3) e coperto per due terzi da ac-
que arabe, è appena soddisfatto dalle risorse a disposizione del paese. Presumen-
do un modesto incremento della sua popolazione, nel 2020 potrebbe salire a 2.427
mm3 all’anno e a 3.335 nel 2050. Col ritorno di tutti i profughi e un minore spreco
(60 metri cubi pro capite, anziché gli attuali 100), il fabbisogno complessivo sareb-
be di 2.803 mcm, con un incremento di appena il 15%.
Il fatto è, però, che qualsiasi quantità eccedente gli attuali 2.000 mm3 dovreb-
be essere reperita altrove. Il trattamento delle acque reflue rinvierebbe solo di po-
co la soluzione del problema. La desalinizzazione è molto onerosa, sia nella fase
iniziale che per i costi di gestione. È appena sopportabile nei paesi del Golfo dove
l’energia è a buon mercato. Il trasporto dell’acqua dalla Turchia via mare richiede
delle cisterne, oggi fabbricate a Isdud, con rischi per la salute dovuti a possibili
contaminazioni.
Senza il ritorno dei profughi, e quindi senza la pace, Israele potrebbe indul-
gere alla tentazione di attaccare di nuovo i paesi arabi, acquisendo risorse idriche
in Libano, in Siria e persino in Giordania. Ma questo sarebbe l’apice della follia.
Se invece, col ritorno dei profughi, la pace prevalesse, è probabile che verrebbe-
ro firmati accordi regionali con i paesi vicini, compreso forse l’Iraq, così da divi-
dere le risorse idriche in base a princìpi di giustizia e di equità. Ed è ipotizzabile,
inoltre, che si possano estendere acquedotti dalla Turchia o dall’Iraq fino alla Si-
ria. Così come è possibile che l’energia richiesta dalla desalinizzazione possa es-
sere trasmessa dai paesi del Golfo. Il ritorno dei profughi, prerequisito necessario
per la fine del conflitto, potrebbe pertanto riportare la pace nella regione e preve-
nire la guerra. 85
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

La sindrome del ‘carattere ebraico’ di Israele


Alla luce dell’oppressione subita dagli ebrei nel corso della storia europea, il
loro timore dei gentili è una cosa comprensibile. Ma quando questa paura si tradu-
ce in una politica attiva, diventa pericolosa e funesta, come lo è stato nel caso della
Palestina. L’espulsione dei suoi abitanti e l’espropriazione delle loro terre, come
prerequisito per l’instaurazione dello Stato di Israele, è stato il risultato di questa
paranoia. Questa era la dottrina di Ben Gurion (ampiamente documentata dagli
storici); tuttora seguita, essa esorta ad uccidere per timore che la vittima, se soprav-
vivesse, potrebbe far del male all’assassino.
Il timore che il «carattere ebraico» dello Stato di Israele possa essere minacciato
viene normalmente addotto per giustificare la negazione del diritto fondamentale
dei palestinesi alla loro terra. Ma che significa «carattere ebraico»? Lo si intende in
senso demografico, sociale o religioso? Se comporta politiche che negano il diritto
al ritorno dei profughi e consentono l’immigrazione di un numero illimitato di
ebrei al loro posto, allora vale quanto hanno detto famosi giuristi quali Thomas e
Sally Mallison, secondo i quali quest’espressione è in realtà «un eufemismo che al-
lude alle discriminazioni sioniste praticate dallo Stato di Israele in violazione dei
diritti umani sanciti dal Piano di spartizione dell’Onu. Le Nazioni Unite non hanno
alcun obbligo di rispettare il sionismo in Israele più di quanto ne abbiano di man-
tenere l’apartheid in Sudafrica». Il Dipartimento di Stato americano non riconosce
alcun privilegio speciale ai cittadini ebrei di Israele e ha dichiarato che «non accetta
alcun rapporto politico-giuridico basato sull’appartenenza religiosa dei cittadini
americani. Pertanto, non considera “il popolo ebraico” come un soggetto di diritto
internazionale».
Ma proviamo a esaminare la questione più in profondità. Il piano a lungo ter-
mine di Israele per il 2020 prevede un incremento demografico con vari scenari
per l’immigrazione ebraica. L’ipotesi più accreditata è che la popolazione si aggi-
rerà intorno a 8.100.000 abitanti, di cui 5.832.000 ebrei e 2.268.000 palestinesi. In
quello stesso anno, i profughi palestinesi saranno 11 milioni.
Gli ebrei nel mondo sono circa 13 milioni con un tasso di decremento del
- 0,50% a causa di matrimoni misti e di conversioni o dell’abbandono della religio-
ne dei padri. Ciò si spiega col fatto che vivono in paesi ricchi e non hanno bisogno
di misure di protezione che porterebbero al loro isolamento. Israele prevede che
entro il 2020 il 52% o più degli ebrei del mondo tornerà alla terra d’origine.
I piani aggressivi di Sharon mirano al ritorno in patria degli ebrei russi, suda-
mericani e sudafricani. Gli ebrei d’Europa e degli Stati Uniti non hanno alcun inte-
resse a ritornare in Israele, fatta eccezione per gli zeloti che danno vita attualmente
a colonie e terrorizzano la Cisgiordania. Secondo le previsioni più e meno ottimi-
stiche (rispettivamente di 1.700.000 e 800.000 immigrati), appare chiaro che vi è un
limite superiore all’immigrazione raggiungibile entro il 2020. Osservando l’incre-
mento della popolazione palestinese in Israele lungo la stessa curva, è evidente
86 che essa sopravanzerà quella ebraica entro il 2070 con o senza immigrazione.
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

Escluso, ovviamente, qualsiasi altro fattore d’interferenza. Entro quella data, il nu-
mero totale di profughi sarà pari all’attuale consistenza demografica dell’Egitto,
con i suoi 61 milioni di abitanti.
La fallacia degli argomenti addotti dagli israeliani, che puntano a mantenere
una maggioranza ebraica, è più che palese. Essi mirano infatti a un obiettivo im-
possibile: conservare un predominio numerico in qualsiasi periodo e in tutti i terri-
tori controllati da Israele. Questo è impossibile, poiché o si ridurrà nel tempo o si
restringerà il territorio su cui può essere mantenuto. Una soluzione migliore per gli
ebrei, se non per tutti, è quella di vivere in pace con la popolazione originaria, non
contro di essa.

La logistica del rimpatrio


Possiamo ora delineare i tratti principali del piano per il rientro dei profughi.
Il popolo palestinese è una famiglia dagli stretti legami. La dispersione geogra-
fica in esilio non ha distrutto il suo tessuto sociale. Ci si continua a sposare negli
stessi ambienti, come nel periodo antecedente il 1948; viaggi e soggiorni in paesi
stranieri hanno intaccato solo marginalmente questa tendenza. Ciò ha tuttavia un
effetto positivo poiché i coniugi stranieri sono stati assimilati dalla società palesti-
nese. In generale, non sembra esistere un serio problema di localizzazione e iden-
tificazione delle famiglie palestinesi.
Questi legami familiari sono importanti, soprattutto per i profughi non regi-
strati dall’Unrwa nel 1950 o negli anni successivi. Si tratta, in questo caso, essen-
zialmente di abitanti di città palestinesi che se ne sono andati all’inizio del 1948 e
non avevano bisogno dell’assistenza materiale prevista da questa agenzia delle Na-
zioni Unite, o di altri che, pur se indigenti, non si erano registrati per orgoglio, pri-
ma che le liste venissero chiuse, o che non l’avevano fatto per varie ragioni. Stime
accurate dimostrano che i profughi di 531 città e villaggi spogliati dalle forze israe-
liane nel 1948 assommano a 4.940.000 alla fine del 1998, cinquant’anni dopo la Ca-
tastrofe del ’48. Di questi, 3.602.000 sono stati registrati dall’Unrwa.
Il numero complessivo di rifugiati può essere suddiviso come segue: il 56% è
rappresentato da profughi provenienti da villaggi, completamenti privi di mezzi di
sussistenza, che hanno perso le loro case, i loro campi e il loro bestiame. Non sor-
prende pertanto se solo il 6% di questa popolazione non si sia registrato. Abbiamo
così un totale del 62%, sicché circa due terzi di tutti i profughi vengono dalle zone
rurali. Il restante 38% è composto da abitanti di centri urbani, di cui più della metà
(21%) non registrati. Se consideriamo solo quelli registrati, vediamo che il 23%
proviene dalle città e il 77% dalle campagne.
Non esiste alcuna documentazione su altre popolazioni del Medio Oriente co-
sì dettagliata e controllata da cinquant’anni come quella riguardante i profughi pa-
lestinesi. All’epoca della registrazione, essi dovevano dimostrare di risiedere in Pa-
lestina, ovvero di possedere un titolo di proprietà (kushan), un passaporto, una
carta d’identità, una cartella delle tasse, un diploma scolastico, un attestato di pub- 87
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

blico impiego eccetera. Oggi l’Unrwa conserva 700 mila dossier familiari e circa 4
milioni di dossier individuali, completi di nome e cognome (compresi quelli del
padre, dei nonni e dei familiari), sesso, data di nascita, luogo di origine (villaggi
spopolati), distretto, grado e rapporto di parentela (48 categorie), numero di mem-
bri della famiglia e località in cui è stato trovato rifugio. Queste ultime sono rag-
gruppate in 5 aree in cui l’Unrwa è operante: Striscia di Gaza, Cisgiordania, Gior-
dania, Siria e Libano, e divise in regioni, suddivise a loro volta in centri di distribu-
zione. Ciascun rifugiato ha un proprio numero. Ed è possibile mobilitare la popo-
lazione di qualsiasi villaggio nel giro di una settimana.
Quando gli abitanti di un villaggio venivano espulsi dagli israeliani nel 1948,
lo abbandonavano in massa. Il 72% dei profughi registrati si era concentrato in una
sola delle 5 aree dell’Unrwa e il 20% in altre due aree limitrofe; solo il restante 8%
si era distribuito su più di tre aree. La localizzazione dei profughi non pone dun-
que alcun problema.

La distribuzione delle terre dei profughi


Il governo mandatario britannico in Palestina (1920-1948) documentò lo stato
del paese attraverso una serie di mappe dettagliate. E ciò è stato utile per preserva-
re i diritti di proprietà dei palestinesi, sebbene l’intenzione delle autorità filosioni-
ste fosse, all’opposto, quella di favorire l’immigrazione e l’insediamento degli ebrei
trasferendo ad essi la maggior parte di territorio possibile.
Nonostante i continui sforzi, i sionisti nel 1948 non possedevano più di
1.682.000 dunum ovvero il 6% delle terre in Palestina, così suddiviso:
pieno possesso: 1.499.958 dunum;
proprietà indivisa: 56.628 dunum;
concessioni britanniche: 175.000 dunum.
Non tutte le terre in pieno possesso erano legalmente iscritte nel Land Regi-
stry. In gran parte erano di proprietà di ebrei o da loro coltivate in base ad accordi
provvisori, promesse di vendita, dubbie pretese o in contravvenzione ai regola-
menti del governo mandatario. I rapporti quindicinali dei commissari di distretto
registravano molti casi di frode e di pretese infondate o illegittime. Nel distretto di
Beer Sheva, ad esempio, le aree reclamate dagli ebrei, incluse fra quelle sopraelen-
cate, erano ampiamente dilatate come dimostra il rapporto del commissario. Gran
parte delle terre comuni di un villaggio (Musha’) in Palestina non sono divisibili fra
i proprietari, tradizionalmente membri di una stessa famiglia. Quando gli ebrei ne
acquistavano una parte da uno di essi, questi non erano in grado di identificarla o
distinguerla fisicamente, al pari di una quota di un pacchetto azionario.
Il governo mandatario filosionista fece concessioni ai coloni ebrei, ma circo-
scritte e con un termine oltre il quale le terre avrebbero dovuto essere restituite al-
le popolazioni originarie. Tutte le concessioni scaddero nel maggio 1948, quando
il mandato britannico ebbe fine. È chiaro che quel che restava della Palestina dopo
88 la sottrazione di queste terre, apparteneva ai suoi abitanti (non ebrei) da innume-
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

Tavola 1. Fasi del rimpatrio


Fase Descrizione Numero

1 Siria + Libano: profughi rurali registrati 499.403


2 Gaza: profughi rurali registrati 686.670
3 Cisgiordania: profughi rurali registrati 378.037
4 Giordania: profughi rurali registrati 1.134.116
5 Città: G2 tutti + profughi rurali registrati 540.898
6 Città: G1 registrati 653.245
7 Città: G1 non registrati 907.804
Totale 4.800.174

revoli generazioni. Chiedere ai palestinesi di fornirne la prova, sarebbe come chie-


dere a una qualsiasi contea inglese di dimostrare che fa parte del Regno Unito. L’o-
nere della prova spetta agli immigrati stranieri che hanno voluto assicurarsi un
punto d’appoggio nel paese.
Le Nazioni Unite, con la famosa risoluzione 194, istituirono la Commissione di
conciliazione per la Palestina, uno dei cui meriti, duraturi, è stato quello di censire
la proprietà fondiaria in Palestina in base ai documenti del governo mandatario
britannico e in consultazione con Israele, la Giordania e altri paesi arabi. La Com-
missione registrò i titoli di proprietà di circa 500 mila palestinesi, detentori di aree
per una superficie complessiva di 5.194.091 dunum, all’interno dei confini ammini-
strativi di ciascun villaggio e centro urbano. Vennero così censiti 797.505 appezza-
menti, ben definiti sulle mappe. Sebbene questi documenti siano molto importan-
ti, non coprono tuttavia l’intera estensione della Palestina araba: un’insufficienza
chiaramente rilevabile attraverso una comparazione fra l’estensione ufficiale di cia-
scun distretto con quella di tutte le proprietà fondiarie (ebraiche e palestinesi).
Una considerevole sottostima, secondo i documenti della Commissione, si rilevava
nei sottodistretti di Gaza, Hebron, Jaffa, Janı̄n, Gerusalemme, Ramla e Tūlkarim. La
Commissione ammetteva una mancanza di informazioni riguardo al subdistretto di
Ramla e ai villaggi intorno a Gerusalemme. E ancor più significativamente, omette-
va, sempre per «mancanza di informazioni», l’intero distretto (12.577.000 dunum)
di Beer Sheva.
Grazie alle dettagliate mappe britanniche e ai documenti del Land Registry, è
pertanto possibile stabilire, una volta sottratti gli appezzamenti di accertate pro-
prietà ebraica, l’estensione delle terre appartenenti ai profughi palestinesi. I pro-
prietari individuali, in ciascun villaggio o centro urbano, sono identificabili attra-
verso i documenti della Commissione, mentre le terre comuni dei villaggi sono in-
dicate sulle mappe del governo mandatario britannico che definiscono i confini e
l’estensione di questi ultimi (secondo le Village Statistics del 1945). Il numero di
abitanti di ciascun villaggio si ricava dai documenti dell’Unrwa. Estensione, ubica- 89
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

zione e confini di queste terre comuni, insieme ai nomi, al numero e all’attuale


luogo di residenza dei loro proprietari (solitamente limitato a 3-4 hamulas o fami-
glie estese) sono dunque ben identificabili.

Le fasi del ritorno


Considerate le condizioni particolari di ciascun gruppo di profughi, è possibile
immaginare un rimpatrio in 7 fasi, con scaglioni di entità variabile da 500 mila a 1
milione di persone.
Ciascuna fase, tranne due, prevede un rimpatrio di circa 500 mila persone.
Con precedenza accordata ai profughi registrati provenienti dai villaggi, seguiti da
quelli provenienti da piccoli centri urbani. Per ultimi vengono i profughi prove-
nienti dalle città costiere.

Il ritorno dei profughi dalla Siria e dal Libano (figura 9)


Sono circa 500 mila, abitanti di villaggi registrati dei distretti di Haifa, San Gio-
vanni d’Acri, Tiberiade, Safad e Nazareth – escluse le città. Tutti questi rifugiati
possono far ritorno tranquillamente ai loro luoghi d’origine spopolati. I villaggi di-
strutti e ricostruiti in parte o in toto in queste aree sono infatti soltanto due: Tira e
Wa’rat al Sāris nel distretto di Haifa, situati nella Zona A, che ha la più alta concen-
trazione di popolazione ebraica.
In generale, questi profughi ritroveranno un ambiente favorevole. E potranno
riunirsi con i loro vecchi amici e parenti in Galilea, una regione ancor oggi a pre-
valenza palestinese.

Il ritorno dei profughi dalla Striscia di Gaza (figura 10)


Questa è l’area più affollata (circa 6 mila abitanti per km2) e più povera, dove
si concentrano i profughi della Palestina meridionale. Oltre il filo spinato, possono
vedere i loro campi deserti (popolati soltanto da 6 persone per km2). Quelli regi-
strati sono all’incirca 686 mila provenienti dai villaggi dei distretti di Beer Sheva,
Gaza, Ramla e Jaffa. Il loro rientro nei dintorni di Beer Sheva e di Gaza non pone
alcun ostacolo, poiché le terre che avevano abbandonato sono quasi spopolate.
Qiryat Gat si è allargato assorbendo l’abitato di ’Irāq al-Manshiya, ma il territorio
circostante è ancora libero. (La società d’informatica americana Intel ha costruito
uno stabilimento sul vecchio borgo violando gli accordi di armistizio e il diritto in-
ternazionale).
I profughi di Ramla possono tornare ai loro villaggi nel distretto, situato nelle
Zone A, B e C. Nella Zona A, ad alta intensità ebraica, vi sono due soli villaggi oc-
cupati: ’Āqir e Wādı̄ Hunayn; nella Zona B ve ne sono tre: Sarafand al-Kharōb, al
90 Burj e Jindas. Particolare cautela sarà necessaria per i villaggi intorno a Jaffa.
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

Il ritorno dei profughi rurali registrati della Cisgiordania (figura 11)


Sono all’incirca 378 mila. I luoghi d’origine sono diversi (9 distretti). Provengo-
no dai vicini distretti di Janı̄n, Gerusalemme, Tūlkarim ed Hebron, da quelli di Ga-
za e Beer Sheva a sud, da quelli di Jaffa e Ramla al centro, e da quello di Haifa a
nord. Il numero di profughi di ciascun distretto è relativamente piccolo: varia da
un massimo di 71 mila, provenienti da quello di Gerusalemme, a un minimo di 14
mila e 16 mila, rispettivamente, per quelli di Beer Sheva e di Gaza.
Come abbiamo già detto, non vi è alcun problema per il ritorno alle località
spopolate di questi ultimi due distretti. Né per il distretto di Gerusalemme, fatta ec-
cezione per 5 villaggi: Lifta, Dayr Yāsı̄n, Malhiya, ’Ayn Kārem e al-Jūrā, inglobati
nell’hinterland della città. La questione di Gerusalemme richiede un discorso a sé
stante che qui non affronteremo.
Del ritorno nel distretto di Haifa abbiamo già riferito. Il rientro in quello di
Janı̄n non pone alcun problema, diversamente dal caso di Tūlkarim. Lungo la co-
sta vi sono 8 villaggi, densamente popolati da ebrei e in gran parte riedificati:
Umm Khālid (sopra il quale è sorta Netanya) Khirbat Bayt Lid, Wādi Qabbānı̄,
Biyārat Hanūn, Ghāba Kafr Sūr, Tabsūr, Kafr Saba (vicino a Kefar Sava) e Khirbat
al-Manshiya, tutti di piccole dimensioni, con una popolazione attuale complessiva
di 19 mila abitanti.

Il ritorno dei profughi rurali registrati dalla Giordania (figura 11)


Si tratta del gruppo di gran lunga più consistente: 1.134.176 persone. La sua
composizione è simile a quella dei profughi della Cisgiordania con l’aggiunta di 3
nuovi distretti: Tiberiade, Baysan (nei pressi del Giordano) e Nazareth. Il motivo
del loro grande numero e di quello relativamente piccolo dei profughi della Ci-
sgiordania si spiega con la guerra del 1967. Oggi gli espatriati in seguito a quell’e-
vento sono circa 800 mila, espulsi o costretti a lasciare la Palestina per la Giorda-
nia. (Fra questi sono compresi profughi e cittadini della Cisgiordania).
I problemi legati al loro ritorno sono simili a quelli dei profughi della Cisgior-
dania. I loro luoghi d’origine nei distretti di Tiberiade, Baysan e Nazareth sono at-
tualmente spopolati e abitati oggi da un consistente numero di palestinesi.

Le città
Le fasi precedenti si riferiscono esclusivamente ai profughi rurali registrati.
Le loro zone di provenienza sono ancora in gran parte deserte. Molte case nei
villaggi sono state distrutte dagli israeliani. Secondo una ricerca sul campo con-
dotta nel periodo 1987-1990, su 407 villaggi esaminati, 81 erano completamente
scomparsi, 140 distrutti ma identificati, 17 con molte case demolite e abitati da
una o due famiglie ebraiche e 35 con le case ancora in piedi, abitati da più di
due famiglie ebraiche. 91
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

Diversa la situazione nelle città, dove non vi sono state demolizioni su larga
scala, anche se agli abitanti palestinesi rimasti è stato impedito di eseguire ripara-
zioni, vietando loro persino di mettere un vetro o aggiungere una stanza in più per
la famiglia. Le case dei palestinesi sfrattati sono state occupate da immigrati ebrei
ai quali è stato concesso di effettuare tutte le modifiche desiderate.
Le 6 città restanti (Gruppo 1) hanno speciali caratteristiche. Molte si trovano
sulla costa; tutte avevano sempre avuto una popolazione mista, ebraica e palesti-
nese, con la differenza che, prima del 1948, i palestinesi erano la maggioranza e
oggi sono una minoranza. Queste sono: San Giovanni d’Acri, Haifa, Jaffa, Lidda,
Ramla e Gerusalemme. Per quanto riguarda le 14 città del Gruppo 1, non dovreb-
be esservi alcun ostacolo insormontabile al ritorno dei profughi, salvo in due casi:
Jaffa, che si trova nel mezzo di un’alta concentrazione di popolazione ebraica in
Palestina, e Gerusalemme, diversamente ubicata ma estremamente importante dal
punto di vista politico e religioso.

Il ritorno dei profughi urbani registrati (Gruppo 2)


I profughi registrati provenienti da Safad, Tiberiade, Baysan, Beer Sheva, Maj-
dal e Isdud si aggirano sui 182 mila. Il numero di quelli non registrati, in questo ca-
so, è molto più piccolo (78 mila) rispetto alle grandi città. Per completezza, ag-
giungiamo, in questa fase, anche i profughi rurali che non si erano registrati o non
avevano potuto farlo per i motivi già menzionati. Si tratta, complessivamente, di
280 mila persone, che non pongono alcun problema poiché provengono tutte da
località ancora deserte o spopolate. Il numero totale di profughi previsto in questa
fase è di 540 mila persone.
È necessario considerare ora la fisionomia urbana di ciascuna città. Possiamo
farlo esaminando le mappe del governo mandatario britannico che indicano le
aree edificate, i limiti di espansione e le zone rurali circostanti e vagliando inoltre
le moderne planimetrie israeliane (1998) che mostrano l’estensione dell’attuale
area urbana. Per comparare la situazione del 1948 con quella di quarant’anni do-
po, l’area urbana iniziale viene estesa, nello spazio ora disponibile, rispecchiando
l’attuale consistenza demografica dei palestinesi se non fossero stati espulsi. La ve-
diamo (segnata in rosso) in tutti i diagrammi delle città, insieme ai limiti di espan-
sione urbana (palestinese) del 1948 e (israeliana) del 1998.
I risultati sono illustrati nelle figure 12, 13, 14, 15, 16 e 17. In tutti i casi, possia-
mo vedere che i palestinesi possono ritornare nelle loro città e costruire nuove ca-
se, nell’area urbana, per la popolazione accresciuta, senza espellere necessaria-
mente gli attuali occupanti ebrei com’è avvenuto per i palestinesi nel 1948.
Per quanto riguarda Safad, la città può espandersi verso nord e verso est per
accogliere i rimpatriati. Tiberiade può estendersi lungo la riva del lago. Baysan ha
spazio per ingrandirsi in tutte le direzioni. Beer Sheva si è molto ampliata, soprat-
tutto a nord, ma può espandersi a est e ad ovest, e, forse, lungo la costa anche a
92 sud per far posto ai profughi che ritornano.
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

Isdud non pone alcun problema. Può svilupparsi intorno al suo nucleo origi-
nario, delle dimensioni di un grande villaggio. La nuova città israeliana di Ashdōd,
è stata edificata altrove, lungo la costa, dove è stato costruito un grande porto. Al
Majdal può espandersi ovunque, tranne a sud. E anche in questo caso, la nuova
città israeliana di Ashqelōn è stata edificata sulla costa.
È importante osservare che tutte e sei le città in questione sono abitate attual-
mente da ebrei sefarditi, i quali non hanno beneficiato dei favori concessi all’élite
dominante askenazita. Soffrono di un trattamento discriminatorio e sono economi-
camente impoverite, anche se in minor misura nel caso di Isdud, grazie alla sua at-
tività portuale, e di Beer Sheva, la cui università fornisce ampia occupazione.
Col venir meno delle politiche razziste e dell’istigazione sionista all’odio con-
tro gli arabi, i profughi palestinesi potrebbero vivere in armonia con gli attuali abi-
tanti ebrei, per lo più orientali, ovvero provenienti da paesi arabi e islamici.

Il ritorno dei profughi urbani registrati (Gruppo 1)


Questa fase riguarda il rientro di 653 mila fuoriusciti nelle città di San Giovan-
ni d’Acri (vedi figura 18), Haifa, Jaffa, Lidda, Ramla e Gerusalemme Ovest (Grup-
po 1), spesso considerato simbolo del ritorno di tutti i profughi. Le dimostrazioni,
le petizioni e le dichiarazioni politiche dei palestinesi fanno frequente riferimento
al ritorno «a Jaffa e ad Haifa». Al che gli israeliani rispondono con frasi fatte, ester-
nando preoccupazioni esagerate: «Ciò significherebbe distruggere il nostro paese».
Questo simbolismo si riferisce tuttavia a una caso particolare e a un piccolo nume-
ro di profughi. Ma anche in questo caso, a un più attento esame si ricava un qua-
dro più realistico.
Innanzi tutto, bisogna riconoscere che nelle città del Gruppo 1, esclusa Geru-
salemme (Ovest), vivono oggi 85.500 palestinesi su un totale di 173.400 residenti
in tutte le altre 14 città dove sono prevalenti. (La nostra ricerca riguarda tutti i terri-
tori occupati da Israele nel 1948 delimitati dalla linea interna stabilita dagli accordi
di armistizio del 1949, che include la parte occidentale di Gerusalemme dove oggi
non vive alcun palestinese).
San Giovanni d’Acri e Haifa (figura 19) sono notoriamente contraddistinte da
una convivenza relativamente pacifica fra ebrei e palestinesi. Questi ultimi vivono
nella città vecchia che i rimpatriati potrebbero espandere verso la costa, sempre
nella sua area. La popolazione palestinese di Haifa costituisce un elemento attivo
nella sua vita sociale. E risiede ancora in forti concentrazioni nel centro storico, so-
prattutto a Wādı̄ Nasnās, Abbās, sul Carmelo e nella città vecchia. Ma nella sua più
vasta area metropolitana esistono ancor ampi spazi vuoti a sud e a est, sufficienti
ad ospitare i nuovi arrivati.
Lidda e Ramla (figura 20), un tempo città gemelle orgogliose, ricche e vivaci,
sono oggi ridotte in uno stato pietoso di decadenza, urbana – a causa di una cattiva
amministrazione poco efficiente e prevenuta – e morale: la città è diventata un cen-
tro di traffico di droga. I suoi residenti palestinesi versano in condizioni di povertà 93
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

e di disgregazione sociale. E i nuovi immigrati ebrei spediti qui, se ne vanno non


appena conoscono meglio il paese. Per loro, si tratta solo di ma’abarot, luoghi di
transito. Il ritorno dei profughi potrebbe ridare lustro e dinamismo a questi centri
urbani, soprattutto col rientro di famose famiglie di commercianti, scrittori e artisti.
Come vediamo nella figura 26, la fusione di queste due città gemelle è inevita-
bile. Una loro espansione per far posto ai profughi è senz’altro possibile. Oltre alla
fiorente agricoltura, la loro posizione, al centro di nodi ferroviari e stradali, sarà un
fattore di ricchezza per queste aree urbane fatiscenti grazie alle nuove energie im-
prenditoriali infuse dai rimpatriati.
Il ritorno a Jaffa (figura 21) rappresenta un problema difficile, ma non irrisolvi-
bile. Questo perché la città è circondata da ogni lato da forti concentrazioni di po-
polazione ebraica, che le lasciano spazio solo verso il mare. Gli insediamenti meri-
dionali di Bat Yam e Holon hanno soffocato la cintura rurale della città, riducendo-
ne la capacità di espansione. Nonostante la presenza ancora consistente di palesti-
nesi ad ’Ajamı̄, nella zona orientale di Jaffa sono stati impiantati nuovi aranceti, che
si estendono da Sakinat Abū Kabı̄r a Sakinat Darwı̄sh fino al «Villaggio arabo» a sud.
Questi sobborghi, chiamati ora Jaffa centrale, Jaffa alef, dalet, gimel hanno una po-
polazione molto mista. Costruendo alti palazzi, come nei dintorni di Tel Aviv, si
possono accogliere 100 mila famiglie su appena 3 km2. Ciò richiede, tuttavia, non
solo una buona pianificazione urbana, ma anche buoni rapporti di vicinato.
Gerusalemme resta, e sarà sempre, un caso speciale. Quasi tutto il suo territo-
rio (urbano e rurale) è edificato. Il problema di questa città dovrebbe essere tratta-
to a parte.

Il ritorno dei profughi urbani non registrati (Gruppo 1)


Quest’ultima fase di rimpatrio riguarda 900 mila fuoriusciti non registrati di sei
grandi città palestinesi, che oggi occupano importanti posizioni nel mondo politi-
co e finanziario ad Amman, Beirut, nei paesi del Golfo, a Londra e a Washington.
Sono gli elementi più mobili, ricchi e prestigiosi della comunità dei loro connazio-
nali. Ma diversamente dal 1948, la loro influenza politica sugli affari palestinesi og-
gi è minima. Il loro ritorno, in termini abitativi, porrebbe gli stessi problemi di
quelli dei profughi urbani registrati, sebbene essi possiedano più proprietà. La
grandezza dei loro patrimoni, insieme all’esperienza e ai contatti che hanno nel
mondo degli affari darà nuovo impulso alla vita economica delle città nelle quali
rientreranno.

La restituzione delle proprietà fondiarie dei villaggi e delle città


Come abbiamo visto, la maggior parte delle terre intorno ai villaggi sono spo-
polate e i profughi potrebbero rimpatriare senza difficoltà. Solo 57 villaggi, su 531
città e centri rurali, pongono qualche problema a causa dell’espansione urbana
94 ebraica. La popolazione attualmente esiliata di questi villaggi assomma a 414 mila
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA

persone, ovvero il 10% di tutti i profughi registrati. Ciò significa che un buon 90%
dei profughi può rientrare senza difficoltà.
Ma il quadro è ancor migliore di questo. I problemi sono infatti circoscritti ai
villaggi compresi nella Zona A, ad alta intensità ebraica e ai centri interamente rie-
dificati. Ciò vale solo per 24 villaggi, ovvero il 5% del totale. La loro attuale popola-
zione è composta da 160 mila abitanti, ossia da una piccola minoranza del 4% di
tutti i profughi registrati (il 3% della totalità dei fuoriusciti).
Il più ampio numero di villaggi che presentano problemi è concentrato ovvia-
mente nella zona di Tel Aviv, che comprende i centri di Salāma, Sarūna, Sumayl
(Mas’ūdiya), Jarı̄sha, Jamması̄n Gharbı̄ e Sharqı̄, Yāzūr, Bayt Dajan e Shaykh Muan-
nis su cui sorge l’università di quest’area metropolitana. Ve ne sono poi altri nei
pressi di Gerusalemme: Lifta, Dayr Yāsı̄n e Malı̄ha (sulla cui area sorge il famoso
insediamento di Gilo). Tutte le proprietà palestinesi occupate da ebrei nelle altre
città non presentano grandi problemi.
In tutti questi casi, nei centri urbani e rurali in questione, la proprietà viene
trasferita dall’Ila (Israel Land Authority) al Plc (Palestinian Land Council), che a sua
volta la affida a fiduciari competenti. Questi poi estendono il contratto d’affitto esi-
stente degli occupanti ebrei, se lo desiderano, per un periodo variabile a seconda
delle esigenze familiari dei proprietari, ma non inferiore di tre anni. Il proprietario
può decidere nel frattempo di costruire una casa in un altro luogo, fino a che non
potrà disporre del suo immobile, beneficiando di fondi derivanti dalla compensa-
zione dovuta, compreso il reddito dell’immobile in questione negli ultimi 53 anni
in conformità alle risoluzioni dell’Onu.
Per tutti gli altri villaggi (il 90%) la procedura è più semplice e rapida. I profu-
ghi prendono direttamente possesso della loro terra, a meno che alcuni non scel-
gano di prorogare il contratto d’affitto di parte di essa per usi agricoli. I problemi
posti da queste transazioni sono minimi, visti i motivi sopra menzionati riguardo
alle attività agricole dei kibbutz.

La costruzione delle case


Le 7 fasi sopra delineate tendono a distinguere le categorie di profughi fra
quelli registrati e non registrati, quelli provenienti da centri urbani o rurali, nonché
in base al loro luogo di residenza attuale. Queste fasi non implicano una sequenza
temporale. Volendo stabilire una tabella di marcia, possiamo assumere i seguenti
parametri per la costruzione di alloggi da sostituire a quelli demoliti nei villaggi:
numero di profughi: 330.000;
unità abitative richieste: 66.000;
area edificabile, in m2: 10 milioni;
numero di mesi concesso: 12;
lavoratori richiesti: 82.500;
popolazione media dei villaggi: 5.000;
numero medio di villaggi: 66. 95
COSÌ I PROFUGHI POTRANNO TORNARE NELLE LORO TERRE

Basandoci su questo schema di riferimento, i lavori di ricostruzione per i pro-


fughi registrati della Siria e del Libano (Fase 1), richiederanno più di un anno e
mezzo; un anno per i profughi rurali della Cisgiordania (Fase 3); un anno e mezzo
per i profughi urbani, registrati e non (G2) + quelli urbani non registrati (Fase 5);
due anni per i profughi urbani registrati (G1) (Fase 6), per un totale di 6 anni.
Contemporaneamente, altri lavori potranno essere avviati per i profughi rurali
registrati di Gaza (Fase 2), con una durata prevista di due anni, e a seguire, per
quelli della Giordania (Fase 4), con una durata prevista di tre anni e mezzo.
Quanto al rimpatrio dei profughi urbani non registrati del Gruppo 1, i lavori
potrebbero iniziare una volta conclusi quelli per i due gruppi precedenti. Il perio-
do complessivo richiesto è di otto anni. Tenuto conto di eventuali ostacoli impre-
vedibili, l’intero processo potrebbe richiedere una decina d’anni, per ricostruire
tutte le case o restaurarle, qualora fosse necessario.
Questa è ovviamente una stima approssimativa. I tempi previsti potrebbero
essere più brevi poiché solo gli abitanti dei villaggi hanno necessità di nuove co-
struzioni. Ma potrebbero essere anche più lunghi, tenendo conto della naturale
crescita demografica (circa 1,5 milioni di persone) durante i dieci anni trascorsi dal
momento del rimpatrio.
Questi due processi di ricostruzione richiederanno l’apporto di 165 mila lavo-
ratori edili per dieci anni. È possibile reperire questa manodopera? Attualmente, la
forza lavoro nei Territori palestinesi occupati (Cisgiordania e Gaza) è pari quasi al
20% della popolazione, compresi i disoccupati. Siamo ben al di sotto del livello di
disponibilità potenziale di manodopera del 37,8%. Ma anche partendo da questa
percentuale più bassa e tenendo conto che gli edili rappresentano il 25% della for-
za lavoro, la manodopera attualmente disponibile per il settore delle costruzioni
fra la popolazione dei profughi è pari a circa 250 mila unità. Nel 1998, gli edili nei
Territori occupati (sommando profughi e non) erano 142 mila di cui 70 mila lavo-
rano regolarmente in Israele. Il rimpatrio non comporterà pertanto carenza di ma-
nodopera.
Il costo globale delle opere di costruzione e delle infrastrutture per il completo
rientro dei profughi è dell’ordine dei 45 miliardi di dollari in dieci anni. E può esse-
re coperto dal pacchetto di compensazione complessiva che Israele dovrà pagare
ai rifugiati dopo 53 anni di sofferenze, sfruttamento, distruzione delle loro pro-
prietà e crimini di guerra, in conformità alla risoluzione 194 e al diritto internazio-
nale. Un aiuto finanziario potrà essere fornito anche dagli Stati Uniti e dall’Europa.

(traduzione di Mario Baccianini)

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