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COSÌ I PROFUGHI
POTRANNO TORNARE
NELLE LORO TERRE di Salmān H. ABŪ-SITTA
menti sono falsi e infondati. Secondariamente, anche se fossero veri, non indeboli-
rebbero il diritto dei profughi al ritorno, che resta inalienabile, nonostante la guer-
ra, la rovina delle loro case, l’insediamento di immigrati stranieri, l’esistenza di un
regime esclusivo di apartheid in Israele.
Dopo aver permesso che la guerra, la coercizione e i complotti politici seguis-
sero inutilmente il loro corso, non è forse tempo di ritornare ai princìpi fondamen-
tali del diritto e della giustizia dando loro una possibilità di prevalere? Il piano che
illustreremo tende proprio a questo. Dimostra, in primo luogo, che gli argomenti
israeliani contro il ritorno dei profughi sono privi di base o inaccettabili, e, secon-
dariamente, che questo è invece possibile e realizzabile. Ed è, soprattutto, l’unico
modo di assicurare una pace duratura.
perare alcuni beni o lavorare la terra e allevare il bestiame. Vennero ammazzati sul
posto come «infiltrati». Centinaia di casi del genere vennero riportati dagli osserva-
tori dell’Onu inviati a sorvegliare la tregua.
Subito dopo gli assalti militari vennero compiuti saccheggi, soprattutto in città
quali Haifa, Jaffa, Lidda (Lōd) e Gerusalemme, ad opera degli abitanti dei kibbutz
vicini, di comandanti di brigata dell’esercito israeliano e di alti esponenti del Partito
laburista (Mapai) al potere. Seguì una massiccia campagna di devastazioni, che
durò per più di quindici anni, durante la quale il 53% dei 418 villaggi presi di mira
venne interamente distrutto e il 44,5% solo in parte, col chiaro obiettivo di impedi-
re il ritorno dei profughi.
Poco dopo la proclamazione dello Stato di Israele, il 14 maggio 1948, e in se-
guito alla protesta del mediatore dell’Onu, il conte Folke Bernadotte – che assistet-
te, nel giugno dello stesso anno, all’espulsione di circa 500 mila profughi – il go-
verno provvisorio di Israele stabilì che non poteva acconsentire al ritorno di alcun
profugo fino a quando non fosse stato firmato un trattato di pace, col pretesto che
gli espulsi sarebbero stati una «minaccia per la sicurezza». Ma anche dopo la fine
dei combattimenti, Israele rifiutò di accogliere i profughi, e ha continuato a mante-
nere questa posizione in campo internazionale fino ad oggi, nonostante la sua am-
missione all’Onu nel maggio del 1949 costituisse un caso unico giacché è il solo
membro di questa organizzazione il cui ingresso sia stato approvato a «condizione»
di accettare questo ritorno (risoluzione 194) e di ritirarsi entro le linee tracciate dal
Piano di spartizione della Palestina (risoluzione 181).
Prima, durante e dopo la guerra del 1948, i sionisti israeliani ricorsero a molti
stratagemmi pseudolegali per organizzare e giustificare la confisca di 18.700 km2
di terra palestinese (il 92% di Israele), oltre alle aree acquisite in 530 città e villaggi
spopolati. Queste terre vennero affidate in custodia a un’amministrazione giudizia-
ria in assenza dei proprietari (cioè i profughi) e trasferite poi alla Development
Authority. Ed oggi, insieme alle proprietà del Jewish National Fund, sono gestite
dalla Israel Land Administration (Ila). Secondo il governo ebraico, il proprietario
«assente» è un profugo palestinese al quale non è consentito il ritorno in Israele. Il
termine vale anche per i palestinesi con cittadinanza israeliana, che non sono «as-
senti», e sono pertanto definiti «presenti assenti»; con la conseguenza che anche
molte delle loro terre sono state confiscate.
Subito dopo l’invasione dei villaggi palestinesi, Israele attuò il suo programma
di inviare agenti del Mossad per riportare in patria ebrei residenti in paesi arabi,
persuadendoli con un misto di allettanti promesse e di incentivi, e, in caso di resi-
stenza, con varie forme di coercizione, compreso il lancio di bombe a mano con-
tro le loro case. Fra il 1949 e il 1952 rientrarono così 700 mila ebrei, molti dei quali
malcontenti per il trattamento discriminatorio ricevuto dalla comunità askenazita
predominante, verso la quale nutrono ancor oggi un forte risentimento.
Tutte queste operazioni avevano lo scopo di impedire il ritorno dei profughi
palestinesi alle loro case. Ma più Israele riusciva in questo intento, più i profughi
sviluppavano la determinazione di rimpatriare. Spesso potevano vedere le loro ca- 77
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se attraverso il filo spinato della linea di armistizio; ed ancor oggi molti risiedono a
un paio d’ore d’autobus di distanza dalle loro vecchie abitazioni. Dopo la loro
espulsione in seguito alla Catastrofe del 1948, il problema per Israele divenne così
quello di come sbarazzarsi dei profughi, ovunque vivessero in esilio.
La guerra in Palestina: dal 15 maggio alla prima tregua dell’11 giugno 1948 (fi-
gura 3). Contrariamente ai miti creati dagli israeliani, l’esercito sionista superava in
larga misura le forze regolari arabe in questo periodo, parte delle quali entrarono
in Palestina senza un adeguato coordinamento né un comando unificato, il che ac-
centuò ancor più la superiorità bellica degli israeliani. Le forze arabe non riusciro-
no a riconquistare i villaggi occupati e persero il controllo di altri 90. Quando fu di-
chiarata la prima tregua, il numero dei profughi era già salito a 500 mila.
La guerra in Palestina: dal 12 giugno al 18 luglio 1948 (figura 4). Le forze
israeliane si sentirono rimbaldanzite quando vennero spalleggiate da altri veterani
della seconda guerra mondiale e allorché ricevettero materiale bellico, durante la
prima tregua, fino a sopravanzare quelle arabe per numero ed armamenti. La tre-
gua venne rotta l’8 luglio con l’occupazione di due grandi centri: Lidda e Ramla, la
cui popolazione (70 mila abitanti) fu espulsa su espresso ordine di Yitzhak Rabin.
Vennero occupati anche un corridoio per Gerusalemme, parti della Galilea, com-
presa la città storica di Nazareth, e una sacca a sud di Haifa che fino a quel mo-
mento era rimasta una città palestinese.
A quel punto, gli israeliani avevano ormai acquisito salde posizioni. Il passo
successivo doveva essere quello di consolidarle ed espandersi per conquistare più
territorio possibile.
Il numero dei profughi salì a 630 mila (l’80% cento del totale). Erano stati
espulsi da 378 città e villaggi. In quel momento Israele occupava il triplo di territo-
rio arabo rispetto a quanto ne disponeva durante il mandato britannico. Era la par-
te più fertile e più popolata della Palestina. Ciò dissipa il mito israeliano secondo il
quale il piccolo Davide stava lottando per la sua sopravvivenza contro il massacro
perpetrato dal gigante Golia arabo. La falsità di questa pretesa era del resto già no-
ta ai diplomatici inglesi e americani fin dai primi di gennaio del 1948.
La guerra in Palestina: dal 19 luglio al 24 ottobre 1948 (figura 5). Dopo una
lunga tregua, Ben Gurion programmò l’occupazione della Galilea, in prevalenza
araba (non assegnata agli ebrei nel Piano di spartizione), e della parte meridionale
della Palestina, interamente araba. Il 15 ottobre, gli israeliani attaccarono gli egizia-
ni a sud, intorno a ‘Irāq Swaydān e occuparono 7.700 km2 in un sol colpo senza al-
cuna interferenza di altre forze arabe. Abdel Nasser, celebrato in seguito come il
capo della nazione egiziana, rimase intrappolato a Fālūja.
La guerra in Palestina: dal 24 ottobre al 5 novembre 1948 (figura 6). A questo
punto, Ben Gurion volse la sua attenzione verso il Nord della Galilea. Le forze israe-
liane occuparono quel che restava di tale regione avanzando verso il Libano, dove
invasero 13 villaggi. In Galilea, commisero 25 stragi, su 35 ufficialmente registrate,
per scacciare le popolazioni dai loro centri abitati. Molti si rifiutarono di abbando-
narli ed oggi essi costituiscono il nucleo storico dei palestinesi di cittadinanza israe-
liana. Il numero di profughi, espulsi da 443 città e villaggi, salì così a 700 mila.
La guerra in Palestina: dal 5 novembre 1948 al 18 gennaio 1949 (figura 7).
Israele puntò di nuovo a sud, verso il Negev indifeso, occupando le zone a est di
Beer Sheva fino al Mar Morto: un’estensione di 10.000 km2, ovvero la metà della 79
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sua superficie attuale, 7 volte quella precedente il 1948. Ma il suo appetito non era
ancora soddisfatto. Lanciò un attacco a ovest verso Gaza, che divenne il rifugio di
250 mila profughi. Le forze ebraiche vennero però respinte. Se avessero prevalso,
vi sarebbe stato un altro orribile massacro e la Striscia di Gaza non sarebbe più esi-
stita. L’Egitto firmò l’armistizio il 24 febbraio 1949.
La guerra in Palestina: dal 19 gennaio al 29 luglio 1949 (figura 8). Subito dopo
la firma dell’armistizio con l’Egitto, Rabin procedette verso sud e occupò la parte
restante del Negev fino al Golfo di al-’Aqaba, piantando la bandiera israeliana a
Umm Rashrash (oggi Eilat). La superficie del territorio conquistato si estese così a
19.600 km2, 13 volte quella del territorio ebraico. Sotto la minaccia di un attacco
israeliano alla Cisgiordania e alla Transgiordania e con la Legione araba (giordana)
al comando di ufficiali inglesi e senza munizioni, re ’Abdullah cedette a Israele 436
km2 di terra molto fertile e popolosa nella zona di ’Arā Wādı̄ nella Palestina centra-
le. Questa è oggi un’altra enclave palestinese in Israele, che ha come città principa-
le Umm al-Fahm. Poco tempo dopo, anche il Libano, e da ultima la Siria, firmaro-
no un armistizio con Israele, ma con intese «temporanee» in attesa di un definitivo
accordo di pace. Come recitano le sue clausole, esse non conferiscono alcun dirit-
to a nessuna delle parti né le privano dei loro diritti. In conformità agli accordi di
pace, Israele trasformò in «confini» con l’Egitto e la Giordania la linea di armistizio
del 1949, che lo separa oggi in Palestina dalla Cisgiordania e da Gaza, ed è stata
impropriamente definita Linea Verde dal governo ebraico per toglierle la sua con-
notazione giuridica e fattuale.
Così si chiuse il capitolo dell’al-Nakba. Più di 800 mila palestinesi vennero
espulsi da 531 città e villaggi, in aggiunta ad altri 130 mila scacciati da borghi più
piccoli, portando il totale a 935 mila profughi.
Gli ebrei, detentori di dubbie proprietà non superiori complessivamente a
1.682 km2, occupavano in quel momento una superficie di 20.323 km2, che chia-
marono Israele. Ciò significa che il 92% del loro territorio era palestinese. Sotto tut-
ti i punti di vista, questa è la più ampia e organizzata operazione di pulizia etnica,
ancora in corso, della storia moderna. Non si può comprendere il problema dei
profughi, né tanto meno intravedere soluzioni, senza esaminare la sequenza grafi-
ca dettagliata della loro progressiva espropriazione ed espulsione. Questa è la cru-
da anatomia della catastrofe.
I piani di reinsediamento
Come abbiamo visto, dopo aver scacciato i palestinesi e confiscato le loro ter-
re, Israele concentrò i suoi sforzi per sbarazzarsi dei profughi stessi. Attualmente,
l’88% di costoro vive in Palestina e nelle vicinanze; il 46% entro i confini del man-
dato britannico, il 42% in Giordania, Siria e Libano, nel raggio di 100 miglia dalla
loro terra d’origine. Solo il 12% risiede più lontano, diviso in parti eguali fra paesi
arabi e altre nazioni. Il loro numero complessivo, secondo le statistiche del 1998, è
80 pari a 4,9 milioni, di cui solo 3,6 milioni sono registrati dall’Unrwa (United Nations
GUERRA SANTA IN TERRA SANTA
Relief and Works Agency), l’organismo ufficiale creato per assistere i rifugiati. Più
di due terzi dei palestinesi sono profughi! Non vi è alcun altro popolo al mondo
con tanti suoi membri costretti all’esilio.
La vicinanza alle loro case e il desiderio incoercibile di farvi ritorno spiega i
febbrili tentativi di Israele di accogliere il maggior numero possibile di immigrati
ebrei da luoghi così diversi come l’Etiopia e la Russia, solo per riempire le zone
spopolate della Palestina. Vi sono d’altra parte decine di piani (se non centinaia te-
nuto conto di piccole varianti) per reinsediare i profughi palestinesi in qualsiasi
parte del mondo tranne nelle loro case d’un tempo. Tutti di ispirazione israeliana,
si basano su una o più delle seguenti premesse: che i palestinesi non sono un «po-
polo» distinto, che potrebbero pertanto vivere ovunque, senza diritti riconosciuti al
ritorno, considerato peraltro fisicamente impossibile e pericoloso poiché minacce-
rebbe il «carattere ebraico» dello Stato di Israele.
L’ultima versione di questi progetti è quella proposta da Donna Artz. Sebbene
formulata con scrupolo umanitario, essa prevede essenzialmente una continuazio-
ne del piano di pulizia etnica attuato da Ben Gurion e Ariel Sharon, ovverosia il
trasferimento di un milione e mezzo di profughi in varie parti del mondo e l’esilio
forzato di altri milioni secondo un disegno basato sulle minacce, la coercizione e la
corruzione.
Altri piani prevedono il ritorno degli esuli non già alle loro case, bensì in un
nuovo Stato palestinese con un territorio e una sovranità ancora avvolti nel miste-
ro. E propongono persino «scambi di territori», quali ad esempio le aree popolate
da palestinesi o i deserti all’interno di Israele usati come discariche chimiche, con-
tro importanti aree della Cisgiordania, occupate da coloni, da annettere ad Israe-
le. Si confonde così la questione della sovranità, che vale per un territorio il cui
Stato può emanare leggi che gli consentono di ammettere cittadini, con quella del
ritorno alle proprie case da parte di profughi scacciati, che è invece un diritto ina-
lienabile. Fra i due problemi non vi è alcun rapporto. Il profugo rimane tale fin-
ché non rientra in patria. Ciò è stato detto chiaramente nel memorandum esplica-
tivo della risoluzione 194. Cambiare l’indirizzo del campo in cui è internato non è
una soluzione né gli restituisce il suo diritto. Un rifugiato dovrebbe tornare a casa
propria, indipendentemente dalla sovranità politica del territorio in cui questa si
trova.
Tutti i piani di questo tipo sono falliti. Diviene perciò sempre più necessario
ricercare soluzioni decisive e innovative, che tuttavia non potranno mai essere per-
manenti se non si basano sulla giustizia. Innanzitutto, dobbiamo infrangere il tabù
israeliano secondo cui il diritto al ritorno è impossibile, vagliando e contestando
gli argomenti contrari messi in campo.
La questione demografica
Spesso si sostiene che non vi è spazio in Israele per il ritorno dei profughi. An-
che se fosse vero, ciò non escluderebbe il diritto fondamentale al rimpatrio. Ma in 81
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realtà questa pretesa è falsa. Le ricerche finora condotte al riguardo possono essere
riassunte come segue.
È possibile dividere le 46 regioni naturali di Israele in 3 gruppi (vedi carta).
Il gruppo A, con una superficie di 1.628 km2, ha una popolazione ebraica di
poco più di 3 milioni di abitanti (il 67% di quella complessiva). Quest’area corri-
sponde, grosso modo, a quella acquisita dagli ebrei nel periodo del mandato bri-
tannico. Molti insediamenti ebraici, dopo la creazione dello Stato di Israele, erano
concentrati nel suo perimetro.
Il gruppo B, un’area di 1.508 km2, ha un’estensione quasi pari alla prima, ma
con una diversa localizzazione dei territori in possesso dei palestinesi rimasti in
Israele dopo la guerra del 1948. (A partire da allora, lo Stato ebraico ha confiscato
due terzi delle proprietà fondiarie dei suoi cittadini palestinesi). All’interno di que-
st’area risiedono 436 mila ebrei, ovvero il 9,6% di tutti quelli che vivono in Israele,
accanto a 92 mila palestinesi con cittadinanza israeliana. Il 77% degli ebrei è con-
centrato pertanto nel 15% del territorio di Israele.
Il gruppo C, che copre una superficie di 17.381 km2, si ritrova così distribuito
su due ampie estensioni, corrispondenti grosso modo ai distretti settentrionale e
meridionale con riferimento alle divisioni amministrative della Palestina e di Israe-
le. Questo è il territorio e il retaggio di circa 5 milioni di profughi, scacciati dalle lo-
ro case nel 1948, e dei loro discendenti. Nel gruppo C vive circa un milione di
ebrei, l’80% dei quali risiede però in città originariamente palestinesi ed ora miste,
o in numerosi piccoli «centri di sviluppo», largamente popolati da ebrei sefarditi, o
orientali (e più di recente russi), in condizioni generali di povertà, con i più alti tas-
si di disoccupazione e i più bassi livelli di reddito in Israele: prova vivente della se-
gregazione etnica e delle discriminazioni politiche esistenti in questo paese.
Abbiamo così 200 mila ebrei insediati in colonie agricole che sfruttano vaste
estensioni appartenenti ai profughi (con il resto del territorio usato per scopi mili-
tari e per il rimboschimento). La maggior parte di questi coloni (160 mila) risiede
nei moshav (cooperative agricole) e nei kibbutz (fattorie collettive). Il kibbutz, un
tempo bandiera del sionismo, sta ora agonizzando. Solo 8.600 kibbutznik vivono
di agricoltura, con l’apporto di decine di migliaia di braccianti thailandesi: un ironi-
co capovolgimento della dottrina sionista, che vieta l’impiego di manodopera non
ebraica (specialmente in Palestina). Così, i diritti di 5 milioni di profughi vengono
conculcati a favore di 8.600 kibbutznik.
A ulteriore illustrazione di questo punto, immaginiamo il seguente scenario:
quando i profughi registrati in Libano (362 mila) torneranno nelle loro terre in Ga-
lilea (ancora in prevalenza araba) e quelli registrati a Gaza (759 mila) rientreranno
nel distretto meridionale (oggi quasi spopolato, con una densità di 6 ebrei per
km2, in confronto ai 5.500 abitanti per km2 di Gaza), ciò avrà scarso effetto sulla
densità demografica ebraica nel gruppo A, e gli ebrei conserveranno una maggio-
ranza numerica in tutti e tre i gruppi.
Il numero di immigrati russi accolti in Israele negli anni Novanta è pari a quel-
82 lo dei profughi del Libano e di Gaza sommati insieme. Se non vi fosse stata quel-
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L’acqua e l’agricoltura
L’acqua può essere una causa di guerra in Medio Oriente. Come è stato am-
piamente rilevato, l’invasione israeliana della Cisgiordania e della Siria nel 1967 era
finalizzata al controllo delle sorgenti del Giordano e dei suoi affluenti e delle falde
acquifere della Cisgiordania. La volontà di Israele di mantenere il controllo di que-
ste risorse idriche è stata una delle ragioni principali del suo rifiuto di firmare un
accordo con Damasco e con i palestinesi. Ciascuna di queste fonti, in Cisgiordania
e lungo la frontiera siriana, equivale ad almeno 500 milioni di metri cubi all’anno
(mm3/a), che in gran parte vanno sprecati, come vedremo.
Le risorse idriche nel territorio palestinese su cui è sorto lo Stato di Israele
nel 1948 sono pari a 350 mm3/a. Un volume accresciuto, prima della conquista
del 1967, con perforazioni sotto la Cisgiordania e, dopo la guerra dei Sei giorni,
grazie al pieno controllo delle risorse idriche siriane e palestinesi, fino a raggiun-
gere 2.020 mm3/a nel 1990, di cui 1.471 provenienti da fonti situate in territorio
arabo.
Come viene usata quest’acqua? Nel 1995, 594 mm3/a venivano impiegati per
uso domestico, 133 per uso industriale e 1.300 per uso agricolo. Come ha dimo-
strato Peter Beaumont, il consumo domestico si mantiene costante su un livello di
100 m3/a/pro capite dalla creazione dello Stato d’Israele ad oggi. È un volume più
alto di quello della Giordania (60 m3/a) e molto più elevato di quello della Cisgior-
dania impoverita (37,5 m3/a), che ha visto sottrarsi il 90% delle sue risorse idriche
da Israele, mentre la sovraffollata Striscia di Gaza ha un forte deficit idrico con ac-
que il cui grado di salinità va pericolosamente crescendo.
Israele ha continuato ad usare in media 1.200-1.400 mm3/a per l’agricoltura. Il
consumo, in gran parte superfluo, di 860 m3/per dunum (10 dunum = 1 ettaro) per
l’irrigazione negli anni Cinquanta è oggi sceso a 600 m3/d. Queste preziose risorse
vengono fornite agli agricoltori, al 70%, al costo di 19 cent/m3, mentre il costo per
l’uso domestico è di 1,0-1,76 dollari/m3. L’utenza domestica sussidia in tal modo
ampiamente gli agricoltori, che producono patate, grano, cotone e cocomeri, tutte
colture che richiedono grandi quantità di acqua.
Dopo l’espulsione dei palestinesi e la confisca delle loro terre nel 1948, l’e-
stensione dei campi irrigui è cresciuta rapidamente, da circa 300 mila dunum all’i-
nizio degli anni Cinquanta a 2 milioni di dunum verso la fine degli anni Settanta:
un incremento dovuto alle aree sottratte dagli israeliani alla popolazione autocto-
na. Negli anni Novanta, questa superficie è scesa a 1,8 milioni di dunum a causa
84 di un generale disinteresse per l’agricoltura. Le aree coltivabili sono aumentate
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complessivamente da 1 milione di dunum nel 1950 a 4,2 milioni nel 1997, con
una flessione rispetto al picco di 4,4 milioni di dunum nel 1990. Recentemente è
stata rivelata la sorprendente notizia che le terre irrigue sono in realtà meno este-
se di quanto dichiarato ufficialmente. Secondo un rapporto dell’autorità statale di
controllo, 865 mila dunum hanno cessato di essere coltivati nel periodo 1988-
1999, pur continuando a ricevere la stessa quantità di acqua destinata all’irrigazio-
ne! Ciò significa che la superficie ufficialmente irrigata in Israele (1.943.000 du-
num) è sovrastimata rispetto a quella reale pari a 1.078.000 dunum ovvero al 55%
di quella dichiarata.
Chi sfrutta questi vasti terreni? Nel 1998 il settore agricolo contava 72.500 ad-
detti, di cui 36.800 ebrei. E di questi, solo 8.600 erano kibbutznik. Queste vaste
estensioni, con le loro ricche risorse idriche, contribuiscono solo nella misura
dell’1,8% al prodotto interno lordo di Israele, che per ottenere questo magro risul-
tato ha dovuto importare 24.300 lavoratori stranieri (per lo più thailandesi) negan-
do ai contadini palestinesi il diritto di coltivare la loro terra. (E l’ironia vuole che al-
cuni palestinesi col permesso di soggiorno in Israele lavorino i loro campi, come
braccianti, a beneficio degli ebrei).
Emergerà ben presto, tuttavia, un problema più serio che potrebbe scatenare
una guerra con ulteriori effetti distruttivi per la regione. Il fabbisogno idrico di
Israele, stimato oggi in 2 milioni di metri cubi (mm3) e coperto per due terzi da ac-
que arabe, è appena soddisfatto dalle risorse a disposizione del paese. Presumen-
do un modesto incremento della sua popolazione, nel 2020 potrebbe salire a 2.427
mm3 all’anno e a 3.335 nel 2050. Col ritorno di tutti i profughi e un minore spreco
(60 metri cubi pro capite, anziché gli attuali 100), il fabbisogno complessivo sareb-
be di 2.803 mcm, con un incremento di appena il 15%.
Il fatto è, però, che qualsiasi quantità eccedente gli attuali 2.000 mm3 dovreb-
be essere reperita altrove. Il trattamento delle acque reflue rinvierebbe solo di po-
co la soluzione del problema. La desalinizzazione è molto onerosa, sia nella fase
iniziale che per i costi di gestione. È appena sopportabile nei paesi del Golfo dove
l’energia è a buon mercato. Il trasporto dell’acqua dalla Turchia via mare richiede
delle cisterne, oggi fabbricate a Isdud, con rischi per la salute dovuti a possibili
contaminazioni.
Senza il ritorno dei profughi, e quindi senza la pace, Israele potrebbe indul-
gere alla tentazione di attaccare di nuovo i paesi arabi, acquisendo risorse idriche
in Libano, in Siria e persino in Giordania. Ma questo sarebbe l’apice della follia.
Se invece, col ritorno dei profughi, la pace prevalesse, è probabile che verrebbe-
ro firmati accordi regionali con i paesi vicini, compreso forse l’Iraq, così da divi-
dere le risorse idriche in base a princìpi di giustizia e di equità. Ed è ipotizzabile,
inoltre, che si possano estendere acquedotti dalla Turchia o dall’Iraq fino alla Si-
ria. Così come è possibile che l’energia richiesta dalla desalinizzazione possa es-
sere trasmessa dai paesi del Golfo. Il ritorno dei profughi, prerequisito necessario
per la fine del conflitto, potrebbe pertanto riportare la pace nella regione e preve-
nire la guerra. 85
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Escluso, ovviamente, qualsiasi altro fattore d’interferenza. Entro quella data, il nu-
mero totale di profughi sarà pari all’attuale consistenza demografica dell’Egitto,
con i suoi 61 milioni di abitanti.
La fallacia degli argomenti addotti dagli israeliani, che puntano a mantenere
una maggioranza ebraica, è più che palese. Essi mirano infatti a un obiettivo im-
possibile: conservare un predominio numerico in qualsiasi periodo e in tutti i terri-
tori controllati da Israele. Questo è impossibile, poiché o si ridurrà nel tempo o si
restringerà il territorio su cui può essere mantenuto. Una soluzione migliore per gli
ebrei, se non per tutti, è quella di vivere in pace con la popolazione originaria, non
contro di essa.
blico impiego eccetera. Oggi l’Unrwa conserva 700 mila dossier familiari e circa 4
milioni di dossier individuali, completi di nome e cognome (compresi quelli del
padre, dei nonni e dei familiari), sesso, data di nascita, luogo di origine (villaggi
spopolati), distretto, grado e rapporto di parentela (48 categorie), numero di mem-
bri della famiglia e località in cui è stato trovato rifugio. Queste ultime sono rag-
gruppate in 5 aree in cui l’Unrwa è operante: Striscia di Gaza, Cisgiordania, Gior-
dania, Siria e Libano, e divise in regioni, suddivise a loro volta in centri di distribu-
zione. Ciascun rifugiato ha un proprio numero. Ed è possibile mobilitare la popo-
lazione di qualsiasi villaggio nel giro di una settimana.
Quando gli abitanti di un villaggio venivano espulsi dagli israeliani nel 1948,
lo abbandonavano in massa. Il 72% dei profughi registrati si era concentrato in una
sola delle 5 aree dell’Unrwa e il 20% in altre due aree limitrofe; solo il restante 8%
si era distribuito su più di tre aree. La localizzazione dei profughi non pone dun-
que alcun problema.
Le città
Le fasi precedenti si riferiscono esclusivamente ai profughi rurali registrati.
Le loro zone di provenienza sono ancora in gran parte deserte. Molte case nei
villaggi sono state distrutte dagli israeliani. Secondo una ricerca sul campo con-
dotta nel periodo 1987-1990, su 407 villaggi esaminati, 81 erano completamente
scomparsi, 140 distrutti ma identificati, 17 con molte case demolite e abitati da
una o due famiglie ebraiche e 35 con le case ancora in piedi, abitati da più di
due famiglie ebraiche. 91
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Diversa la situazione nelle città, dove non vi sono state demolizioni su larga
scala, anche se agli abitanti palestinesi rimasti è stato impedito di eseguire ripara-
zioni, vietando loro persino di mettere un vetro o aggiungere una stanza in più per
la famiglia. Le case dei palestinesi sfrattati sono state occupate da immigrati ebrei
ai quali è stato concesso di effettuare tutte le modifiche desiderate.
Le 6 città restanti (Gruppo 1) hanno speciali caratteristiche. Molte si trovano
sulla costa; tutte avevano sempre avuto una popolazione mista, ebraica e palesti-
nese, con la differenza che, prima del 1948, i palestinesi erano la maggioranza e
oggi sono una minoranza. Queste sono: San Giovanni d’Acri, Haifa, Jaffa, Lidda,
Ramla e Gerusalemme. Per quanto riguarda le 14 città del Gruppo 1, non dovreb-
be esservi alcun ostacolo insormontabile al ritorno dei profughi, salvo in due casi:
Jaffa, che si trova nel mezzo di un’alta concentrazione di popolazione ebraica in
Palestina, e Gerusalemme, diversamente ubicata ma estremamente importante dal
punto di vista politico e religioso.
Isdud non pone alcun problema. Può svilupparsi intorno al suo nucleo origi-
nario, delle dimensioni di un grande villaggio. La nuova città israeliana di Ashdōd,
è stata edificata altrove, lungo la costa, dove è stato costruito un grande porto. Al
Majdal può espandersi ovunque, tranne a sud. E anche in questo caso, la nuova
città israeliana di Ashqelōn è stata edificata sulla costa.
È importante osservare che tutte e sei le città in questione sono abitate attual-
mente da ebrei sefarditi, i quali non hanno beneficiato dei favori concessi all’élite
dominante askenazita. Soffrono di un trattamento discriminatorio e sono economi-
camente impoverite, anche se in minor misura nel caso di Isdud, grazie alla sua at-
tività portuale, e di Beer Sheva, la cui università fornisce ampia occupazione.
Col venir meno delle politiche razziste e dell’istigazione sionista all’odio con-
tro gli arabi, i profughi palestinesi potrebbero vivere in armonia con gli attuali abi-
tanti ebrei, per lo più orientali, ovvero provenienti da paesi arabi e islamici.
persone, ovvero il 10% di tutti i profughi registrati. Ciò significa che un buon 90%
dei profughi può rientrare senza difficoltà.
Ma il quadro è ancor migliore di questo. I problemi sono infatti circoscritti ai
villaggi compresi nella Zona A, ad alta intensità ebraica e ai centri interamente rie-
dificati. Ciò vale solo per 24 villaggi, ovvero il 5% del totale. La loro attuale popola-
zione è composta da 160 mila abitanti, ossia da una piccola minoranza del 4% di
tutti i profughi registrati (il 3% della totalità dei fuoriusciti).
Il più ampio numero di villaggi che presentano problemi è concentrato ovvia-
mente nella zona di Tel Aviv, che comprende i centri di Salāma, Sarūna, Sumayl
(Mas’ūdiya), Jarı̄sha, Jamması̄n Gharbı̄ e Sharqı̄, Yāzūr, Bayt Dajan e Shaykh Muan-
nis su cui sorge l’università di quest’area metropolitana. Ve ne sono poi altri nei
pressi di Gerusalemme: Lifta, Dayr Yāsı̄n e Malı̄ha (sulla cui area sorge il famoso
insediamento di Gilo). Tutte le proprietà palestinesi occupate da ebrei nelle altre
città non presentano grandi problemi.
In tutti questi casi, nei centri urbani e rurali in questione, la proprietà viene
trasferita dall’Ila (Israel Land Authority) al Plc (Palestinian Land Council), che a sua
volta la affida a fiduciari competenti. Questi poi estendono il contratto d’affitto esi-
stente degli occupanti ebrei, se lo desiderano, per un periodo variabile a seconda
delle esigenze familiari dei proprietari, ma non inferiore di tre anni. Il proprietario
può decidere nel frattempo di costruire una casa in un altro luogo, fino a che non
potrà disporre del suo immobile, beneficiando di fondi derivanti dalla compensa-
zione dovuta, compreso il reddito dell’immobile in questione negli ultimi 53 anni
in conformità alle risoluzioni dell’Onu.
Per tutti gli altri villaggi (il 90%) la procedura è più semplice e rapida. I profu-
ghi prendono direttamente possesso della loro terra, a meno che alcuni non scel-
gano di prorogare il contratto d’affitto di parte di essa per usi agricoli. I problemi
posti da queste transazioni sono minimi, visti i motivi sopra menzionati riguardo
alle attività agricole dei kibbutz.
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