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Università di Padova – Facoltà di Scienze Politiche

Corso di Tutela Internazionale dei diritti Umani


Anno Accademico 2005-2006

Il sistema di garanzia
dei diritti umani
dei lavoratori migranti

Daniele Danese
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Il fenomeno migratorio sta assumendo una rilevanza sempre più importante nella società globale
odierna; benché le sue radici appartengano ai secoli passati, il XXI secolo ha posto i paesi del
mondo di fronte ad un’evoluzione particolarmente nuova del fenomeno stesso. L’enorme gap
economico e sociale che ancora divide il nord dal sud del mondo, unito al fenomeno della
globalizzazione, dell’”annullamento” delle distanze, dello sviluppo delle comunicazioni e delle
maggiori possibilità di spostamento, sta spingendo un numero in crescita di persone a lasciare
aree del mondo impoverite e schiacciate da pesanti difficoltà e problemi per tentare di
raggiungere le terre dei paesi più ricchi, magari solo sognate, ma anche, sempre più spesso, viste
alla televisione o attraverso i media sempre più capillarmente presenti sulla superficie del
pianeta. Così, paesi, tra cui anche l’Italia, si trovano a fare i conti con enormi masse di gente che
“bussano” alle porte in cerca di quel benessere che poi magari non si trova; l’Europa stessa
rappresenta il continente del benessere, così come gli Stati Uniti d’America rimangono ancora il
paese della salvezza per moltissimi emigranti del sud America o del sud est Asiatico in cerca di
lavoro, capaci di mettere seriamente a repentaglio la propria vita per riuscire nell’impresa (vedi
la triste situazione degli emigranti messicani che tentano di attraversare il confine meridionale
Americano, nonché il muro che proprio lì gli Stati Uniti hanno costruito, oppure la pericolosa
traversata dello stretto di Gibilterra che molti africani tentano dalle località di Ceuta e Melilla
nella speranza di raggiungere la così vicina Europa).
La pressione esercitata da questo fenomeno sui quei paesi che più di altri sono chiamati a
rispondervi, costringe la politica interna degli stati e quella internazionale e transnazionale
necessariamente assieme, tenuto conto della forte interdipendenza economica, politica e sociale
ormai affermata a livello globale, a muoversi velocemente e con efficacia per non lasciare in
balia del caos, della sregolatezza, ma soprattutto della violazione dei diritti umani, questa
manifestazione della volontà dell’uomo di vivere una vita “almeno dignitosa”.
In sé il fenomeno migratorio non si traduce immediatamente come “problema”; di fatto però la
difficoltà odierna di gestirlo conduce facilmente ad inquadrarlo come uno degli ambiti
fondamentali sui cui programmare piani politici e relazioni con stati confinanti e stipulare trattati
internazionali multilaterali o bilaterali, non sempre tuttavia con la dovuta accortezza e
rifacendosi ai più importanti punti di riferimento (in primis i diritti umani).
L’ambito lavorativo entra in gioco in maniera determinante allorché la possibilità per i migranti
di entrare a far parte di società più ricche viene vincolata alle possibilità lavorative che il paese
stesso può offrire o, di fatto molte volte, alla capacità di queste persone di trovare un impiego
tramite il quale inserirsi nelle “maglie” del mercato del lavoro, nel tentativo di ottenere con il
passare del tempo il riconoscimento della cittadinanza (non dappertutto tuttavia). E’ proprio il
tema del diritto alla cittadinanza ad aprire il dibattito più grande in seno al problema del
riconoscimento e della garanzia dei diritti umani dei lavoratori migranti. Quali diritti vanno
garantiti a chi non è cittadino ma risiede come straniero nel paese? Di quali garanzie gode come
immigrato (regolare o non regolare, la differenza come si vedrà è notevole), come lavoratore,
come persona umana? Quali diritti poi devono essere garantiti alla sua famiglia? Chi giudica sul
rispetto, da parte dello stato, di tali diritti dell’immigrato? Quali misure esistono per spingere i
paesi a rispettarli? Quale controllo? Quali mezzi di sanzione per i trasgressori?
Questo breve elaborato mira ad analizzare le fonti e gli strumenti internazionali adibiti alla tutela
dei diritti umani dei lavorati migranti e a cogliere lo stato in cui si trova il processo di
codificazione, affermazione e riconoscimento da parte degli stati di tali diritti.

Le fonti
Ancora prima di analizzare i diritti dei migranti come lavoratori, ritengo sia necessario
soffermare l’attenzione su principi generali del diritto, su diritti fondamentali della persona,

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partendo dalla dignità umana e la libertà, sino al diritto alla non discriminazione e alla pari
opportunità.
Documento fondamentale da cui partire, quindi, si individua nella Dichiarazione Universale dei
diritti umani del 1948, nella quale si affermano, tra gli altri, i seguenti importanti principi:

Articolo 1
Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di
ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 2
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente
Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua,
di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di
ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o
internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o
territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o
soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.

Articolo 13
1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni
Stato.
2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare
nel proprio Paese.

Articolo 28
Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e la
libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati.

Successivamente i diritti enunciati sono stati ripresi e corroborati nei due Patti Internazionali del
1966, documenti di fondamentale importanza per il processo di implementazione e di
codificazione del “materiale giuridico” contenuto dalla Dichiarazione del 1948. I due Covenants
rappresentano i due pilastri giuridici dei diritti umani essendo essi dotati di una struttura formale
e sostanziale robusta e corposa e prevedendo al loro interno meccanismi di garanzia nei confronti
dei diritti proclamati. Tramite questi documenti, e le successive Convenzioni internazionali e i
rispettivi Comitati ad esse preposti (i cosiddetti Treaty-Bodies), si comincia a istituire una vera e
propria machinery internazionale dei diritti umani.
Senza tuttavia uscire dal tema trattato, si possono individuare anche in tali Patti punti interessanti
e significativi per quanto concerne i diritti dei migranti, quali persone innanzitutto e in un
secondo momento quali individui di una particolare “categoria”.
Nel Patto Internazionale sui diritti Civili e Politici si riafferma con forza il diritto alla libertà e
alla sicurezza della persona (art. 9) e il diritto alla libertà di movimento (art. 12): significativi a
questo ultimo proposito, e a riguardo del tema trattato, risultano gli articoli 12 e 13 nei quali si
legge:

Articolo 12
1. Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà
di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio.
2. Ogni individuo è libero di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio.

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3. I suddetti diritti non possono essere sottoposti ad alcuna restrizione, tranne quelle che
siano previste dalla legge, siano necessarie per proteggere la sicurezza nazionale, l’ordine
pubblico, la sanità o la moralità pubbliche, ovvero gli altrui diritti e libertà, e siano
compatibili con gli altri diritti riconosciuti dal presente Patto.
4. Nessuno può essere arbitrariamente privato del diritto di entrare nel proprio paese.

Articolo 13
Uno straniero che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato Parte del presente Patto
non può esserne espulso se non in base a una decisione presa in conformità della legge e,
salvo che vi si oppongano imperiosi motivi di sicurezza nazionale, deve avere la
possibilità di far valere le proprie ragioni contro la sua espulsione, di sottoporre il proprio
caso all’esame dell’autorità competente, o di una o più persone specificamente designate
da detta autorità, e di farsi rappresentare innanzi ad esse a tal fine.

Inoltre, per quanto riguarda il principio di uguaglianza e non discriminazione, il rispetto o


violazione del quale investe in maniera particolare l’immigrato, quale persona più a rischio di
emarginazione o di stigmatizzazione in società diverse da quella del suo stato di origine, il
documento in esame, all’articolo 26, afferma:

Tutti gli individui sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna
discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. A questo riguardo, la legge
deve proibire qualsiasi discriminazione e garantire a tutti gli individui una tutela eguale
ed effettiva contro ogni discriminazione, sia essa fondata sulla razza, il colore, il sesso, la
lingua, la religione, l’opinione politica o qualsiasi altra opinione, l’origine nazionale o
sociale, la condizione economica, la nascita o qualsiasi altra condizione.

Per quanto riguarda invece il Patto Internazionale sui diritti Economici Sociali e Culturali si
possono citare senz’altro gli articoli 6 e 7, nei quali, in maniera più dettagliata e più
specificamente per quanto attiene il tema “lavoro”, si afferma che:

Articolo 6
1) Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto al lavoro, che implica il diritto di
ogni individuo di ottenere la possibilità di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente
scelto od accettato, e prenderanno le misure appropriate per garantire tale diritto.
2) Le misure che ciascuno degli Stati parti del presente Patto dovrà prendere per
assicurare la piena attuazione di tale diritto comprenderanno programmi di orientamento
e formazione tecnica e professionale, nonché l’elaborazione di politiche e di tecniche atte
ad assicurare un costante sviluppo economico, sociale e culturale ed un pieno impiego
produttivo, in condizioni che salvaguardino le fondamentali libertà politiche ed
economiche degli individui.

Articolo 7
Gli Stati parti del presente Patto riconoscono il diritto di ogni individuo di godere di
giuste e favorevoli condizioni di lavoro, le quali garantiscano in particolare:
a) la remunerazione che assicuri a tutti i lavoratori, come minimo:
i) un equo salario ed un’eguale remunerazione per un lavoro di eguale valore, senza
distinzione di alcun genere; in particolare devono essere garantite alle donne condizioni
di lavoro non inferiori a quelle godute dagli uomini, con un’eguale remunerazione per un
eguale lavoro;
ii) un’esistenza decorosa per essi e per le loro famiglie in conformità alle disposizioni del
presente Patto;

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b) la sicurezza e l’igiene del lavoro;
c) la possibilità uguale per tutti di essere promossi, nel rispettivo lavoro, alla categoria
superiore appropriata, senza altra considerazione che non sia quella dell’anzianità di
servizio e delle attitudini personali.
d) il riposo, gli svaghi, una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e le ferie
periodiche retribuite, nonché la remunerazione per i giorni festivi .

Di seguito, inoltre, va sottolineato quanto previsto dall’articolo 8, nel quale si afferma il diritto
alla libertà sindacale e allo sciopero.
Ciò sin qui detto tuttavia non investe in maniera esauriente le molteplici situazioni in cui un
immigrato può trovarsi allorché si inserisca in un’altra società prima come immigrato e subito
dopo, direi necessariamente, come lavoratore. Gli strumenti citati, infatti, creano certamente una
solida base dalla quale partire per discutere dei diritti umani dei lavoratori migranti, ma non
arrivano al “nocciolo della questione”; non sono previste garanzie per i casi più particolari e
neanche un sistema di controllo efficace, ed eventualmente azionabile sulla base dei soli
documenti sin qui trattati (anche se il Patto Internazionale sui diritti Civili e Politici ha previsto il
“suo” Comitato specifico che ne garantisca il rispetto).
Il lavoratore migrante gode, in effetti, come persona nel paese ospitante, dei diritti fondamentali
di cui può godere un cittadino in base al principio di non discriminazione e al valore universale
dei diritti umani, eccezione fatta però per quei diritti legati (ancora) alla cittadinanza nel paese in
cui si vive (vedi diritto di voto), per i quali è richiesto prima, spesso, un periodo di permanenza
prolungato.
Le Nazioni Unite, comunque, non sono rimaste indifferenti al problema e si sono adoperate negli
anni in maniera convinta, in particolare attraverso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro
(ILO), per implementare la materia giuridica a riguardo. Tra gli strumenti internazionali più
importanti vanno citati la Convenzione concernente i lavoratori migranti (n°97), la Convenzione
concernente le migrazioni nelle condizioni abusive e la promozione dell’eguaglianza di
opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti (n°143), le Raccomandazioni concernenti i
lavoratori migranti (n°86 e n°151), la Convenzione concernente il lavoro forzato e obbligatorio
(n°29), la Convenzione concernente l’abolizione del lavoro forzato (n°105) e la più importante
Convenzione Internazionale sulla protezione dei lavoratori migranti e delle loro famiglie adottata
dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 dicembre 1990 ed entrata in vigore nel luglio
del 2003.
Nel sottolineare l’importanza del tema dei diritti dei migranti e di quest’ultimo documento, la
stessa Assemblea Generale nel 2003, nella risoluzione 58/208, ha deciso che nel 2006 si sarebbe
svolto un Dialogo di Alto Livello per discutere sugli aspetti multidimensionali delle migrazioni
internazionali e sullo sviluppo, al fine di individuare le modalità e gli strumenti più appropriati
per la massimizzazione dei vantaggi offerti allo sviluppo dalla migrazione internazionale e il
contenimento delle sue conseguenze negative. L’Assemblea Generale ha avuto modo di
riconoscere che, tra gli altri fattori, l’ampio divario esistente tra molti paesi e la
marginalizzazione di alcuni paesi dal contesto dell’economia globale “hanno contribuito agli
ingenti flussi di persone che si spostano tra gli stati e al loro interno e all’intensificazione del
complesso fenomeno della migrazione internazionale” e che “vi è la necessità di rafforzare la
cooperazione internazionale sui temi riguardanti la migrazione e di intraprendere ulteriori
sforzi … per garantire che i diritti umani e la dignità di tutti i migranti e delle loro famiglie
…siano rispettati e tutelati”.1

Per verificare lo “stato di salute” dei diritti umani dei lavoratori migranti sarà necessario
analizzare con attenzione i principi affermati nella summenzionata Convenzione del 1990, lo
stato delle ratifiche del documento e l’operato del Comitato da esso creato e ad esso preposto.
1
A/RES/58/208

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La Convenzione Internazionale sulla protezione dei lavoratori migranti e delle
loro famiglie
Il documento in analisi, da un punto di vista strutturale, è suddiviso in 9 parti, successive al
preambolo, così titolate:

Parte I
Ambito di applicazione e definizioni
Parte II
Non-discriminazione in materia di diritti
Parte III
Diritti dell’Uomo di tutti i lavoratori migranti e dei membri della loro famiglia
Parte IV
Altri diritti dei lavoratori migranti e dei membri della loro famiglia che sono provvisti di
documenti o in situazione regolare
Parte V
Disposizioni applicabili ad alcune categorie particolari di lavoratori migranti e membri della loro
famiglia
Parte VI
Promozione delle condizioni sane, eque, dignitose e legali per quel che concerne le migrazioni
internazionali dei lavoratori migranti e dei membri della loro famiglia
Parte VII
Applicazione della convenzione
Parte VIII
Disposizioni generali
Parte IX
Disposizioni Finali

L’obiettivo della Convenzione può riassumersi in 5 punti:

• creare un trattato internazionale comprensivo e quanto più esauriente;


• stabilire degli standard che siano applicabili nei singoli stati parte;
• riflettere e rafforzare i principi stabiliti dai precedenti strumenti internazionali dei diritti
umani;
• definire i diritti dei lavoratori migranti prima della partenza, al momento del transito e
nel paese d’impiego;
• stabilire obblighi per gli stati di origine, di transito e di impiego.

Il “basic principle” dell’intero documento è sicuramente il principio di non discriminazione,


affermato all’articolo 7, unico punto della Parte II.
Il “testo” è piuttosto lungo e analizza molto attentamente il tema che vuole trattare; all’articolo 2
(Parte I) si definisce così il lavoratore migrante:

“a person who is to be engaged, is engaged or has been engaged in a remunerated


activity in a State of which he or she is not a national”

Inoltre, sempre all’articolo 2, viene esaminata l’espressione “lavoratori migranti” nelle sue
particolari interpretazioni. In base a ciò che si intende ogni qualvolta si parli di tali persone, si fa
riferimento a differenti condizioni giuridiche e a differenti garanzie di cui esse possono godere
nel paese ospitante. Importante è notare che, secondo quanto affermato nell’articolo 3, la
Convenzione non si applica, in generale e quindi salvo disposizioni della legge interna dello stato
7
o disposizioni internazionali in vigore comunque in quello stato, a rifugiati e apolidi innanzitutto
e ad altre categorie particolari (funzionari e impiegati di organizzazioni internazionali, studenti e
stagisti, ecc). Sin dall’inizio quindi si chiariscono principi di distinzione chiari tra i diversi “tipi”
di individui che possono trovarsi o meno nelle condizioni di godere dei diritti affermati: una di
queste, successiva ai punti citati ma non meno importante (anzi fondamentale per la lettura di
tutto il documento) è esternata dall’articolo 5, nel quale si differenziano i lavoratori migranti
regolari (o provvisti di documento) da quelli irregolari (o sprovvisti di documento). E’
importante capire, a riguardo, se la Convenzione determina anche i parametri con cui procedere
per la distinzione dei due “casi” o se rimanda semplicemente alle legislazioni nazionali.
In generale si possono dividere i diritti affermati per tutti i lavoratori migranti dai diritti di cui
possono godere soltanto quelli regolari (o con documento).
Schematicamente i diritti per i primi sono, tra gli altri:

• Right to life (Art. 9)


• Prohibition of torture or cruel, inhuman or degrading treatment (Art. 10)
• Prohibition of slavery (Art. 11)
• Freedom of thought, conscience & religion (Art. 12)
• Freedom of opinion & expression (Art. 13)
• Right to liberty and security of person (Art. 16)
• Protection from the destruction of IDs and other documents (Art. 21)
• Prohibition of collective expulsion (Art. 22)
• Right to participate in trade unions (Art. 26)
• Right to receive urgent medical care (Art. 28)
• Right of child to a name, to registration of birth, to a nationality, and access to education
(Art. 29, 30)

Per i secondi invece, oltre a quelli precedenti (e comunque tra gli altri):

• Right to form associations and trade unions (Art. 40)


• Right to participate in public affairs and elections of their state of origin (Art. 41)
• Protection of the unity of the families of migrant workers (Art. 44)

In particolare, per quanto riguarda i diritti di tutti i lavoratori migranti, è da sottolineare l’articolo
18, nel quale si afferma:

1. Migrant workers and members of their families shall have the right to equality with
nationals of the State concerned before the courts and tribunals. In the determination of
any criminal charge against them or of their rights and obligations in a suit of law, they
shall be entitled to a fair and public hearing by a competent, independent and impartial
tribunal established by law. […]

Di seguito a questo, poi, si enunciano le garanzie che devono essere fatte valere nei loro
confronti in caso di processo: tra quelle che di norma costituiscono il cosiddetto “habeas corpus”
si segnala il diritto a disporre di un interprete.
Altro punto da segnalare, nella parte riguardante i diritti dei lavoratori migranti con documento, è
l’articolo 42, collegato all’articolo 41, ma di particolare interesse, anche per il dibattito che,
attorno al tema contenutovi, si è aperto, già da qualche anno, nel nostro paese. Esso infatti recita:

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1. Gli Stati parte prevedono l’allestimento di procedure o di istituzioni destinate a
permettere di tenere conto, tanto nello Stato di origine che nello Stato di impiego, di
bisogni, aspirazioni ed obblighi particolari dei lavoratori migranti e i membri della loro
famiglia, e nel caso, la possibilità per i lavoratori migranti e i membri della loro famiglia
di avere loro rappresentanti liberamente scelti in queste istituzioni.
2. Gli Stati di impiego facilitano, in maniera conforme alla loro legislazione nazionale, la
consultazione o la partecipazione dei lavoratori migranti e dei membri della loro famiglia
alle decisioni concernenti la vita e l’amministrazione delle comunità locali.
3. I lavoratori migranti possono godere dei diritti politici nello Stato di impiego, se questo
Stato nell’esercizio della propria sovranità accorda loro tali diritti.

Il comma 3, come si legge sopra, lascia comunque autonomia in materia agli stati, pur non
mancando di cogliere e sottolineare l’importanza della “materia” nel tentativo di spingere
comunque i pesi verso gli obiettivi indicati.
Continuando ancora lo studio degli articoli, appare importante citare ancora il comma 2 e 3
dell’articolo 49:

2. I lavoratori migranti che, nello Stato di impiego, sono autorizzati a scegliere


liberamente la loro attività remunerata non vengono considerati come versanti in
situazione irregolare e non perdono il loro permesso di soggiorno per il solo fatto che la
loro attività remunerata cessa prima della scadenza del loro permesso di lavoro o
autorizzazione analoga.
3. Allo scopo di lasciare ai lavoratori migranti indicati nel paragrafo 2 del presente
articolo sufficiente tempo per trovare un’altra attività remunerata, il permesso di
soggiorno non viene loro ritirato, almeno per il periodo nel quale possono avere diritto a
indennità di disoccupazione.

Infine si segnalano l’articolo 54, sull’uguaglianza di trattamento in ambito lavorativo


(licenziamento, disoccupazione, accesso a programmi contro la disoccupazione e ad altro
impiego in caso di perdita di lavoro), e l’articolo 56 che regola l’atto di espulsione dal paese da
parte dello stato di impiego: si dovrà agire secondo norma di legge prevista, in conformità a ciò
che era stato stabilito alla stipula del permesso di soggiorno e, importante, tenendo conto “delle
considerazioni umanitarie e dei tempi durante i quali l’interessato ha già soggiornato nello
Stato di impiego.”
La Parte VI della Convenzione punta alla promozione del principio della cooperazione tra stati e
sostiene con forza la necessità che le politiche internazionali dei paesi si conformino agli
standard dichiarati perché si possa procedere alla promozione di condizioni sane di
immigrazione.
La VII parte, invece, costituisce il Comitato per i diritti dei lavoratori migranti, preposto al
monitoraggio e all’implementazione dei diritti della Convenzione. (La trattazione di questo
punto è al paragrafo successivo)

9
Allo stato attuale
(8 maggio 2006) la
Convenzione conta
34 ratifiche e
un numero di
27 stati firmatari.

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Lo stato delle ratifiche, così come risulta sino ad oggi, rende possibile cogliere alcuni dati
importanti:

• il numero delle ratifiche è piuttosto basso;


• gli stati che anno ratificato, ma anche quelli che hanno soltanto firmato, sono tutti stati
di emigrazione, cioè stati che vorrebbero vedere garantiti i diritti ai loro cittadini in uno
stato estero;
• non ha ratificato nessuno stato occidentale, nessun paese, cioè, direttamente coinvolto
dal fenomeno immigrazione (quale paese ospitante) e quindi destinatario diretto della
Convenzione e soggetto chiamato, prima degli altri, a impegnarsi nella garanzia dei
diritti dei migranti.

Il sistema di garanzia: il Comitato

Il “Committee on Migrant Workers” è un organo di esperti indipendenti che monitora


l’implementazione della Convenzione attuata dai suoi stati parte. L’articolo 72 del documento ne
delinea le principali caratteristiche:

• il CMW è composto da 10 membri (14 quando gli stati ratificanti saranno 41);
• i suoi membri sono eletti dagli stati parte;
• il Comitato esamina i rapporti degli stati parte;
• esso coopera con le altre agenzie delle Nazioni Unite e con le organizzazioni
intergovernative;
• il Comitato presenta un rapporto annuale all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
sull’applicazione della Convenzione;
• esso si riunisce 1 volta all’anno;
• elegge il suo ufficio per un periodo di 2 anni;
• adotta il suo regolamento interno.

All’articolo 76 è prevista la procedura di comunicazione che prevede che il Comitato riceva ed


esamini le comunicazioni “nelle quali uno Stato parte pretende che un altro Stato parte non
assolva i propri obblighi previsti dalla presente Convenzione.” Tuttavia, perché il Comitato sia
investito di tale funzione è necessario che lo Stato che “muove” la comunicazione e quello che è
in causa in essa abbiano fatto una dichiarazione riconoscente la competenza del comitato. I punti
da “a” ad “i” del comma 1 dello stesso articolo delineano la procedura che si applica a riguardo
delle comunicazioni ricevute dal Comitato da parte di questi stati.

a) Se uno Stato parte della presente Convenzione stima che un altro Stato parte non
assolve i propri impegni, riguardo alla presente Convenzione, può richiamare, per
comunicazione scritta, l’attenzione di tale Stato sulla questione. Lo Stato parte può anche
informare il Comitato della questione. Entro i tre mesi a partire dalla ricezione della
comunicazione, lo Stato destinatario farà dare dallo Stato al quale ha indirizzato la
comunicazione delle spiegazioni o ogni altra dichiarazione scritta delucidante la
questione, che dovranno comprendere, in tutte le misure possibili ed utili, delle
indicazioni sulle regole delle procedure e sugli strumenti di ricorso, siano essi già
utilizzati, in corso o ancora accessibili;
b) Se, in un periodo di sei mesi dalla data di ricezione della comunicazione originale
dallo Stato destinatario, la questione non è stata regolata con soddisfazione dei due Stati

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parte interessati, l’uno e l’altro avranno diritto di sottometterla al Comitato, indirizzando
una notifica al Comitato oltre che all’altro Stato interessato;
c) Il Comitato non può venire a conoscenza di un affare che gli viene sottomesso, se non
dopo essersi assicurato che tutti i ricorsi interni siano stati utilizzati ed esauriti, in maniera
conforme ai principi del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Questa regola
non si applica ai casi in cui, per avviso del Comitato, le procedure di ricorso eccedono i
tempi ragionevoli ;
d) Con riserva delle disposizioni della lettera “c” del presente paragrafo, il Comitato
affida i suoi buoni uffici alla disposizione degli Stati parte interessati, al fine di pervenire
ad una soluzione amichevole della questione fondata sul rispetto degli obblighi enunciati
nella presente Convenzione;
e) Il Comitato tiene le sue sedute a porte chiuse allorché esamina le comunicazioni
previste al presente articolo;
f) In ogni affare che gli viene sottomesso conformemente alla lettera “b” del presente
paragrafo, il Comitato può domandare agli Stati parte interessati indicati alla lettera “b”
di fornirgli tutte le informazioni pertinenti;
g) Gli Stati parte interessati indicati alla lettera “b” del presente paragrafo hanno il diritto
di farsi rappresentare al momento dell’esame dell’affare dal Comitato e di presentare
osservazioni oralmente o per iscritto, o sotto l’una e l’altra forma;
h) Il Comitato deve presentare un rapporto in un periodo di dodici mesi a partire dal
giorno in cui ha ricevutola notifica indicata alla lettera “b” del presente paragrafo:
i) Se una soluzione ha potuto essere trovata conformemente alle disposizioni della lettera
“d” del presente paragrafo, il Comitato si limita, nel suo rapporto, ad una breve
esposizione dei fatti e della soluzione intervenuta;

ii) Se una soluzione non ha potuto essere trovata conformemente alle disposizioni della
lettera “d” del presente paragrafo, il Comitato espone, nel suo rapporto, i fatti pertinenti
concernenti l’oggetto del contendere tra gli Stati parte interessati. Il testo delle
osservazioni scritte e il processo-verbale delle osservazioni orali presentate dagli Stati
parte interessati vengono aggiunti al rapporto. Il Comitato può ugualmente comunicare
agli Stati parte interessati solamente ogni volta che lo possa considerare pertinente in
materia.

L’articolo 77, al comma 2, ancora, elenca i requisiti richiesti dal Comitato affinché le
comunicazioni siano ricevibili da esso. Le cause di irricevibilità possono essere così riassunte:

non sono ricevibili le comunicazioni:

• anonime;
• considerate essere un abuso di diritto di sottomettere tali
comunicazioni;
• incompatibili con le disposizioni della Convenzione stessa;

Al comma 3:

il Comitato non esamina le comunicazioni se:

• le questioni trattate sono in corso di esame dinanzi a un’altra istanza


internazionale di inchiesta o di regolamento;
• la stessa questione non ha ancora esaurito tutti i ricorsi interni
disponibili (se però il Comitato ritiene che le procedure di ricorso

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eccedono i tempi ragionevoli o che le vie ricorso interno non
porteranno una soluzione è possibile non applicare tale regola)

Va anche ricordato che il Comitato, sempre secondo quanto previsto dall’articolo 77, può
ricevere anche comunicazioni (denuncie) individuali da parte di persone che accusano la
violazione nei loro confronti dei diritti enunciati nel documento.
Il Comitato, in ogni caso, esamina le comunicazioni pervenutegli e considerate ammissibili e
indirizza agli stati parte interessati le sue raccomandazioni e i suoi pareri sottoforma
di“concluding observations”.

Infine, riassumendo, è possibile schematizzare così i doveri che ogni stato parte si assume al
momento della ratifica della Convenzione trattata:

Articolo 7
Gli stati parte si impegnano, in accordo con gli strumenti internazioni dei diritti umani:
“To respect and to ensure to all migrant workers and members of their families within
their territory or subject to their jurisdiction the rights provided for in the present
Convention without distinction of any kind […]”

Articolo 73
Gli stati parte si impegnano a:
“Submit regular reports to the Committee on Migrant Workers (CMW) on how the rights
are being implemented”

Articolo 83
Gli stati parte si impegnano a:
“Ensure that migrant workers whose rights have been violated shall have an effective
remedy”

Articolo 84
Gli stati parte si impegnano a:
“Adopt the necessary measures to implement the provisions of the Convention”

Il Rapporteur Speciale per i diritti umani dei Migranti2

Il mandato del Rapporteur Speciale per i diritti umani dei migranti fu istituito nel 1999 dalla
Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite (da poco divenuta Consiglio per i Diritti Umani)
attraverso la risoluzione numero 44. Il motivo di questa scelta è spiegato dalla Commissione in
queste parole:

The Commission requested the Special Rapporteur to “examine ways and means to
overcome the obstacles existing to the full and effective protection of the human rights of
[migrants], including obstacles and difficulties for the return of migrants who are non-
documented or in an irregular situation”.

2
Office of the United Nations High Commissioner for Human Rights, The International Convention on Migrant
Workers and its Committee, Fact Sheet No. 24 (Rev.1)

13
Questa importante figura istituzionale richiede e riceve informazioni dai migranti e dai membri
delle loro famiglie riguardanti la violazione dei loro diritti umani, emette raccomandazioni per
prevenire e aggiustare tali violazioni, promuove l’effettiva applicazione dei principali strumenti
giuridici internazionali, suggerisce misure politiche che siano applicabili a livello internazionale,
nazionale e regionale per eliminare le violazioni dei diritti umani dei migranti e infine indica e
raccomanda provvedimenti per fermare le molteplici discriminazioni e violenze contro le donne
migranti. Il Rapporteur Speciale stila ogni anno un rapporto che sottopone alla Commissione
diritti Umani (ora Consiglio) riguardante lo stato globale di protezione dei diritti umani dei
migranti, indicando le sue principali preoccupazioni e informando la Commissione di tutte le
comunicazioni che ha inviato ai governi e delle risposte che ha ricevuto. Infine esso può anche
presentare rapporti direttamente all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Attualmente

Allo stato attuale la protezione e il livello di garanzia dei diritti umani dei lavoratori migranti non
risulta affatto elevato. Se si pensa al numero di ratifiche già citato, a quali stati hanno ratificato, a
quelli che si sono rifiutati e al perché lo hanno fatto e lo stanno facendo ancora, non risulta
difficile concludere che la situazione non sembra condurre a breve termine a risultati concreti
importanti. Come per molti altri ambiti, anche per questo si constata da una parte il notevole
sforzo della giurisprudenza internazionale di colmare i vuoti giuridici e di dare sostegno agli
individui meno protetti, e dall’altra la scarsa attenzione dei paesi protagonisti dei problemi
“messi sotto processo” che preferiscono lasciare alla loro politica interna la gestione degli eventi
e dei fatti, ribadendo così ancora una volta la volontà di non cedere al campo sopranazionale
alcuna fetta di potere e di autonomia. Gli esempi anche recenti sarebbero molti, basti citare
comunque, tra gli ultimi, il modo in cui gli Stati Uniti stanno affrontando il problema immigrati,
e quindi la contestatissima legge sugli stessi che ha provocato una vera e propria rivolta
(pacifica) del popolo straniero residente in America; oppure, senza andare troppo lontano, il caso
italiano, con la legge sull’immigrazione (cosiddetta Bossi-Fini) in primo piano e i Centri di
Permanenza Temporanea, osteggiati e visti con sospetto anche a livello europeo.

In Europa

L’inerzia che caratterizza le politiche dei paesi europei riguardo tale ambito, oltre quindi a essere
significativa della non-volontà degli stati stessi a farsi vincolare da norme internazionali, funge
anche da cartina al tornasole del livello di attenzione e di importanza raggiunto dal problema in
questione nelle alte sfere politiche della governance europea. Le difficoltà di adeguamento a
standard comuni sono confermate anche da un interessante parere d’iniziativa, espresso nel
giugno del 2004 dal Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE), sulla Convenzione
Internazionale sui diritti dei lavoratori migranti.3 In tale documento il CESE, dopo aver
analizzato la Convenzione e i diritti che vi si affermano, sostenendo tra l’altro che:

“1.7 Con l'adozione della convenzione, la comunità internazionale e le Nazioni Unite


affermano la propria volontà di migliorare la cooperazione tra le nazioni allo scopo di
prevenire ed eliminare il traffico e il lavoro clandestino dei migranti in situazione
irregolare ed estendere a livello mondiale il rispetto dei diritti umani fondamentali dei
migranti in tutto il mondo”,

3
SOC/173 – CESE 960/2004

14
indicando il principio di non discriminazione e la necessità di un livello minimo di protezione a
cui tutti i migranti devono avere eccesso quali punti cardine attorno a cui ruota l’intero testo, al
punto 3 ribadisce che “i paesi occidentali non hanno ratificato la convenzione” e continua:

“3.1 Le migrazioni a livello internazionale sono la conseguenza delle forti


disuguaglianze economiche e sociali che esistono tra i paesi ricchi del nord e i paesi in
via di sviluppo, disuguaglianze che stanno crescendo nel contesto di un sistema
economico sempre più globalizzato. Tuttavia gli Stati che hanno ratificato la convenzione
sono per la maggior parte paesi di origine dei migranti. Sinora gli Stati membri
dell'Unione europea, gli Stati Uniti d'America, il Canada, l'Australia, il Giappone e gli
altri Stati occidentali che sono paesi di accoglienza di un gran numero di migranti non
hanno firmato né ratificato la convenzione.

3.2 È necessario che l'Unione europea, che intende stabilire norme internazionali in
diversi ambiti (in seno all'OMC per gli scambi internazionali, mediante il Protocollo di
Kyoto per la protezione dell'ambiente, ecc.), promuova anche i diritti fondamentali dei
migranti mediante l'adozione di norme internazionali.”

Di seguito il Comitato procede a spiegare brevemente la politica d’immigrazione dell’Unione


Europea, citando il Consiglio di Tampere del 15-16 ottobre del 1999 come punto da cui l’UE è
partita per elaborare una legislazione comune in materia; tuttavia esso conclude che:

“4.4 La Commissione ha presentato una serie di iniziative legislative che sono oggetto di
difficili trattative in seno al Consiglio. Pertanto, a quattro anni dal Consiglio di
Tampere, i risultati sono scarsi: la legislazione adottata è deludente e si discosta molto
dagli obiettivi di Tampere, dalle proposte della Commissione, dalla risoluzione del
Parlamento e dal parere del CESE in materia. A causa del sistema attuale di veto in seno
al Consiglio, nonché dell'atteggiamento di alcuni dirigenti politici, è molto difficile
raggiungere accordi.

4.5 Il Comitato economico e sociale europeo, in diversi pareri, ha esortato il Consiglio


ad agire con maggiore responsabilità e con uno spirito più costruttivo e cooperativo,
poiché diventa sempre più necessario che l'Unione europea disponga di un'adeguata
legislazione comune per gestire l'immigrazione in maniera legale e trasparente.”

E con chiarezza dichiara:

“4.9 Alcune legislazioni nazionali sull'immigrazione non sono pienamente conformi alle
convenzioni internazionali sui diritti umani; per di più alcune direttive europee, come ad
esempio quella sul ricongiungimento familiare, sono state considerate da diverse ONG e
dal Parlamento europeo contrarie ai diritti umani fondamentali. Il CESE ritiene che le
convenzioni internazionali sui diritti umani e la Carta dei diritti fondamentali dell'UE
debbano essere la base dell'intera struttura legislativa europea in materia di
immigrazione.”

Infine il Comitato conclude il suo Parere invitando gli stati membri dell’Unione europea a
ratificare la Convenzione Internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei
loro famigliari nei due anni successivi (quindi entro il 2006), garantendo il suo impegno perché
si realizzi tale obiettivo.

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Allo stato attuale la situazione rimane immutata: nessuno stato europeo, o comunque
occidentale, ha ancora ratificato la Convenzione. Il Comitato per i diritti dei migranti rimane di
fatto inutilizzato e quindi inefficace nel garantire i diritti affermati dalla Convenzione a cui è
stato preposto.

Conclusioni
La difficoltà che la maggior parte degli stati, a cui è indirizzata la Convenzione sui diritti dei
lavoratori migranti, dimostra nel voler adeguarsi alle norme affermate e più in generale ad un
sistema internazionale unificato e comune di garanzia dei diritti dei migranti rimane il segno più
chiaro della fase di stallo che la politica internazionale sta attraversando ormai da qualche anno.
Non è soltanto il tema trattato ad essere investito da tali problemi e mancanze; in maniera molto
simile rimane difficile l’approccio della politica internazionale stessa, ad esempio, al tema del
diritto di cittadinanza o del diritto d’asilo (vedi come esempio la difficoltà in Italia di concedere
il diritto di voto, attivo e passivo, a livello locale ai residenti stranieri e il modo in cui lo stato
Italiano ha ratificato la Convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a
livello locale entrata in vigore nel nostro paese nel 1997, o ancora il numero esiguo di ratifiche
che la Convenzione appena citata ha sino ad oggi raggiunto - 8 -). Il relativo dibattito, acceso e
profondo, che coinvolge soprattutto, e ancora una volta, gli stati europei e occidentali, è
anch’esso frenato dalle volontà dei governi di non farsi imbrigliare troppo e oltre un certo limite
da principi non puramente nazionali. Come affermato più volte dall’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite e dal Segretario Generale della stessa Organizzazione, il non raggiungimento di
politiche comuni e quanto più conformi a principi fondamentali quali quelli fondati sul diritto
internazionale dei diritti umani, non può che giocare a sfavore della costruzione di un ordine
mondiale umano e sociale più giusto e più equo per tutti.
Mentre il diritto internazionale continua, seppur a fatica, a fare dei passi in avanti, i paesi, in
primis quelli più “forti”, rimangono attenti a non lasciarsi sottrarre il controllo della loro
“politica”; il tema dei diritti umani dei lavoratori migranti, va riconosciuto, sta assumendo
sempre più peso e rilevanza nella sfera globale, gli strumenti per rendere tale rilevanza un fattore
di concreta “presenza giuridica” si stanno moltiplicando, la non eguale distribuzione del
fenomeno immigrazione sulla superficie del pianeta forse gioca a sfavore, ma ancora una volta si
può dire che la via è stata indicata e che sarà necessario sempre più prenderne atto.

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