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Aristotele (384, 383 a. c.-322 a. c.

) e l'Etica

I testi di Etica attribuiti ad Aristotele sono tre Etica Nicomachea, Etica Eudemia e la Grande Etica (Magna Moralia). Quest'ultima non pare sia autentica e sembra piuttosto essere stata composta dopo la morte di Aristotele. Le altre due etiche sono chiamate cos in virt di chi ne cur la pubblicazione: Nicomaco, figlio di Aristotele nel primo caso e Eudemo di Rodi, un discepolo, nel secondo caso. La trattazione pi completa dell'Etica aristotelica quella pi celebre e fortunata quella Nicomachea. Lo scopo dell'etica eminentemente pratico: essa non serve semplicemente a conoscere, ma a renderci migliori. Scrive infatti Aristotele in Etica Nicomachea, II, 2, 1103 b 26-28: La presente trattazione non , come le altre, intrapresa a fini teorici perch conduciamo questa indagine non per sapere che cosa il bene, ma per diventare uomini buoni La filosofia pratica di Aristotele, allora, esattamente come quella spinoziana, ha un orientamento teleologico: ci verso cui tutto tende il bene (questo il finalismo che domina l'intero pensiero aristotelico); tuttavia necessario determinare con maggior precisione il concetto di fine. I fini umani, infatti, sono molteplici e Aristotele non un riduzionista; egli, vale a dire, non cerca di ridurre immediatamente il pluralismo che caratterizza il mondo umano all'unit, come invece, aveva fatto Platone con la sua idea di BENE. Intanto perch, per Aristotele le idee non esistono, e poi perch se anche esistesse il BENE come realt autonoma e indipendente, non sarebbe comunque realizzabile e conseguibile da parte dell'uomo. Ad Aristotele interessa invece il bene umano, quello alla portata dell'uomo. Dunque possiamo subito affermare che l'etica di Aristotele non fondata su un'idea assoluta, oggettiva e universale di bene. Aristotele lascia sussistere una molteplicit di fini e una molteplicit di beni, anche se ci non significa che non esista un fine principale a cui gli altri in qualche modo si orientano. Questo fine che orienta tutte le nostre azioni la felicit; l'etica di Aristotele, allora, non fondata sul dovere (non , vale a dire, 'normativa'), ma si basa sulla ricerca della felicit. Proprio perch non fa leva sul dovere, inoltre, l'etica aristotelica non PRESCRITTIVA, ma

DESCRITTIVA; essa, cio, 'descrive' i vari comportamenti possibili per raggiungere il fine principale dell'uomo, indicando quelli che sono pi appaganti e possono meglio orientare gli altri. L'etica di Aristotele consiste, dunque, nell'analisi dei caratteri e delle indoli umane. Questo il motivo per il quale l'etica non pu aspirare allo stesso grado di certezza della filosofia naturale; i comportamenti umani non sono sempre previdibili in senso assoluto, possono solo essere osservati e classificati in tipologie generali. Se la felicit, inoltre, il fine ultimo di ogni azione, dovremmo stabilire in che cosa consista. Essa non corrisponde al possesso di qualcosa, perch possedere passivit, e quando si passivi come se si dormisse; daltro canto, quando si dorme, non si n felici, n infelici. Allora la felicit in primo luogo attivit (enrgheia). Ma che tipo di attivit? Essa lattivit dellanima secondo virt. Virt, in questo caso, resa dal termine greco aret, che non significa agire in conformit a leggi morali, ma piuttosto ECCELLERE NELLO SVOLGERE UNA FUNZIONE. Virt di un buon chitarrista suonare bene la chitarra, per esempio. Essere virtuosi, allora, vuol dire compiere nel modo migliore la funzione o lopera che ci si proposti o per cui si PORTATI. Si possono compiere tante opere e, dunque, si possono ottenere molteplici felicit. Per individuare la forma prioritaria di felicit, quella pi propriamente umana, bisogna individuare in che cosa consiste la funzione specifica delluomo. Cosa distingue luomo dagli altri animali? Il fatto di avere unanima razionale. Dunque la felicit sar unattivit dellanima, dellanima intellettiva. Ma qual lattivit specifica dellanima intellettiva? Pensare! La felicit delluomo consiste, di conseguenza, nellesercitare nel modo pi eccellente lattivit che gli pi propria: il pensare appunto. Vanno fatte tre considerazioni: nel pensare l'uomo non realizza solo ci che gli proprio, ma partecipa della stessa natura divina, dal momento che il divino, in Aristotele, puro atto del pensiero: l'attivit umana dunque gi divina. Per Aristotele Il pensare il divino che in noi. In secondo luogo, se il pensare la felicit pi alta, essa non annulla le altre. In fondo questa la felicit dei filosofi, i quali devono per forza essere felici, dal momento che si occupano del pensiero. Aristotele tuttavia

sa che non tutti possono o debbono essere filosofi. La vita filosofica, in realt, una scelta come tante altre forme di vita, ognuna delle quali avr una sua felicit corrispondente, nella misura in cui verr condotta in modo eccellente: un falegname sar davvero felice se sapr creare mobili perfetti; un panettiere se sapr fare pane eccellente. La felicit speculativa del filosofo certo la pi alta, la pi speculativa, ma, come abbiamo detto, non l'unica. Subito dopo di essa si colloca la felicit politica, dal momento che uno dei tratti fondamentali dell'essere umano quello di essere un 'animale politico'. La felicit politica, in realt, meno piena di quella speculativa perch pi condizionata dall'esterno: i progetti politici, infatti, sono legati alle condizioni esterne della loro realizzabilit. Inoltre Aristotele sa bene che per dedicarsi alla vita speculativa c' bisogno di godere di alcune condizoni minime esterne: 1) non si deve essere poveri (servono i mezzi di sopravvivenza necessari per potersi dedicare al pensiero senza preoccupazioni) 2) non bisogna avere preoccupazioni famigliari (un matrimonio infelice o altri guai famigliari guasterebbero la serenit speculativa) 3) bisogna avere un minimo di ricchezze e di schiavi 4) bisogna poter contare su buoni amici Si pu allora dire che per Aristotele indubbio che la ricchezza, i piaceri e la salute concorrano alla felicit, ma solo in quanto strumenti di felicit maggiori. Aristotele non disprezza le condizioni materiali agiate perch sa che fanno parte dell'umano e che contribuiscono a facilitare l'attivit speculativa. Insomma non vero che i soldi non fanno la felicit, ma non in quanto li si possiede. Se la felicit, infatti, consiste nell'azione, allora ricchezza, salute, amici e piaceri contribuiranno a renderci felici se e solo se ci faranno agire in una direzione speculativa capace di eccellere.

Virt etiche e virt dianoetiche Le virt dell'anima razionale sono molteplici e A. le suddivide in due gruppi: 1) quelle che appartengono all'anima razionale nel senso pi stretto, ovvero le virt dianoetiche (dianoia indica il pensiero, la ragione) 2) le virt che appartengono alla parte appetitiva dell'anima, ovvero le virt etiche o del carattere. Aristotele, infatti, sostiene che l'anima ha tre facolt: quella vegetativa, la quale presiede alla funzioni della nutrizione, della crescita e della riproduzione; quella sensitiva, che presiede alle sensazioni e alla funzione appetitiva (quando si percepisce qualcosa, si associano a ci che percepito anche gioia e dolore e a queste associazione si collega la tendenza a cercare l'uno e a evitare l'altro) e, infine, l'anima razionale o intellettiva che presiede al pensiero e che posseduta solo dall'essere umano. Le virt etiche, allora, si riferiscono indirettamente all'anima razionale perch la parte appetitiva segue ci che la ragione le indica. Secondo A., in generale, noi seguiamo ci che la ragione ci propone: l'etica aristotelica, dunque, un'etica intellettualistica. Una virt etica per Aristotele uno stato abituale (una disposizione) che produce scelte, consistente in una mediet rispetto a noi, uno stato determinato razionalmente e come verrebbe a determinarlo l'uomo saggio (Etica Nicomachea, II, 6, 1106 b 36 1107 a 2). Virt di questo tipo sono il coraggio, la temperanza, la liberalit, la magnanimit, la giustizia. Per A. la virt non innata, ma il frutto dell'abitudine e dell'educazione: infatti la ripetizione abituale di determinati atti a creare quella data disposizione che la virt. Le virt, allora, sono disposizioni stabili del carattere. Ogni virt, inoltre, presuppone una mediet; essa, vale a dire, si colloca tra l'eccesso ed il difetto. Non si tratta semplicemente dell'ovvio detto: in medio stat virtus, secondo il quale la virt sempre l'equilibrio. Per Aristotele significa piuttosto che non esistono modelli assoluti di virt e che il comportamento corretto va sempre valutato in base alle circostanze effettive.

Facciamo l'esempio della liberalit (generosit), che il medio tra l'avarizia e la prodigalit. In questo caso la virt consiste nella capacit di dare risposte adeguate, misurate, calibrate sugli eventi: uno stesso atto (per esempio ritirarsi da un combattimento) pu essere un vizio (la vilt), o una scelta saggia a seconda delle circostanze. Dal momento che l'etica aristotelica non fornisce risposte oggettive, il criterio del comportamento dato dall'ipotizzare come si comporterebbe, con equilibrio, un saggio in quella data circostanza. In questo contesto Aristotele distingue anche tra la saggezza (phrnesis) e la sapienza (sophia). La loro differenza dipende dalla differenza degli oggetti verso i quali sono dirette: la sapienza, infatti, sempre diretta alla conoscenza disinteressata della realt, mentre la saggezza si concentra su ci che pu essere fatto dall'essere umano. La sapienza superiore, divina, ma il sapiente non arriverebbe a nulla se non fosse in grado di fare scelte equilibrate, dunque se non fosse anche saggio. La saggezza, allora, permette il compimento di ogni virt e la giusta collocazione di ogni bene; essa fondamentale al sapiente per raggiungere quella tranquillit necessaria affinch egli si dedichi alla contemplazione. Anche la saggezza si apprende tramite l'insegnamento, ma soprattutto attraverso l'esperienza di vita, ovvero con la frequentazione di altri uomini saggi. Il saggio, dunque, fulcro dell'etica aristotelica, colui che sa comportarsi in tutte le situazioni. Questa la risposta dinamica e umanologica di Aristotele alla dottrina delle idee platoniche dimoranti nell'iperuranio.

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