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Piero Scanziani

Entronauti

viaggio

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PRIMO VIAGGIO IN INDIA
(1965)

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Edoardo tenta il ricatto:
- Dammeli e ti lascio leggere il tuo coccodrillo.
Edoardo è il tipico redattore capo di rotocalco italiano de-
gli anni ‘70. Né troppo giovane né troppo vecchio: ha varca-
to i trenta ma non tocca i quaranta. È molto bravo, ma non
tanto da dar ombra al direttore. Si beffa di tutto, non crede in
nessuno, ma sa in cosa crede il suo pubblico, ossia un milione
di lettori.
È un uomo alto e stretto, un po’ curvo, indossa giacche
sportive, in redazione lo chiamano Coppi per una certa somi-
glianza col celebrato ciclista, di cui ha il profilo, la gracilità,
la sagacia e il gusto per la caccia.
Ora gli servono tre articoli sull’India e li vuole da me.
Perciò tenta il ricatto:
- Dammeli e ti lascio leggere il tuo coccodrillo.
Alzo le spalle ed egli s’accorge d’aver sbagliato mira. Su-
bito tenta l’adulazione:
- Dammi un’India come la vedi tu.
Sbuffo e allora butta le carte in tavola:
- Il direttore vuole i tre pezzi. Sei il solo che me li può
scrivere subito e sei un amico.
Siamo amici, è vero. Ogni tanto ceniamo assieme e ascol-
to i suoi guai, sempre guai di donne. Le sceglie impossibili:
minorenni o virtuose o sposatissime. È perpetuamente inna-
morato di questa o quella, pur continuando a voler bene alla
moglie, donde intrichi a non finire. In principio gli davo con-
sigli: adesso no, lo rincuoro e basta. Edoardo si lamenta
quand’è in mezzo al dramma, ma in verità lo cerca, spinto da
un destino che è in lui e lo conduce.
Non posso dargli gli articoli sull’India. Protesta:

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- Perché? Ci sei stato l’altro anno per un quotidiano. Noi
siamo un settimanale e ti sono rimasti tanti appunti e tante fo-
tografie. Perché non darceli?
Edoardo, non posso. Debbo tornare in India, debbo chia-
rire tante cose. Gli appunti mi servono per un libro. Già lo
sto scrivendo. Se vuoi, parlo col direttore e gli spiego. Sono
assillato da questo libro. Ci metterò l’India, ma anche la
Cina, la Persia, il Siam, Tokyo, Nuova York. Debbo andare
da per tutto. Ne parlerò al direttore.
- Devi andare a Nuova York? Ti ci mando io.
- Mi ci mandi? A far che?
- Un servizio sul pugilato americano. Sei un competente,
no?
- E quando dovrei partire?
- Appena m’avrai dato i tre pezzi, sull’India.
È un ricattatore, ma non posso rinunciare all’occasione di
andare a Nuova York. Il mio libro passa per l’America. Pro-
testo:
- Coppi, con te non si combatte. Vinci sempre.
Cosi eccomi qua, nella mia stanza, in poltrona, la macchi-
na per scrivere sulle ginocchia, il bulldog accucciato ai piedi.
Mi ama, povera bestia, non so perché. Quando sono in viag-
gio, dimagrisce. Dunque l’amore non è un’invenzione uma-
na.
Eccomi qua, dinanzi a un mucchio d’appunti sul viaggio
in India del 1965. Debbo trarne tre articoli, che abbiano un
certo ordine. Ma un viaggio è sempre disordinato. I luoghi e
la gente ti vengono incontro, ti passano accanto, se ne vanno
alle spalle, incoerenti. Dopo, nel ripensarvi, trovi che il viag-
gio ha un senso. Ma lo ha davvero o glielo dai tu?
Il primo articolo è bell’e pronto: sono le annotazioni che
hanno preceduto la partenza e accompagnato il volo nel 1965.

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Roma, giovedì
Da quando sono in procinto di partire, il telefono squilla
continuamente.
- È vero che te ne vai in India?
- Sì, sì, è vero.
- Quanto tempo starai via?
- Non so. Un mese o due.
- È un viaggio d’affari?
- No, no. Quali affari?
- Allora vai per scrivere?
- Certo, scriverò.
- Insomma, mi vuoi dire cosa vai a fare in India?
M’è difficile rispondere. Dentro ho tutto un discorso, ma
come tirarlo fuori? Non posso confessare che spero di tro-
varvi Diogene e Platone. Rispondo che mi ci manda un quo-
tidiano e ciò basta per loro, non per me.
Potrei affermare che l’ultima spinta verso l’India me l’ha
data Jacques de Launay, un tale che non ho mai visto, che
non vedrò mai. De Launay non si occupa dell’India, no. È
uno storico: si occupa della prima guerra mondiale, è la sua
specialità. Sa tutto, ha letto tutto, chiarito tutte le premesse e
tratto tutte le conclusioni negli anni dal ‘14 al ‘18. L’altro
giorno gli hanno domandato quale causa determinò quel con-
flitto. «Nessuna», ha risposto. Non si è trovata una sola ra-
gione valida a motivare la Grande Guerra. Ha aggiunto ras-
segnato: «Noi storici dobbiamo rinunciare a capire. Dobbia-
mo lasciare il posto ad altri. Forse ai meteorologi. Forse loro
ci potranno dire se nell’agosto 1914 le macchie del sole...».

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Cosi lo storico dichiara vana la storia, inutile a spiegare
l’agire degli uomini. La Grande Guerra ha chiesto dieci mi-
lioni di vittime: e le ha avute. Tanta ecatombe non solo non è
servita a niente, ma non aveva motivo e tutti lo sapevano, gli
imperatori, i re, i ministri, i generali. Eppure continuarono a
uccidere e a morire, senza movente e senza scopo. La spiega-
zione? Forse le macchie d’un sole d’agosto.
- Va bene (mi ribatte un amico che conosce l’Asia e al
quale mi confido, mentre m’accompagna all’aeroporto), va
bene. È terribile, d’accordo. Ma cosa c’entra la Grande
Guerra con la tua andata in India?
Eppure c’entra.

Fiumicino, domenica
Fra otto ore sarò in India. Che m’aspetta?
- T’aspetta una grande delusione (afferma l’amico): tu
credi all’India misteriosa perché non vi sei stato. Niente mi-
steri, invece le realtà: l’India della fame scheletrica, del caldo
tropicale, della polvere perpetua. Perché ci vai?
Perché? Ero a Bruges, mesi fa. V’era un congresso. Si
discuteva il potere dell’uomo, il potere atomico. Alla fine si
levò Bertrando Russel, il pensatore inglese. Esile, vizzo, ca-
rico d’anni. Non parlava per sé, nonagenario. Parlava per
noi, uomini e donne, parlava per i giovani e per quelli che
vanno nascendo. Diceva che non si può contare sui politici,
sui diplomatici, sui militari. La storia li condanna. Ci hanno
portato alla prima guerra mondiale, poi alla seconda: ci porte-
ranno all’ultima. La sfiorano quotidianamente. Bisogna to-
gliere loro il potere e consegnarlo a pochi saggi, poiché solo
la saggezza può salvarci. O la saggezza o la fine.

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Tacque il vecchio Bertrando e sedette. Nell’aula di Bru-
ges non vi furono applausi: un silenzio grave, interrogativo.
Se quella è davvero la salvezza, come raggiungerla? Come
passare il potere da chi lo detiene a chi lo merita? E dove tro-
vare i saggi, se pure ancora esistono? Sull’aula gravava un
silenzio pesante.
Me ne liberai stabilendo lì per lì che, in un modo o nell’al-
tro, sarei andato in India.
Cosa troverò? Si trova solo quel che si cerca: se non lo
cerchi, vi passi accanto e non lo vedi.
Nel salire la scaletta del velivolo, concludo: «Credo nel-
l’India.» E in questa fede parto.

In volo, domenica notte


Credo nell’India perché vi sono andato cento volte. Ra-
gazzo, già vi sbarcai con Kipling e incontrammo Kim. Ven-
tenne, vi tornai con Avalon che m’affacciò ai misteri tantrici;
vi tornai con Guénon, dalle certezze glaciali. A trent’anni ho
viaggiato fra il Bengala e il Panjab insieme a Maurice Magre
e a Lanza del Vasto. Romain Rolland mi condusse a Calcutta
da Ramakrisna, Osborne mi portò ad Arunachala da Ramana,
Jean Herbert mi guidò a Pondichéry da Aurobindo.
Da un quarto di secolo percorro l’India, fermo nella mia
stanza. È ormai tempo di andarvi per davvero, di vedere coi
miei occhi se sono ancora vivi Diogene e Platone.

Bombay, lunedì

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Sbarco nell’alba perlacea. L’autobus mi porta in un al-
bergo sul mare. Spalanco la finestra che guarda la distesa
delle acque, le lunghe onde sulla sabbia platinata. Di colpo
l’aurora.
Sono preso da un’enfasi esclamativa: «Ecco la terra del-
l’India, l’antica e la perenne, eccone il cielo, eccone le acque,
ecco l’aurora dei Veda.» Ma sùbito l’occidentale che porto
dentro mi schernisce: «Macché. Terra cielo mare come altro-
ve, come da per tutto.»
Un altro pensiero, grave, mi coglie. Arrivato a Bombay,
non sono che al principio. Ora comincia la ricerca, ora co-
mincia il vero viaggio. Ora debbo scoprire, fra cinquecento
milioni d’indiani, i pochi uomini che sanno. Sanno: perciò
possono aiutarci a capire. Pochi uomini, celati. Dove trovar-
li?

Il primo articolo non piace a Edoardo. Mi telefona:


- È da quotidiano, non da settimanale. È troppo corto. E
poi ho bisogno di pezzi facili, commestibili per un milione di
lettori. Un’India digeribile.
M’indispettisce e ribatto:
- No, Coppi, no, l’India non è digeribile. Anzi ci fa vomi-
tare. È un emetico. Ci libera la pancia dai veleni occidentali.
S’indispettisce a sua volta e m’attacca:
- Chi vuoi ti creda, quando dici d’essere spinto in India
da de Launay e da Russel, da Diogene e Platone? Intellettua-
lismi, esibizioni. Vai in India perché un giornale ti ci manda.
Non farti bello. Tanto, i miei lettori non ci cascano. Ci vuole
altro.
Piccato, accetto il litigio, anzi lo cerco:

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- I tuoi lettori? Li chiami lettori? Analfabeti. Al più
guardano le illustrazioni e cercano donnine nude. Vorresti
un’India pornografica? Cestina l’articolo e lasciami in pace.
- E non andrai a Nuova York.
- E tu va al diavolo.
Ci chiudiamo il telefono in faccia, contemporaneamente.
Il bulldog, da accucciato che era, si siede e mi guarda, in-
terrogativo. Avverte il malumore, si alza e se ne va dalla par-
te opposta, accanto alla libreria, donde mi fissa. Un’antica
prudenza canina gli consiglia d’allontanarsi dagli uomini adi-
rati. Mi fissa, buffo. I bulldog non panno un muso, hanno
una faccia. Gli sorrido e subito mi torna vicino, mi scodinzo-
la, si riaccuccia ai miei piedi.
L’ira è sbollita, anzi sono pentito. Addio Nuova York.
Eppure debbo andarci: il mio libro passa da lì. Se Edoardo è
un ricattatore il libro che m’assilla è un tiranno.
Riprendo il telefono:
- Edoardo?
Grugnisce:
- Che vuoi?
- Ti preparo un’India pornografica.
- Magari.
- E come sta Carmela?
Carmela è il suo amore di oggi. Andato a caccia di cin-
ghiali in Sardegna, l’ha incontrata in un villaggio. Se n’è in-
namorato all’istante. Carmela ha diciassette anni e cinque
fratelli. È proprio il dramma che gli occorre.
Chiudiamo la conversazione, amici come prima. La por-
nografia in India? Le gabbie di Bombay, i templi di Kagiu-
rao. Ma è una pornografia speciale.
Mi metto a ordinare gli appunti, mentre il bulldog russa,
beato.

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Madràs, sabato
È cominciata la ricerca: lunga, difficile. Se invece d’esse-
re in India a cercare saggi, fossi in America a cercare scien-
ziati, tutto sarebbe in discesa. Qui tutto va in salita. La sag-
gezza è verticale.
In America trovi il nome e la biografia d’uno scienziato
sul Chi è, ne trovi le opere dal libraio, l’indirizzo nell’elenco
telefonico e per ascoltarlo ti basta andare alla sua università.
L’America è aperta, l’India è chiusa. L’americano ti mostra
subito quanto gli è prezioso (casa, quadro, cane, moglie) e te
ne dice il prezzo in dollari. L’indiano nasconde ciò che gli
preme e gli preme soprattutto la sua vita interiore. L’ameri-
cano sente di valere per ciò che ha, l’indiano per ciò che è.
In questo mondo difficile cerco la saggezza e forse le pas-
so accanto, senza avvertirla. Cos’è infatti la saggezza? Non
lo so.
Eppure insisto e percorro l’India, in tutte le maniere: nei
treni letto ove ciascuno porta il proprio letto; nelle corriere
stracariche e familiari, ove i bimbi sono troppo belli e troppo
commoventi; nelle automobili che vanno a sinistra ma in veri-
tà vanno al centro e si precipitano frontali l’una contro l’al-
tra, schivandosi d’un centimetro all’istante estremo; negli
stanchissimi autobus delle città e nei tassi ancora più stanchi;
nei tricicli a pedali dei villaggi e nei risciò ove il conduttore ti
dice sempre di si e non sai dove ti porta; sui carri agricoli
trainati da grandi bufali, neri e stupefatti, tanto lenti da indur-
re a scendere e ad avanzare a piedi. Sto camminando assai e
non so che cerco.

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Non incontro la saggezza, incontro la fame. La fame degli
uomini, la fame degli animali, le loro magrezze, le loro piaghe
al sole. La fame altrui mi colpisce al ventre e mi torce i bu-
delli. Volto il capo, ma a che serve, se sta da per tutto? Biso-
gna trovare il coraggio di fissarla.
Lo trovo e imparo a guardare la gente, imparo a sorrider-
le, per misera che sia. Mi rispondono col sorriso e la distanza
cessa. Imparo a togliermi i sandali quando entro in casa al-
trui, come da noi il cappello; imparo a mangiare dignitosa-
mente con le mani, per piatto una foglia fresca; imparo ad ac-
coccolarmi per terra, trovandovi un’impreveduta stabilità,
una proporzione più prossima con tutte le cose; imparo a ri-
verire giungendo le palme, saluto dell’anima, in luogo della
corporea stretta di mano, rude in questo mondo mite. Mi sto
accorgendo che l’indigenza degli indiani non è più spaventosa
della sazietà degli occidentali: poiché la sazietà è un’indigen-
za interiore. Ma la saggezza?
Quale saggezza?
È il capo d’una grande impresa europea e fonda industrie
in India da dieci anni. Ripete:
- Quale saggezza cercate?
Brontolo, perplesso:
- Cerco Diogene, cerco Platone.
Ride e m’offre da bere.
Non incontro la saggezza, incontro l’uomo. Per le strade
dell’India incontri l’uomo, più che in ogni altro luogo. Lo in-
contri innumerevolmente. Sono i viandanti scalzi che proce-
dono nel loro telo, sono i contadini chinati al suolo nel gesto
universale, sono le famiglie addormentate all’ombra del san-
dalo. Non avviene mai che la figura umana scompaia dal
paesaggio. Mai restano sole le pianure o le montagne o le
fiumane, mai. L’uomo è onnipresente, ti è sempre davanti

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con tutti i suoi volti, le sue grandezze e le sue miserie. L’uo-
mo è il panorama dell’India.

Kagiurao, venerdì
Forse ho sbagliato tutto. Avrei dovuto informarmi meglio
quand’ancora ero in Europa, trovare indirizzi, procurarmi let-
tere di presentazione. Ingenuo, ho creduto che in India la
saggezza s’incontrasse per via. Presuntuoso, ho creduto che
il solo cercarla, me ne rendesse meritevole. Un tale mi consi-
glia Benares, un altro l’Himalaya. Sono tentato d’arrendermi
e tornare.
Ho incontrato la fame, ho incontrato l’uomo. Ora, invece
della saggezza, incontro la donna. Le donne dell’India sono
belle, esili e delicate, dritte a causa dei pesi che portano in
capo, laboriose a causa della povertà. Hanno il passo lungo e
nobile di chi è scalzo, l’andatura libera e leggera, non trotte-
rellano come le donne gialle, non sculettano come le bianche.
Hanno i capelli lunghi e corvini, le folte trecce antiche, la
scriminatura centrale che adorna il volto. Si vestono tutte col
sari, ciascuna col proprio colore e un gruppo di donne è un
fascio di fiori. Hanno pura la bocca che ignora il rossetto,
hanno puro lo sguardo e il bistro non è un vezzo, ma un ripa-
ro dal tracoma. Vezzo è invece il segno colorato a mezza
fronte, vezzo sono i gioielli sulle mani e i piedi, i polsi e le
braccia, il collo, le nari e le orecchie. Vezzo è il fiore fresco
che adorna la chioma.
Le donne dell’India non ti guardano. Camminano intente,
recando in capo la brocca, in mano il cesto, sul fianco il bim-
bo piccolo, dietro i grandicelli, nel ventre il prossimo. Non
occhieggiano, non civettano, non smorfiano. Il fine della don-

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na indiana non è l’uomo, è il figlio. Grande saggezza. Ma
non è quella che cerco.

Kagiurao, martedì
L’occidentale che arriva qui, allibisce. È un tempio cele-
berrimo, da mill’anni luogo di pellegrini, riti, devozioni e in-
vece ci appare osceno.
Le facciate sono ricoperte da sculture raffiguranti miriadi
d’uomini e donne avvinghiati. V’è tutto il baciare, carezzare,
lambire, stringere, gesticolare che la passione e l’inventiva
hanno suggerito agli amanti, dopo Adamo ed Eva. Le coppie
si penetrano in pose mai pensate, si ampliano in gruppi, si
chiudono in gomitoli, si dilatano in raggi. Nell’affollamento
immenso, i sessi perdono l’aspetto ripugnante dovuto alla
loro seconda funzione, perdono l’apparenza vegetale, cessano
d’essere nella donna un frutto flaccido, nell’uomo una radice
dilatata, linfe che stillano, semi che si spandono. Acquistano
invece una bellezza oltre natura, divengono le forme ideate da
una potenza cosmica che trapela evidente di sotto il marmo e
non ha più nulla d’osceno, tanto è chiaramente sacra.
Qui l’amore è forza divina, palese. Grande saggezza. Ma
cerco Diogene e Platone, ossia cerco un uomo esemplare e
una parola persuasiva.

Calcutta, giovedì
A Daksineswar incontro l’esempio e la parola di Ramakri-
sna. È un posto meraviglioso. Mentre a Calcutta il fiume è
un gran porto fitto di navi venute da ogni dove, a Daksine-

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swar cambia totalmente: perde il suo affannoso brulicare per
farsi pacato e sereno.
Ramakrisna, una delle più belle anime apparse sulla terra,
visse qui, in un giardino. E qui morì, ottant’anni fa. Avrei
dovuto nascere un secolo prima. Cerco una saggezza incar-
nata in un uomo vivo.

Arunachala, mercoledì
È l’eremo d’un saggio taciturno, Ramana. Sta ai piedi
della montagna rossa, per secoli abitata dagli anacoreti. Essa
è tanto pervasa della loro pace che (dicono) basta raccogliere
un sasso, per averne il cuore quietato.
Sosto nella cameretta ove Ramana spirò alle ore 8,47 di
venerdì 14 aprile 1950. Il posto è tal quale, col calendario e
l’orologio.
Avrei dovuto cominciare la ricerca quand’ero giovane e
subito venire qui. Arrivo con vent’anni di ritardo.

Dera Dun, sabato


- Quale saggezza?
È un geologo svizzero che trivella il suolo dell’India per
trarne petrolio:
- Quale saggezza cercate?
È un uomo attivo, operoso, fermo nelle sue certezze: im-
portanza del lavoro, importanza del petrolio. Mi giudica svi-
tato, lo giudico illuso.
Non ce lo diciamo.
Parlo di Diogene e della botte: osserva, sorprendendomi:

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- Ricordate come lo chiamava Platone? Un Socrate in de-
lirio.
Non lo ricordavo. Mai avrei creduto che costui fosse let-
tore di Platone, tanto da citarlo. Ma egli completa la mia me-
raviglia aggiungendo:
- Ce n’è uno sulla montagna, sopra il nostro campo di ri-
cerca. L’ho visto una volta. È nudo. Diogene buttò la cioto-
la, ma questo ha buttato anche la tunica e la botte. Volete an-
darvi? Sono le pendici dell’Himalaya.

Pendici dell’Himalaya, venerdì


Tremila metri: è il luogo dei pini giganti dal tronco rosa,
elevati come campanili, odoranti di resina. È il luogo dei pini
e del ruscelli, è il luogo delle lucertoline azzurre e, nel veder-
le, mi sono ritrovato a Capri e ai faraglioni. Ho sentito la di-
stanza, immensa. Una piccola lucertola azzurra m’ha carica-
to il cuore di nostalgia.
Sto salendo da Diogene, grazie all’aiuto del geologo, che
mi ha offerto un’automobile, che mi ha procurato una guida.
È un indiano sollecito e gentile. Finita la strada, ci stiamo
inerpicando a piedi per sentieri impervi, fra pini giganti, ru-
scelli allegri e lucertoline azzurre.
A una radura, incontriamo Diogene. Vive qui da quaran-
t’anni e la gente lo chiama Dayananda.
Da lontano appare michelangiolesco. È totalmente nudo, i
capelli lunghi e cordonati, la gran barba negletta. Sta su d’u-
na pietra con le gambe incrociate ed è così immobile, da non
parere vivo.
Nell’avvicinarlo, acquista vita e umanità. È un bel vec-
chio. La sua nudità è tornita, senza magrezze; la persona

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monda e beneodorante. Apre gli occhi che aveva chiusi, ci
sorride senza parlare, forse per un voto di silenzio. Poi riab-
bassa le palpebre, intento a non so quale sua realtà interiore.
Mi ci metto accanto e lo guardo. Non cerco neanche d’aprire
un discorso.
Lo guardo e mi domando come ha potuto sopravvivere per
decenni a simile altitudine, sopravvivere alle nevi e alle bufere
invernali, senza una stoffa, senza una casa, sopravvivere ai
monsoni, ai cibi scarsi, forse ai lunghi digiuni, sopravvivere
alle tigri ai leopardi ai cobra, principalmente sopravvivere
alla solitudine. Noi con tanta facilità ne moriamo.
Riapre gli occhi, mi guarda e ne sento intensa la pace. In-
torno il silenzio è mirabile.
Quale verità possiede questo saggio delle nevi, simile ai
ginnosofisti che duemila anni fa stavano parimenti nudi sulle
rive del Nilo?
Lo guardo ed egli tace, vincitore dell’Himalaya.

Madràs, martedì
Trovato Diogene, debbo cercare Platone.
Edoardo è scontento, al solito. Mi telefona:
- Avevi promesso la pornografia dell’India. Non sarà quel
vecchio Diogene nudo...
Già m’ha infastidito:
- T’ho dato Kagiurao...
- Dieci righe. Ci vuol altro. E le gabbie di Bombay?
M’avvilisce:
Ma è un argomento risaputo, perfino il cinema...
- Risaputo o no, la prostituzione interessa sempre.
Mi ribello:

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- Edoardo, non farmi pagare troppo caro il viaggio a Nuo-
va York.
S’ammansisce. Edoardo ha l’esordio aggressivo: deve li-
berarsi dal veleno che accumula in redazione. Sfogato, di-
venta ragionevole:
- Mandami subito il terzo articolo, il direttore lo aspetta.
Ha un ultimo rigurgito avvelenato:
- Tralascia Platone. Chi mai s’interessa di Platone?
Mi vendico:
- Invece si: era paiderastès. Adesso sono di moda.
Queste telefonate mi deprimono. Al diavolo Edoardo, i ro-
tocalchi, i giornali, la carta stampata, al diavolo tutti. M’è
passata la voglia di scrivere, mestiere, dannato.
Il bulldog si sveglia. Mi guarda, sottecchi, insospettito.
Come avverte il mio malumore? Mistero, ma lo avverte. In-
fatti si alza, coda bassa e trotterella verso la libreria. A metà
strada, si rivolta e mi guarda, interrogativo.
Vieni qui, torna qui, vecchio cane, bravo cane. Parleremo
di Platone, andremo a Nuova York. Poi in Persia, nel Siam,
Cina, Giappone, andremo in capo al mondo. E scriveremo il
libro.
M’è tornato vicino e scodinzola. Cerca il posto migliore,
s’acciambella ai miei piedi e riprende a dormire. Già sogna e
anch’io, scrivendo.

Madràs, giovedì
Platone è Aurobindo, Aurobindo è sepolto a Pondichéry,
Pondichéry sta a duecento chilometri da Madràs. Ci si va in
corriera. Ci andrò domani.

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Credo d’essere stato formato per intero dalle donne incon-
trate e dalle letture. Cento donne, dieci importanti, a comin-
ciare da mia madre. Cento libri, dieci importanti, a comincia-
re da Aurobindo. Non parlo mai di mia mamma, ne ho pudo-
re. Non parlo mai di Aurobindo: ho lo stesso pudore.
A Roma preferivo lasciar credere d’essere spinto in India
da de Launay o da Russel. In verità sono attratto da Auro-
bindo. Chi è quest’uomo? Chi è stato negli anni in cui visse,
dal 1872 al 1950? Non lo so, per quanto abbia letto tre o
quattro biografie. In ogni uomo v’è una essenza indicibile.
Per i biografi è nato a Calcutta, figlio d’un medico, è stato
mandato in Inghilterra a studiare sino ai vent’anni. Per i na-
zionalisti è un eroe dell’indipendenza, ha conosciuto la fame,
il carcere, la clandestinità. Per i filologi è il commentatore
dei Veda, delle Upanishad, della Bhagavad Gita. Per i filosofi
è un Platone contemporaneo. Per i letterati è un poeta di lin-
gua inglese proposto per il Nobel. Per i discepoli è un saggio
antico, un maestro, un annunciatore. Ormai la sua faccia è
sui francobolli.
Tanta gloria è giusta, eppure l’ho in sospetto. Come se
coronasse il capo di mio padre. È una gloria esteriore, che
non tocca noi due. Egli potrebbe essere sconosciuto, reietto,
condannato e resterebbe mio padre. Venticinque anni fa mi
capitò di leggere un suo libricino: ne fui folgorato.
Domani andrò a Pondichéry. Temo l’incontro. Temo una
tomba forse troppo ornata; temo la venerazione dei discepoli
forse compunta; temo la santificazione forse chiesastica.
Temo mi gualciscano l’immagine che porto nell’anima.

Pondichéry, lunedì

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Pondichéry è un luogo qualsiasi con un mare qualsiasi,
un’ex colonia francese vecchiotta, le strade hanno ancora
nomi francesi, i gendarmi ancora portano il képi. Gli abitanti
sono tamil, razza di cultura antica, ma oggi gente grama, di
pelle negra, le gambe sottili e arcuate, i denti a rastrelliera.
Afa: d’estate sessanta gradi, d’inverno trenta, nel bimestre dei
monsoni tutto è rigato di pioggia e trasuda umidezza.
Com’è che vi trovo tanta gente venuta da ogni dove?
Ho conosciuto un canadese, rosso di pelo e gigantesco di
persona. Come l’ho visto gli ho inventato un nome: entronau-
ta. Durante l’ultima guerra è stato paracadutista e ne porta le
cicatrici. Ha avuto una vita avventurosa e violenta. Un gior-
no, sette anni fa, capitò qui. Non s’è mosso più.
Ho conosciuto Srimayi Pitoeff, la figlia di Georges e Lud-
milla. Srimayi è cresciuta a Parigi, ha recitato a Londra e a
Hollywood. È una donna bionda, con gli occhi cerulei, di
volto fine, d’animo delicato. È arrivata qui otto anni fa. Non
s’è mossa più.
Ho conosciuto un austriaco, asciutto, bruno di capelli e di
occhi. È maestro di judò, cintura nera, si chiama Joseph.
Cinque anni fa è venuto qui. Non s’è mosso più.
Ho conosciuto P.B. de Saint Hilaire, francese, alto, ma-
gro, di straordinaria vibrazione interiore. Si era da poco lau-
reato al politecnico di Parigi, quando venne qui. Ciò accade-
va quarant’anni fa: non s’è mosso più.
Ho conosciuto Alberto, un ingegnere fiorentino di sessan-
t’anni che ha costruito una fortuna lavorando in Africa e nelle
Americhe. Venuto qui tre anni fa, non s’è mosso più.
Ho conosciuto Maggi, scrittrice inglese, ho conosciuto
Satprem, scrittore francese: l’una ricca, intelligente, viveva a
Città del Capo, amata; l’altro fu a Buchenwald, andò in
Giappone; entrambi capitarono qui e non si mossero più.

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Ne ho conosciuto tanti, europei, americani, tibetani, afri-
cani, indiani, tutti qui, sono duemila a vivere in povertà, a la-
vorare senza compenso, salvo il vitto e il tetto, minimi. Nes-
suno ha denaro o quasi. Pochi leggono i giornali, non c’è te-
levisione, la radio è inascoltata. L’amore come noi lo inten-
diamo non esiste. Non esiste neanche una regola, tutti se ne
stanno sparpagliati per, la città, in case casette casupole.
Ognuno fa quel che vuole, ma vuole la saggezza.
Per raggiungerla, ciascuno si dà all’opera che più l’aiuta
nel proprio viaggio interiore. V’è chi compone musica, chi
governa le risaie, chi dipinge, chi sta in biblioteca, chi cucina,
chi fotografa, chi cura i bambini, chi cura i giardini, chi alle-
va le mucche, chi amministra, chi dà corsi universitari, chi in-
segna l’italiano, chi danza e chi recita, chi si occupa di sport,
chi di poesia. D’improvviso il cammino verso la saggezza
può compiere una svolta ed esigere un mutamento esterno:
ecco che lo scultore si fa ortolano. Al centro, immobile, una
donna di novant’anni, chiamata Mère, veneratissima.
Li guardo, non li capisco. Li ammiro, non li potrei imita-
re.

Pondichéry, giovedì
La tomba di Aurobindo non è enfatica, come temevo. Sta
nel giardino interno dell’edificio ove egli visse. È semplicissi-
ma, di cemento. Assomiglia a una fontana di villaggio, ma
invece d’acqua vi sono fiori. Tutta la superficie è coperta di
fiori, sempre freschi, disposti in maniere sempre nuove, se-
condo le loro forme e le loro tinte, gli splendidi fiori dell’In-
dia.

21
Qui non dicono tomba, dicono samadhi: noi diciamo Dan-
te è sepolto a Ravenna, essi dicono Aurobindo ha lasciato il
corpo a Pondichéry.
Dall’alba alla notte intorno al samadhi s’incontrano perso-
ne d’ogni età e d’ogni tipo. Vecchi con teste di filosofi greci,
giovani in raccoglimento, ragazze tibetane, discepoli occiden-
tali, asceti itineranti, donne che annaffiano i fiori e li rinnova-
no. Non v’è nulla di morto, anzi una presenza vibrante.
L’India venera i suoi grandi, noi no. Qui la capacità di de-
vozione è immensa, da noi è immensa la brutalità. Abbiamo
costretto Shakespeare a chiedere mance, Milton a vendere il
suo poema per qualche sterlina, abbiamo ridotto Tasso in cen-
ci, Verlaine alla mendicità, Cervantes in schiavitù, Dante in
esilio, Rembrandt alla disperazione, Vondel alla morte per
fame, Weininger al suicidio, abbiamo buttato i corpi di Mo-
zart e di Leopardi nelle fosse comuni e non li abbiamo più ri-
trovati. Guardo questa tomba fiorita e mi sento arrossire.
Alberto, che m’è divenuto amico e m’è di guida, mi conso-
la:
- Non rattristarti: fra poco avrai la fortuna d’incontrare
Mère, raro privilegio.
Nella sua voce v’è un fervore che mi sorprende. Lo fisso:
è sincero. Gli domando:
- Chi è Mère?
- Il suo nome è Mira. È nata nel 1878 a Parigi. Mezzo
secolo fa è passata da Pondichéry, ha visto Aurobindo, non è
partita più. Ne è diventata l’altro volto. Affrettiamoci, fra
poco ti riceve.
M’ha fatto salire scale, sostare in anticamere, entrare in
una stanzetta. Eccomi davanti a lei. Accoccolata, piccina,
antica.

22
Sùbito m’appare come una dama,: una grande signora,
una sovrana, una regina medievale che, con uno sguardo, può
guarire i malati. Sorride, mi parla, prende due fiori da un ce-
sto e me li porge.
I suoi occhi sono mirabili, giovani, non hanno novant’an-
ni. Occhi fuori dal tempo. Tace, mi fissa e mi sento aperto
davanti a lei, spalancato, senza timori, come il malato medie-
vale.
Adesso gli occhi sono d’oro.

Pondichéry, sabato
In tutto ciò v’è un segreto che mi sfugge. Debbo scoprir-
lo, perché è il segreto dell’India, è la ragione del mio viaggio.
Debbo capire come mai uomini e donne, non solo asiatici,
ma come me occidentali, s’arrestano qui, non se ne vanno
più, si spogliano di tutto con tanta spontaneità. Mi nasce
un’ipotesi:
- E se fossero felici?
Noi consideriamo la felicità impossibile. Ma se l’avessero
trovata?
Alberto cerca di spiegarsi con una parola sanscrita:
- Ananda.
- Cos’è?
- I greci dicevano eudaimonia. È la beatitudine autosuf-
ficiente di Platone.
- Cos’è?
- Difficile dirlo. Ineffabile. Non trovo le parole.
- Ma insomma cos’è?
- Che posso dirti? Un gaudio.

23
Sono andato da Maggi, scrittrice e perciò amante di paro-
le:
- Vuoi sapere cos’è? La felicità.
- Ossia?
- Senza ossia: la felicità.
- Ma come?
- Esultante.
Vede la mia faccia delusa e aggiunge:
- Conosci le gioie della vita, no? Hai notato che non dura-
no? Sono brevi, ce ne stanchiamo subito, passiamo dal desi-
derio alla noia. Invece ananda ci colma, perfetto, inalterabile.
In paragone, il resto cosa vuoi che conti?
Vado dal paracadutista canadese, l’entronauta. Cerca di
spiegarsi, meticolosamente:
- Mi chiami entronauta. Bene. Questa felicità è l’etere
del cosmo inferiore. Bene. Se ricadiamo sulla terra, la per-
diamo. Bene. E chi l’ha provata non può più vivere senza.
Inteso?
M’arrendo. Sì, ho inteso: è incomprensibile, incomunica-
bile.
Non ho altre domande, non hanno altre risposte. La sag-
gezza è sperimentale, come la scienza. Se vuoi conoscere il
cosmo, devi andarci.
Scriverò un libro. Lo chiamerò Entronauti. Andrò a cer-
carli, ovunque siano. Perché, capisci, questa gente ha trovato
la felicità.
Edoardo mi sorride:
- Eccoti il biglietto aereo Roma Nuova York Roma. Con-
tento? Un buon servizio: il pugilato come lo vedi tu.
- Mi sembri un bottegaio: hai pochi argomenti, ma li ripe-
ti. L’India come la vedi tu, il pugilato come lo vedi tu. Cam-
bia ritornello.

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Oggi è di buon umore e non ribatte. Anzi, apre un casset-
to e ne tira fuori una paginetta dattilografata. Me la porge:
- È il tuo coccodrillo. Puoi correggerlo. Te l’avevo pro-
messo.
Infatti ha come titolo il mio nome. Il coccodrillo è un ne-
crologio che i giornali tengono pronto in caso di morte di per-
sonaggi o anche solo di collaboratori abituali, noti ai lettori.
È il caso mio e infatti l’intera mia esistenza è in quella pagi-
netta.
Non la leggo, gliela restituisco:
È strano, Edoardo, come un altro possa metterci in un fo-
glio, mentre da soli non sappiamo stringerci in un’enciclope-
dia.

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